Ma Fellini sarebbe seccato dall’uso propagandistico e rozzo delle sue opere

Ma Fellini sarebbe seccato dall’uso propagandistico e rozzo delle sue opere

«L'interpretazione della Rimini felliniana di Nadia Urbinati è magistrale e certamente può essere una chiave del conflitto culturale politico che ci travaglia al momento». La versione di Giovanni Rimondini.

Cara Nadia, la sua interpretazione della Rimini felliniana è magistrale e certamente può essere una chiave del conflitto culturale politico che ci travaglia al momento. Tuttavia c’è un’altra Rimini postfelliniana – Fellini ha vissuto qui negli ultimi anni del fascismo – uscita da una distruzione bellica dell’80% del centro storico e da una mutazione antropologica dei suoi abitanti, arrivati in maggioranza dalle campagne e da altre parti d’Italia come protagonisti di un boom turistico popolare certamente di fondamentale interesse ma, unito a una ricostruzione selvaggia e rozza gestita dagli orchi redditieri urbani – che ci è costata il disonore perenne del verbo “riminizzare” – ha fatto della nostra città l’incubo degli storici e degli storici dell’arte.

IL SINDACO, IL VESCOVO E BERNARD BERENSON

Lei certamente conosce il diario di Bernard Berenson venuto a Rimini con un bel gruzzolo di dollari della Kress Foundation per il restauro del Tempio Malatestiano – smontaggio delle parti di pietre d’Istria e loro ricomposizione per anastilosi -. Il grande critico americano si vide venirgli incontro il sindaco comunista e il vescovo a chiedergli il gruzzolo in cambio gli avrebbero dato dei pezzi del Tempio, destinato a diventare, secondo una voce che circola ancora, “il condominio Tempio Malatestiano”. Lo stesso sindaco comunista, il primo eletto con preferenze a plebiscito nel dopoguerra, mise mano alla distruzione del Kursaal, certamente divenuto simbolo del passato regime, ma accanitamente voluta dall’architetto bolognese – bravissimo autore della Colonia Agip di Cesenatico – Giuseppe Vaccaro (1896-1970) che doveva costruire un grande albergo con la facciata che dava sul piazzale del Kursaal e che temeva che il maestoso Kursaal opera dell’allievo di Luigi Poletti, Gaetano Urbani (1823-1879) – ingegnere comunale, autore del piano regolatore di Marina e delle due ville superstiti Lega Baldini e Solinas, oggi Maggioli – rubasse la scena alla elegante ma sobria, calvinista, facciata del suo albergo.
Al sindaco Cesare Bianchini costò caro il plebiscito che aveva suscitato gelosie mortali nella federazione comunista di Forlì, allarmata dall’indipendenza che il giovane sindaco, appena ventenne, dimostrava in tema di relazioni economiche e finanziarie. Terrorizzato dall’attacco furibondo del partito – formalmente giustificato per l’uso del titolo di ingegnere e per contatti personali con gli affaristi, e si dice anche da minacce di morte – il sindaco diede le dimissioni e fuggì in Argentina.
Questo cessato sindaco Andrea Ganssi, cara Nadia, è l’ultimo erede a molti titoli di Cesare Bianchini e facciamo voti che sia l’ultimo di una tetra per la cultura stagione postbellica.

RIMINI RIMINIZZATA

Caddero nella ricostruzione diversi palazzi nobiliari, coi loro scaloni, stucchi e pitture, rimasti indenni o quasi. Il disastro più grave fu la distruzione del palazzo del Cimiero, sede malatestiana, forse la più importante, e del contiguo palazzo Parcitadi, intatto, del ‘200. Per non contare decine di pavimenti a mosaico romani sbriciolati di nascosto. Rimini era diventata una città senza storia, malgrado la disperata resistenza di sopravvissuti intellettuali come Alessandro Tosi e Vittorio Belli, Augusto Campana e i direttori della Gambalunga Carlo Lucchesi e Mario Zuffa, quest’ultimo famoso etruscologo, che salvò il mosaico sotto il Cimiero, minacciato da un pataca di geometra con il revolver. Sì anche questo è felliniano.

CASTEL SISMONDO SFORTUNATO CAPOLAVORO ASSOLUTO

Pensi cara amica, se posso permettermi la confidenza, ad una pubblicità di una presentazione di Rimini in questi termini: Rimini possiede Castel Sismondo opera del Brunelleschi e il Tempio Malatestiano, opera dell’Alberti e un affresco di Piero della Francesca che riproduce il castello, le tre generazioni dei sommi prospettici del Rinascimento…Piero aveva lasciato nell’oratorio tra le cappelle uno splendido affresco prospettico, che oggi è stato spostato su un altare al buio, perché?
Perché il privato cum imperio si è incaponito a farlo spostare con la motivazione che sarebbe stato dipinto in una cappella. E questa è certamente un’altra perdurante caratteristica felliniana della nostra povera città.
Si aspetta un vescovo con una sicura cultura artistica che lo riporti dove Sigismondo Pandolfo l’aveva voluto e Piero dipinto.

