Roma apre una mostra sul geniale artista, che ha disegnato le più belle cartoline di Rimini. Eppure, meglio foraggiare ‘Al Meni’ – fa più figo ed è elettoralmente più utile – che dare nuova vita e nuovo slancio al Museo civico – che ne avrebbe tanto bisogno.
Tutti pazzi per l’artista che ci incarcera nelle sue follie
Gita nella mia mente. Per qualche settimana ho avuto la fissa di Marguerite Yourcenar. Ho ripreso le Memorie di Adriano, estasiandomi fino a rompermi le palle. Sono passato alle interviste, ai racconti d’Oriente, all’elogio arcadico di Yukio Mishima. Sintonizzata sulle antichità romane, la Yourcenar andava pazza per Giovan Battista Piranesi, il superbo disegnatore, “uno dei pochi geni tragici d’Italia, avendo a soli compagni Dante e Michelangelo” (Mario Praz). Il suo amore è spiegabile: le rovine romane riverberano di alchimie sinistre. Nella stessa tavola la Roma di Adriano invoca atmosfere rotte e corrusche tratte da L’opera al nero, l’altro capolavoro di Marguerite. Più che altro, la scrittrice adorava le Carceri d’invenzione (1760-61), una serie di tavole labirintiche, dove archi involuti, scale impossibili e profondità non euclidee danno architettura al caos. “Questo mondo privo di centro è in espansione perpetua”, scrisse la Yourcenar in Le cerveau noir de Piranèse, “questo mondo aggomitolato su se stesso è matematicamente infinito”. Quelle Invenzioni capricciose di Carceri (questo il primo titolo del ciclo) innescarono, in effetti, la mania in una sfacciata serie di scrittori. “A proposito delle Carceri si è pensato a Goya e si può pensare anche alla Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges”, medita Praz. Per Horace Walpole, l’inventore del ‘romanzo nero’ con Il castello di Otranto (1764), Piranesi è “selvaggio come Salvator Rosa, violento come Michelangelo ed esuberante come Rubes”, è un titano della fantasia che “ha immaginato scene che farebbero sussultare la geometria ed esaurirebbero le Indie se dovessero venir tradotte in realtà”. Amato dagli artisti ‘lisergici’, è esemplare lo sketch che ci narra l’incallito fumatore di oppio Thomas De Quincey: insieme a Samuel Taylor Coleridge – il magnetico poeta della Ballata del vecchio marinaio – la coppia si sballava ammirando il “Piranesi in delirio”, “il disperato Piranesi” che percorre una scala inutile, che “si perde nella tenebra dell’enorme ambiente”. Bella storia, dirà il riminese puritano, ma a me chemmenefrega? Ci arrivo.
Cartoline riminesi in Europa (altro che Cattelan…)
Roma in questi giorni (dal 16 giugno al 15 ottobre) ospita in Palazzo Braschi una grande mostra su Piranesi, s’intitola Piranesi. La fabbrica dell’utopia (se vi va, vedete qua). Visto che non riesco a passare da Roma, passo per Milano e compro, in una bancarella, Le carceri di Piranesi con il bel commento di Mario Praz (edizione Abscondita, 2011). Il libro si apre con un ruvido Ritratto di Giovan Battista Piranesi del 1750, inciso da Felice Polenzani: Piranesi è un bellimbusto seminudo, che si erge tra una teoria di foglie e di rovine, con una faccia scura, inquieta, già romantica. Leggendo il testo di Praz scopro ciò che tutti sanno ma che io m’ero scordato. Procedendo nell’immane lavoro sulle Antichità romane, Piranesi compila le Antichità Romane de’ tempi della Repubblica (1748), “risultato dei suoi sopralluoghi a Pola, Ancona, Verona, Rimini e Spalato”. Il lavoro, immane, è importantissimo perché è Piranesi a ‘ricreare’ la romanità nel folto del Settecento, a dare all’Europa una serie di sublimi – nel senso romantico del termine – ‘cartoline’ di Roma, investendo “d’uno spirito nuovo concetti già logori come le ‘meraviglie’, i ‘tesori’, le ‘magnificenze’ di Roma” (Praz), invocando l’epoca dei ‘grand tour’ tra i ruderi del tempo che fu. Il Walpole che ho spiattellato sopra andava in estasi per “i sublimi sogni di Piranesi, che sembra aver concepito visioni di Roma al di là di quanto essa vantava perfino all’apogeo del suo splendore” (tipica iperbole pre-romantica). Dunque, Piranesi è stato a Rimini. Soprattutto, ha disegnato Rimini. Altro che le cartoline farlocche di Cattelan, verrebbe da dire.
