Quattro passi fra i lavori in corso con l’occhio rivolto al verde

Quattro passi fra i lavori in corso con l’occhio rivolto al verde

Potature varie, campo dei miracoli (alias piazza Malatesta), il giardino di Paolo e Francesca: aguzzate la vista.

Ho una domanda da rivolgere ai lettori di Rimini 2.0. Esiste un lazzaretto degli alberi? Pensateci bene, ma se la risposta fosse no, vorrei dirvi che invece esiste: è Rimini. Il nosocomio botanico per l’isolamento degli alberi malati (ma curabili, giusto?) o traballoni, quindi pericolosi e di conseguenza, da abbattere, è qua sotto il naso e gli occhi, se si vuole vedere, di ognuno. Tutto questo menar di seghe (elettriche) sicuramente avviene dopo severe diagnosi espresse da esperti in materia della cui serenità di giudizio e indipendenza nessuno osa dubitare. Figurarsi. Per non dire delle gagliarde potature primaverili. Non passa anno senza che in redazione sboccino come fiori di mandorlo fotografie di esuberanti castrature. Un lettore particolarmente malizioso, direi quasi malfidato, qualche tempo fa ha scritto una lettera in cui faceva notare come in città taluni inevitabili abbattimenti di piante fossero contemporanei a lavori o sistemazioni del momento o che sarebbero stati realizzati da lì a breve. Ma dai!? Poffarbacco. Queste sono storielle, leggende metropolitane dalle quali ci si dissocia con forza. Favole belle e buone. Roba da Pinocchio, da gatto e la volpe… Urca, no – no, non voglio offendere quei simpatici bricconi. Che c’entrerà poi Pinocchio… Eppure… eppure qualcosa…. Che la mia fantasia sia stata eccitata dall’anima lignea del celebre burattino? O che sia stato vittima del suo naso lungo e legnoso da mentitore? Mah. Se il motivo venisse in mente prima a voi, fatemelo sapere. Poc’anzi si diceva delle potature.

La foto che vedete (qui sopra) mi è stata recapitata in data 13 marzo. L’assenza del sole, in quella giornata ha reso i moncherini maggiormente drammatici. Il commento di chi mi spedisce l’immagine, non è di sicuro uno sprovveduto in campo botanico. Scrive: “Potature in atto al Parco Marecchia, credo lunedì mattina. Si vede bene il prima e il dopo… Ok ai problemi di sicurezza in aree frequentate da adulti e bambini, ma ci vanno giù pesanti, con effetti anche antiestetici per il paesaggio in un parco e… un pessimo esempio per i cittadini”. Capperi, devo essermi imbattuto in un fondamentalista dell’ambiente. Quando uno ha in mano le forbici, le usa, altrimenti che lo paghiamo a fare. Già, che lo paghiamo a fare? Bella domanda. Ma andiamo avanti. La “platanofobìa” di piazza Malatesta o se preferite, “Campo dei miracoli” (per evocare l’aderente scenario collodiano) e relativa cementificazione con asole di circa tre metri per tre concesse agli alberi superstiti, predisposte pure per quelli da mettere a dimora, saranno la soluzione ottimale per la vita delle piante o con l’andar del tempo, per abbeverarsi le radici saranno costrette ad arrivare alla “Fontana della Pigna”?

Non che prima d’ora avessero un ambiente favorevole, questo no. Rivoluzionando la piazza c’era però l’occasione di tornare all’antico, di privilegiare il respiro della vegetazione, piuttosto che acuire l’inesorabile apnea cementizia. Ma la scelta sarebbe stata volta al recupero e all’esaltazione delle generose (gratuite) offerte venute dagli scavi. La voce chiara e forte che veniva dalla Storia invitava a continuare e anzi approfondire il dissotterramento, come auspicato da più parti, per affondare occhi, mani e cuore nella memoria della Rimini antica. La scelta conseguente, magari sarebbe stata quella di ripristinare la vecchia pavimentazione di ciottoli, bella e drenante e non disagevole come potrebbe sembrare. Sarebbe bastato creare corsie per carrozzelle e tacchi alti, come suggeriva il monocorde architetto Roberto Mancini (ora lo chiamerò RM per risparmiare energie), altra persona che conosce bene il mondo delle piante, così come quello delle stanze “di manovra” della pubblica amministrazione. Ma il progetto del secolo doveva andare avanti secondo le “visionarie” volontà “estatiche” del Principe Andrea.

Quant’era verde il giardino di Paolo e Francesca…

Tanto avanti che dai platani (non crediate sia finita, nel mirino ce n’è uno da “sistemare” dall’altra parte della piazza) si è passati al giardino di Paolo e Francesca, quell’isola fino allo scorso anno verdeggiante, dietro al Palazzo dell’Arengo e al Palazzo del Podestà.

Ma è il Giardino di Paolo e Francesca? Ebbene sì.

Là due pericolosissimi pini ovviamente giudicati incurabili, hanno fatto i conti con gli “xilosecatori” (neologismo latin/macaronico per definire i neo “barbieri” arboricoli). Era veramente necessaria, la rasatura totale?

Il solito architetto rompiscatole RM ci rifà: continua a chiedersi se non ci fossero alternative. E in occasione dei recenti lavori per il PSBO (Piano di Salvaguardia della Balneazione Ottimizzato), quando in largo Unità d’Italia vede la voragine scavata a trenta centimetri da un vecchio pino (sempre loro, accidenti ai pini – rompini) si e mi domanda: «possibile che non potessero scavare più lontano? Come sempre è una questione di soldi oppure come presumo, difettano di sensibilità e se ne fregano del verde?».

Se si compendiano le due ipotesi, probabilmente si indovina, ma approfitto per tornare a battere lo stesso tasto: è matematico che scavando vicino ai tronchi parte delle radici vengano recise di netto. Ciò li rende pericolosamente instabili. Così, col tempo e a causa del dissennato modus operandi di cui sopra, urgono prove di trazione, sempre rigorose e documentate, naturalmente. Come si conclude la storia? Che abbattono gli alberi. Un perfetto circolo vizioso autosabotatorio. Volete ridere? Quando RM mi segnala l’ennesimo scavo vertiginosamente vicino alle radici di quel pino, ma anche di altri lì accanto che prima o poi ne risentiranno pesantemente, vado a fotografare il teatro delle operazioni. È il 14 Marzo. A causa di altri impegni, prima che ritorni sul posto passano una decina di giorni. I lavori sono quasi terminati. Faccio ancora qualche ripresa. Giusto per documentare l’avanzamento dell’accurata attività escavatoria. Torno a casa, scarico le foto sul computer. Le confronto con quelle vecchie. Le inquadrature sono prese più o meno dalla stessa posizione. Qualcosa non quaglia. Ora vorrei coinvolgere i lettori con un gioco simile a quelli della “Settimana Enigmistica”, come “Aguzzate la vista” o “Cosa manca?”. Troppo facile. Tanto che al primo che risponde esattamente, prometto in regalo una bella pigna secca.

Aguzzate la vista…

Notate qualcosa di diverso rispetto alla foto sopra? Manca qualcosa?

Per la cronaca, il premio è stato assegnato. In redazione si presenta un tipo. Dice di conoscere la soluzione. «Lei come si chiama, scusi?», gli faccio. E lui mi risponde: «Giuseppe: Pino, per gli amici. E la pigna se la tenga. Non mi serve più». Fine. Ultima annotazione agroamara.

L’unico pino protetto da una specie di sudario di stoffa e da regolamentari assi di protezione (il condannato deve arrivare lucido alla forca) è quello che in foto è diventato invisibile.

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