Il castello ebbe la sventura che “gli storici riminesi”, senza accorgersi della miracolosa fortuna che gli era capitata, si incaponirono a sostenere che l’autore del castello era stato lo stesso Sigismondo Pandolfo Malatesta. E’ temerario opporsi alla tradizione, scrive il Malvasia che dicesse Agostino Carracci al cugino Ludovico e al fratello Annibale che stavano rivoluzionando la pittura bolognese della fine del ‘500. Osservazione giusta, io stesso nei primi momenti non riuscivo a capacitarmi che il castello fosse un’opera dell’immenso architetto fiorentino. E poi ripercorrendo la tradizione critica internazionale estranea a Rimini, mi sono accorto che studiando il castello nella giusta prospettiva le ‘prove’ della sua autoria brunelleschiana venivano aumentando e precisandosi. Quali prove?
Gaetano Milanesi alla fine dell’800 aveva scoperto la prova storico letteraria fiorentina del contemporaneo Antonio Manetti: “fece un castello, fortezza mirabile al Signor Gismondo di Rimino”, e poi il tedesco Cornelius von Fabriczy aveva scoperto le prove documentali di un altro miracolo: il viaggio del Brunelleschi a Rimini nell’agosto e ottobre del 1438.

ROBERTO VALTURIO ATTRIBUISCE IL FOSSATO (METONIMIA, OSSIA PARTE PER IL TUTTO, DEL CASTELLO) AD “UNA GRANDE MENTE E AD UN FAMOSISSIMO INGEGNO, CHI SARÀ MAI ALLA METÀ DEL 400?

Ed ecco un altro tassello convergente: Roberto Valturio nella descrizione del castello nel primo libro del De re militari richiama la nostra attenzione per ben tre volte in una pagina in folio sulla novità straordinaria del fossato – e usa due metafore: somiglia alle piramidi, e somiglia agli argini di un fiume, immagine quest’ultima che ricorda il Vauban -. Credevo di avere fatto la scoperta della terza prova, perché di chi poteva mai essere l’OPUS della magna mens e del perillustris ingenium, la grande mente e il ‘famosissimo’ ingegno se non quelli di Filippo Brunelleschi? Ebbene a mortificare il mio narcisismo da Bononia docet così irritante, mi dicono, mi venne in aiuto uno sprazzo saltuario di memoria e recuperai gli appunti delle lettere di Francesco Algarotti (Venezia 1712 – Pisa 1764) a Jano Planco; era stato il poliedrico intellettuale veneziano ad accorgersi dell’attribuzione valturiana – Opus – anche se al posto del nome vi era una peculiare straordinaria descrizione della reputazione del Brunelleschi.

RESTAURI E STUDI DI CASTEL SISMONDO NEL DOPOGUERRA

In sintesi, sulla ricerca storica del castello di Rimini abbiamo avuto dal dopoguerra sindaci senza storia. E va bene, Andrea è stato mio allievo di storia e filosofia, ammetto la mia corresponsabilità che mi spinge a contrastarlo. Malgrado due campagne di restauri e diversi incontri e pubblicazioni anche internazionali, ad opera della Fondazione Cassa di Risparmio, sul Brunelleschi abbiamo ancora storici addormentati nel bosco della tradizione, così il castello è stato ridotto a “contenitore” di un museo Fellini che non lega con lui a nessun patto.

IL FOSSATO CON SPETTACOLARI SPAZI ARCHITETTONICI

Torniamo al De re militari, il protagonismo del fossato. Purtroppo riempito con le macerie della cattedrale di Santa Colomba (VI-XIII secoli), all’inizio dell’800, quando venne trasformato in ‘contenitore’ del carcere comunale, il fossato è tuttavia recuperabile con la promessa di spettacolari spazi architettonici: scarpe e controscarpe – così si chiamano le parti oblique dei muri di cinta e delle torri – alte 15 metri, forse con bombardiere e gallerie di servizio, “false porte” e chissà cos’altro, invenzioni della scomparsa architettura ossidionale di Filippo Brunelleschi.

IL RAPPORTO DI FELLINI CON RIMINI E CON LE TETTE DEV’ESSERE OGGETTO DI INDAGINI NON ESIBIZIONE DI STEREOTIPI SORDI E CIECHI

Il rapporto di Fellini con la Rimini del dopoguerra non è stato dei più felici. Malgiudicato a Rimini dagli intellettuali comunisti per il suo non allineamento con il “realismo sovietico” filmico, fino al falso invito con bugiarda promessa di una casetta sul porto. Una beffa, certamente apprezzata dal sarcastico Fellas che veniva a Rimini di notte per passeggiare con l’amico Titta Benzi.
Adesso, come in molti hanno immaginato, sarebbe seccato dall’uso propagandistico e rozzo delle sue opere fatto da Andrea Gnassi il motociclista “sindacone” delle Notti Rosa.

E poi il rapporto di Rimini con le donne, con le donne di Rimini. Non sto parlando dei rapporti personali, ossia della sessualità di Fellini, che è un affar suo di scarso interesse. Parlo delle sexual personae, per usare un’intelligente metafora di Camille Paglia, delle donne mostruose, personaggi costanti con le quali il regista ha popolato i suoi film. Ci sono da trovare delle ‘ragioni’ di questa teratologia femminile filmica.

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