Lockdown, smart working, booster, through… basta! Fidatevi di Zia Rosina e Umberto Eco

Lockdown, smart working, booster, through… basta! Fidatevi di Zia Rosina e Umberto Eco

“Le parole straniere non fanno affatto bon ton”. Lo pensava e lo scriveva il semiologo di cui si ricorda in questi giorni il novantesimo della nascita. Lo pensano in tanti che accademici non sono ma che non ne possono più degli anglicismi scaricati col pilota automatico laddove si potrebbe utilizzare la bella lingua italiana. Divertissement (ops!) semiserio su una pandemia curabile senza vaccino.

Dalle vibrazioni armoniche prodotte dalle corde vocali degli italiani, dal punto di vista grammaticale prende vita una delle lingue più complicate, ma anche tra le più belle e musicali del mondo. Le contaminazioni con idiomi di altri paesi la possono arricchire di svariate sfumature con il risultato di renderla ancor più viva e intrigante. Non è detto che ciò succeda sempre. Considerato che non esiste un criterio preciso, se non quello del buon gusto e della misura, queste regole non scritte vengono tradite quando si sprofonda per troppa frequenza nell’uso di termini stranieri, attualmente perlopiù di origine anglosassone. E sorvoliamo sul fatto che oltretutto questi vengono spesso storpiati.
L’ultimo rapporto internazionale stilato nel 2021 dalla società scandinava Education First sulla competenza dell’inglese nel mondo, ci vede solo al 35° posto. Del resto abbiamo ammirato fior di nostri ex premier massacrare l’inglese in eurovisione e autosputtanarsi a vita. Quindi c’è poco da stare allegri.
Quanto a noi riminesi, non dimentichiamo che siamo nella patria del “guasi” e del “quanto andevamo, vedavamo ecc.”. Prima di volgere gli occhi altrove, forse sarebbe meglio dare una regolata alle valvole del parlare indigeno. Ma va di moda usare termini inglesi. Guarda caso, questa usanza viene sistematicamente adottata nel mondo della sanità e della finanza, entrambi universi dove la fumosità aiuta a nascondere magagne, intimorisce i più umili o i meno attrezzati culturalmente e li dissuade dal fare troppe domande. Poi naturalmente ci sono anche molti frustrati convinti che questo basti per emergere anche di un solo dito al di sopra della melma nella quale nuotano.
Nemmeno il Comune di Rimini sul suo sito internet resiste ai modaioli richiami di Albione e scrive “waterfront” in luogo del più fluido ed elegante lungomare, e hub vaccinale al posto di “centro vaccinale”, termine evidentemente giudicato troppo plebeo. Questo, giusto per citare solo un paio di escursioni anglofone.
Ora però devo per forza far entrare in scena mia zia Rosina, testimone suo malgrado che i limiti di cui ho fatto cenno più sopra non andrebbero oltrepassati. Anche se le lingue sono in continua evoluzione grazie a battute di pesca in acque straniere, e ci mancherebbe altro, quando la misura è colma forse è meglio fermarsi. Lo pensa zia, ma soprattutto direi che lo pensava Umberto Eco (1932 – 2016), di cui tra l’altro è stato appena ricordato il novantesimo anno dalla nascita.
La bustina di Minerva era una rubrica che l’accademico ha iniziato a tenere sull’ultima pagina dell’Espresso nel marzo del 1985 e condotta fino al 2016. In seguito, le “Bustine” sono state raccolte in un libro edito nel 2000 da Bompiani.
Eco, a cui non faceva certo difetto l’ironia, in uno di quei graffianti scritti suggerisce in maniera puntualmente scanzonata le quaranta regole che ritiene utili per una scrittura dignitosa. Una di queste, la numero dieci, scandisce che “Le parole straniere non fanno affatto bon ton”. Ovviamente, lo scrittore gioca su quelle due parole volutamente esotiche, mentre alla casella quattordici emette un perentorio “Solo gli stronzi usano parole volgari”. Per evitare di passare quale massa fecale solida di forma cilindrica, come da definizione della Treccani, starò molto attento a non cadere nella volgarità, ma la santa regoletta numero dieci mi stimola a riportare, attenuando termini e portata di fuoco, le recenti vibrate proteste di mia zia Rosina, condite da improperi irripetibili sventagliati a raggiera contro l’universo intero.