Una sfilza di Piranesi al Museo
Piranesi, questo Prometeo dell’acquaforte, ha eternato i luoghi mitici di Rimini: l’Arco d’Augusto, con “la folta vegetazione rampicante che gli conferisce un tono di ‘pittoresco’ abbandono” (così la scheda dell’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della nostra Regione) e il Ponte di Rimino fabbricato da Augusto e da Tiberio imperatori, con “il contorno di fogliami e cespugli tipici di una concezione romantica delle rovine classiche”, che diventa “un canone per molte riproduzioni a stampa successive” (Giulio Zavatta). Non è tutto. Dal 1998, per merito e dono “dei coniugi Marco Bastoni e Daniela Bartolini” il Museo civico custodisce l’incisione piranesiana dell’Arco d’Augusto; mentre dal 1995 è in sede anche la visione dell’Arco di Settimio Severo, “parte delle 39 opere della collezione Gustavo Voltolini, donate ‘post mortem’ al Museo della Città”. Insomma, c’è un bel po’ di Piranesi nella collezione civica riminese, hip hip hurrà.
Meglio magnare nel tendone che ammirare il Bellini
E ora passiamo dal protagonista al particolare, dal sublime all’orrido, da Piranesi al Museo della Città di Rimini. A dispetto di quanto vuole il buon governo – prima bada a migliorare i servizi civici, poi, semmai, al resto – il governo della Giunta Gnassi II, lo sappiamo, usa la cultura per fini elettorali, con lo scopo di promuovere se stesso. Al posto di curare il Museo civico, si aprono altri fatidici musei – il Museo Fellini, per dire, e attendiamo ancora di capire come, quando, perché e cosa ci metteranno dentro – si foraggiano altri spazi e altri eventi, purché sia. Non è una illazione mia, cari miei, ma carta che latra, il Documento Unico di Programmazione del Comune di Rimini per le annate 2017-2021. Beh, nel fatidico Dup non v’è cenno al Museo civico né a un suo rinnovamento – al di là delle bizzarre ‘nuove ali’, che mettono le ali all’arte contemporanea secondo i diktat dell’Assessore ‘alle Arti’ – lo danno per scontato, che palle, d’altronde, meglio un deejay set al molo che una visita al Bellini al Museo. Tra i ‘risultati attesi’ segnalano “estensione e potenziamento delle iniziative già esistenti, già consolidate quali, ad esempio ‘La Notte Rosa’, ‘Il Capodanno più lungo del mondo’; la ‘Sagra Musicale Malatestiana’; la F.A.R. (Fabbrica Arte Rimini)” e la “realizzazione e comunicazione degli eventi di punta (Notte Rosa, Capodanno più lungo del mondo, Al meni) e di nuovi eventi”. Insomma, ci attende un quinquennio culturale a suon di ‘eventi’, ma mandateli al macero. In effetti, a proposito di ‘comunicazione’ non esiste neppure una adeguata campagna comunicativa sul Museo: sono più eccitanti i cartelloni che annunciano la nascita dell’ennesima rotatoria, delle smunte informazioni sul mirabile – va detto – Museo. Che forse chiederebbe un nuovo allestimento, un nuovo approccio, una nuova vita. Intanto, modestamente, perché non partire dal Piranesi e fare qualcosa, qualcosina, in gemellaggio con Roma? Troppa fatica, per carità, sono tutti troppo occupati a fare altro. Cosa?
COMMENTI