Lo Squero: il pugno di ferro di Comune e Soprintendenza cancella un altro storico locale

Lo Squero: il pugno di ferro di Comune e Soprintendenza cancella un altro storico locale

Già demolita la terrazza, il resto andrà giù a breve. Lo Squero, quasi mezzo secolo di vita, non potrà fare nemmeno l'ultima stagione e una struttura chiusa in quella posizione non è un grande spettacolo. "Nessun tipo di dialogo con l'amministrazione comunale. Nel corso degli anni abbiamo apportato solo migliorie e pagato i tributi e il Comune rinnovava la licenza". Poi l'improvvisa svolta. Stesso trattamento per tutti? Ai posteri l'ardua sentenza.

Il signor Paolo Breccia, originario della Valle del Metauro, comincia l’avventura della ristorazione nel 1972. Con un socio prendono in gestione il ristorante Quo Vadis e lo gestiscono fino al ’76, quando iniziano una nuova sfida in un locale sul lungomare Tintori: una pizzeria che si chiama “Da Mario”. Poco alla volta, rinnovano le attrezzature, ormai inadeguate e fatiscenti, eliminano il forno per la pizza e scommettono tutto su di un solo elemento: il pesce. È rischioso: spese, impegno fisico e mentale, sudore e investimenti sono copiosi, ma l’impresa riesce. Sono anni in cui Rimini è un ferro rovente, uno dei dardi più efficaci che escono dalla fucina del turismo italiano. Nasce “Lo Squero”. In breve diventa un punto di riferimento importante della ristorazione. E lo rimane anche quando il “dardo” si raffredda e i “centri” sul “bersaglio economico” locale diventano via via difficoltosi. Nel 2014, il signor Breccia e il socio prendono strade diverse. Nello stesso anno, il figlio Thomas subentra nella gestione del locale. Dopo sei anni e ben 44 dalla prima accensione dei fornelli che hanno visto mamma Ornella dirigere l’orchestra di cucina, le cose prendono una direzione che per la famiglia equivale a un colpo di maglio al plesso solare. Arriva l’ingiunzione di demolire gran parte della struttura del ristorante. Abbiamo chiesto e ottenuto un incontro con Paolo e Thomas Breccia. La loro storia ci coinvolge in quanto riminesi, prima che come giornalisti. Del dialogo avuto, per praticità, non riporteremo se chi risponde sia il padre o il figlio. La voce è comunque una: è quella della famiglia.

Non possiamo (tecnicamente) e non vogliamo (eticamente) entrare nel ginepraio burocratico della vostra disavventura. Però dobbiamo rilevare che in un momento così tragico per le morti da Covid e per la conseguente situazione economica a livello mondiale, quindi nazionale e cittadino, si spegne una delle luci più brillanti della ristorazione locale. Dunque, è cominciata l’opera di smantellamento…
«Abbiamo appena demolito la terrazza, poi toccherà alle due sale. Praticamente rimarrà solo la parte della cucina, quella dei bagni, del magazzino e della cantina. Stop».

Quanti posti a sedere pensate che avrete, alla fine della “scampagnata” delle ruspe?
«Al coperto, zero posti a sedere e dunque zero possibilità di lavorare. Fabrizio Fugattini (Settore Sistema e sviluppo economico di Rimini), l’ultima volta che ci siamo visti mi ha detto: “appena avrete finito di fare tutti i lavori, presentate i documenti al S.U.A.P. (Sportello unico per le attività produttive) e vi diamo la licenza”».

È già qualcosa. Un punto di inizio. Una ricostruita verginità assecondata dalle istituzioni.
«Dice? Durante il periodo di “lockdown” ho tentato diverse volte di telefonare in Comune. Per un paio di mesi non ha risposto nessuno. Isolamento totale. Solo l’otto di maggio ci hanno comunicato che per quest’anno ci avrebbero fatto riaprire adoperando solo lo spazio sul marciapiede. Con gli ombrelloni. E basta. Senza sala, senza tenda fissa. Nulla. Praticamente avremmo avuto a disposizione dai 25 posti a sedere che sarebbero arrivati alla cifra di 40/50 se ci avessero concesso (causa emergenza Covid) ulteriori posti sulla strada (vedi Coconuts; ndr). Per ipotesi, in un giorno di pioggia saremmo rimasti chiusi in cucina con tredici dipendenti ad aspettare che spiovesse».