L’ottuagenaria zietta non si capacita proprio del fatto che la sanità abbia adottato in blocco una terminologia a lei spesso incomprensibile e ostica dal punto di vista della pronuncia; comunque mal sopporta il mancato uso di vocaboli italiani. Quali sono quelli che pur avendo un corrispettivo italianissimo stanno viaggiando per la maggiore nel periodo di pandemìa che attraversiamo? Questi: a partire dal più celebre, il più epidemico, l’insopportabile Lockdown (isolamento; chiusura), poi smart working (lavoro agile; una forma di telelavoro), screening (protocollo di indagini diagnostiche), surgery (chirurgia), follow-up (controllo del decorso di una malattia) e poi booster (richiamo), cluster (grappolo), ma come botto finale, l’orripilante caregiver (chi accudisce; chi assiste una persona non autosufficiente).
Se dicessi a zia Rosina che all’occorrenza mi proporrei come suo caregiver, mi tirerebbe immediatamente un calcio nel culo. Sono certo che in questo caso anche Eco perdonerebbe l’inciampo nella volgarità. Del resto, quello appena citato in definitiva è l’unico responsabile di tutti i cilindretti di cui sopra. Comunque, tra i vocaboli in odio alla zia ce n’è uno in particolare che ha provocato il suo ultimo sdegno quando, affrontandomi torva come se fosse colpa mia, mi sputazza in faccia uno sfilacciato «Che cavolo significa drive through?». La zia tiene molto alla pronuncia e “through” prevede adeguate posture linguali che a distanza ravvicinata sortiscono inevitabili conseguenze. Le spiego che nel nostro misero idioma il termine è configurabile come “postazione mobile raggiungibile in auto dove è possibile effettuare un tampone nasofaringeo senza scendere dalla macchina”.
Questo è un lusso che ci concediamo grazie alla SARS-CoV-2 che ha prodotto anche la valanga di vocaboli inglesi. Di entrambi non se ne sentiva la mancanza. Rimango, ma solo per un istante, in ambito medico. C’è un termine da trattamento con antistaminici: “endorsement”. In sostanza significa approvazione. A causa della malefica parola importata intorno al 2011 da un pessimo maestro ingessato che non cito nemmeno perché tendenzialmente preferisco il mare ai Monti, il malefico brevetto, da quel momento ha fatto furore. Da lì, arrivare a “spending review” (banalmente, revisione di spesa) è stato un attimo.
L’apoteosi masochistica si raggiunge con l’inascoltabile “step child adoption” (adozione del figlio biologico del coniuge o del partner). Pronunciarlo è piacevole come avere una lancia piantata tra le scapole. Tanto che riguardo a “step child adoption” la televisione ci ha presentato esilaranti interviste a uomini politici con la lingua intorcinata nel tentativo, quasi sempre miseramente fallito, di articolare la frase in oggetto.
A questo punto, il consiglio rivolto ai sostenitori del trend (ci si attaccassero) è quello di andare almeno a lavare i panni, non in Arno, ma sulla riva della Manica, a Brighton, luogo raccomandato per acquisire un buon accento inglese. E se la tendenza, o meglio il trend è questo, si sappia che le rivoluzioni, piccole o grandi che siano, esigono un contributo di sangue (linguistico). Ma per carità, cerchiamo di fermare l’emorragia.
Riporto un episodio accaduto a un turista che in un bar di Rimini aveva appena letto una pubblicazione del Comune: «Scusi, mi sa indicare il “water front”?». Risposta: «Sì, è in fondo a destra, ma ci vuole la chiave. Ora gliela do». THE END.

p.s. – Per la stesura di questo articolo non è stata maltrattata nessuna vecchietta e la parentela è del tutto immaginaria, frutto di uno dei miei frequenti incubi notturni. Non ho anziane zie, tantomeno una di nome Rosina. Penso tuttavia di avere interpretato il pensare di molte persone, più o meno giovani che si trovano a disagio con termini non necessari e che non facilitano la vita di nessuno. Anche perché esiste sempre un corrispondente vocabolo italiano, spesso più appropriato e molto facilmente, più armonioso. E si sente l’Eco!

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