Paolo e Thomas

Vi hanno ridotto ai minimi termini. Intravvedete altre possibilità?
«Abbiamo ancora la flebile speranza che nel R.U.E. (Regolamento Urbanistico Edilizio) riescano a considerare un aumento di cubatura che ci consenta di mettere almeno 30 o 40 persone al coperto. In caso contrario, significherebbe aprire a maggio e chiudere a metà settembre. Neppure come un chiosco in spiaggia, facendo tutto un altro lavoro e dimenticando per sempre tutto ciò che si è fatto finora».

Lo Squero negli anni 70

State dicendo che il famoso “Lo Squero”, ristorante di pesce con cucina di un certo livello, al momento è parcheggiato su un binario morto. Come si è arrivati a questo doloroso frangente?
«Cercherò di sintetizzare al massimo. Ci sono stati i condoni del 1985 e del ’95, presentati peraltro per moltissime strutture, nel riminese. Lo abbiamo chiesto anche noi. Il Comune ha dato parere favorevole. Per un certo tempo è rimasto tutto fermo. Alcuni locali sono stati sanati, altri (tra i quali noi) hanno avuto il diniego della Soprintendenza. Intorno al 2000 si è fatto un ricorso rimasto in giacenza per diversi anni. In seguito, dopo che il Comune di Rimini nel 2017 ha acquisito dal Demanio l’area tra largo Boscovich, il lungomare Tintori e Largo Colombo, il cosiddetto “triangolone”, è riemerso il vecchio diniego della Soprintendenza. Abbiamo cominciato con i ricorsi, ci hanno revocato la licenza, chiesto la demolizione e il ripristino per abuso edilizio. Nel 2018 i passaggi sono stati: tribunale di Rimini, T.A.R. (Tribunale Amministrativo Regionale), Consiglio di Stato. Ci hanno dato sempre torto anche se a parere del nostro legale ci potevano essere scenari diversi da quello attuale. Eravamo partiti con un certo ottimismo. Anche perché ci sono state sentenze favorevoli a un paio di locali a Rimini nord con situazioni simili alla nostra. Purtroppo, per noi è andata diversamente. La sentenza è arrivata il 6 marzo. E subito dopo anche il Covid. Tuttavia si pensava di fare la stagione estiva. Al termine avremmo cominciato i lavori, invece… ».

Quando avete cominciato la vostra attività, il locale era già strutturato come lo si vede oggi?
«Alla fine degli anni settanta la sala era chiusa con infissi scorrevoli (come si vede dalle foto). La chiusura esterna pertanto era già esistente. La copertura è la stessa che era visibile anche allora. Non ci siamo allargati. Il locale, all’inizio era una piccionaia. La terrazza, quella parte esterna verso Riccione, appena abbattuta, risale al 1984/85 (prima richiesta di condono). Piano piano, abbiamo rinnovato l’arredamento. Nel 1988 abbiamo fatto anche importanti lavori di ristrutturazione interna costati circa 900 milioni di lire. In sostanza, nel tempo abbiamo apportato solo migliorie e pagato, fino allo scorso anno, i tributi (16.000 euro solo di tassa raccolta rifiuti, tanto per dire) su 400 metri quadrati e non sui 160/170 che rimarranno».

«Alla fine degli anni settanta la sala era chiusa con infissi scorrevoli».

Quindi, il Comune era al corrente dei lavori che avete fatto. E li aveva approvati. Vi sentivate tranquilli, dopo la concessione del rinnovo?
«Certo che lo sapeva. E infatti lo attesta il rinnovo della licenza. Diversamente, dato che preventivamente eseguono controlli, non l’avrebbero rilasciata. I documenti della nostra condanna sono stati tenuti nel cassetto per tanti anni. Adesso è arrivato qualcuno che ha pensato bene di “castigare” tutti. Non solo noi… ».

In pratica, quasi senza saperlo, siete stati per 30 anni nel braccio della morte. Che fortuna.
«Sì, e il Comune non è che ci abbia dato un aiuto per cercare di modificare qualcosa. Gli amministratori di una città hanno strumenti urbanistici che danno qualche possibilità di movimento; un’elasticità amministrativa che serve a mediare e risolvere situazioni. Invece ci hanno tagliato le gambe. Il Comune si è “chiamato fuori”: ci ha lasciato nelle mani del tribunale».

La sala interna alla fine degli anni 70

Nel recente caso dei “Dehor”, invece, l’amministrazione si è schierata con gli esercenti.
«Verissimo, ma con noi non c’è stato dialogo. La partenza è avvenuta con il sopralluogo dell’Ufficio Edilizia del Comune di Rimini. L’arrivo è stato in tribunale. Nel frattempo, non abbiamo avuto nessun tipo di dialogo con l’Amministrazione».

Avete provato a stimolare uno scambio di idee, proposte, cercato un sereno colloquio tra le parti?
«Abbiamo tentato più volte. Anche tramite il nostro avvocato. Ma non c’è stato nulla da fare».

Presumibilmente ci saranno altre realtà molto simili alla vostra.
«È vero. Una, in particolare. Il proprietario aveva un problema identico al nostro. Ed è riuscito a condonare. Noi no. E dire che le altezze erano le stesse… ».

La buona o la cattiva sorte a volte dipendono da fattori imperscrutabili. Quasi esoterici…
In realtà, facendo un giro dall’alto con Google Maps, nel cosiddetto “triangolone” si vedono superfici anche più estese di quelle de Lo Squero. Ma a parte questo, se dal cielo del web si scende a terra, il contesto generale è preoccupante. Di locali chiusi ce ne sono parecchi. Alcuni di essi denunciano chiaramente il ritiro dalle competizioni. La zona più appetibile, commercialmente parlando, si sta afflosciando su se stessa. A cominciare dal celebre “Nettuno” fino ad arrivare all’ex “Ristorante dei Marinai”, sull’estremo lembo del “Triangolo” che lambisce il porto canale è un pianto. Se a peggiorare la già precaria salute turistica ci si mettono anche le istituzioni è finita. Siete d’accordo?

«La pensiamo esattamente così anche noi. Ci sono le situazioni più disparate. Cosa vuole, errori certamente ne sono stati commessi, ma è ragionevole affermare che il tessuto produttivo turistico ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo di Rimini. Nel momento in cui i segnali di crisi erano già inequivocabili (oggi, il Covid ha dato quasi il colpo di grazia) come detto in precedenza, ci saremmo aspettati che il Comune si confrontasse con gli operatori del settore per trovare soluzioni. Non è successo».

Il disappunto dei riminesi è considerevole. Anche se non sono direttamente coinvolti, si dispiacciono che un locale storico e rappresentativo come lo Squero sia annientato con uno schiocco delle dita.
«Oltre alla nostra, va messa in conto la perdita economica dei dipendenti e una diminuita offerta nei confronti del turista. Non le dico l’incredulità degli “habitué”. Riceviamo continuamente telefonate dai nostri clienti più affezionati (riminesi e non, sono molti) che non si capacitano della chiusura. Dopo oltre quattro decenni e due soli chef (oltre alla presenza costante di mamma) che si sono avvicendati al timone della cucina, di storicità ce n’è parecchia… ».

Significa che il ristorante ha funzionato, il cibo è stato apprezzato e la città forse perde un riferimento. Non di certo l’unico, ma una voce che viene a mancare, nel coro si avverte.
«Escludendo l’apertura monca e scoperta di cui si parlava prima, abbiamo avuto l’opportunità di prendere in gestione il bar sulla spiaggia del bagno 51. Ora facciamo la stagione qua. Lo abbiamo chiamato Lo Squero beach (Lido 51) Rimini. In autunno, si vedrà. Terminati i lavori di demolizione, se il Comune avrà intenzione di incontrarci, vedremo, altrimenti restituiremo le chiavi e amen. Ma ancora speriamo in un sussulto di ragionevolezza».
Buon lavoro, ma soprattutto, buona fortuna.

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