Rimini verso il voto: ecco perché per il Pd le primarie sono una benedizione

Rimini verso il voto: ecco perché per il Pd le primarie sono una benedizione

Un vero e vivace confronto interno tutto e solo orientato a individuare le leve giuste per immaginare il futuro di Rimini, e il leader capace di interpretarlo, sono l’unico contributo utile alla città che il Pd potrebbe proporre in questo 2021. Anche a costo di "scannarsi" al proprio interno. Perché Rimini non si accontenterà ancora una volta, tanto più con le "macerie" lasciate dalla pandemia, di una classe politica senza bussola e attaccata solo al potere.

La balla più gigantesca sulla litania che il Pd va recitando ormai da mesi è la seguente: no alle primarie perché dividono. Serve una candidatura unitaria. Nel nulla cosmico che identifica la linea del Pd riminese, è ormai l’unico punto fermo che esce dalla bocca di quasi tutte le parti in commedia.
C’è una prima ipocrisia manifesta: quella di un partito dotato di statuto nel quale loda le primarie come strumento di partecipazione e di democrazia, e stabilisce che la selezione delle candidature del Pd per le cariche di sindaco e presidente di Regione deve avvenire attraverso il metodo, appunto, delle primarie. Salvo poi arrivare – come accade a Rimini – a considerarle pericolose.
Perché sta accadendo tutto questo?
Il Pd è un partito latitante che si risveglia quando viene tolta la polvere dalle urne. A Rimini nessuno ne avverte il minimo sussulto di vita nei lunghi periodi che intercorrono fra una elezione e l’altra. Per dieci anni il sindaco Gnassi ha amministrato indipendentemente dal Pd, rendendolo ancora più superfluo di quanto non fosse fino al 2011. In dieci anni il Pd, anche sui temi importanti di governo della città, non ha praticamente mai fatto arrivare il proprio contributo di idee.
Il moribondo si risveglia solo quando sente aria di voto.
L’unica ragione – peraltro dichiarata da diversi esponenti del Pd – che fa considerare le primarie uno spauracchio, è che andando al confronto interno si rischierebbe di spezzare l’unità e quindi di perdere alle elezioni di ottobre. Ma di quale unità si parla se c’è il rischio che vada in frantumi portando allo scoperto visioni, idee e progetti, analisi e critiche? Di un simulacro di unità.
La verità è che il Pd è un partito arroccato, in difesa di se stesso e del potere che impersona. Un partito del sistema o, per dirla con uno che ha avuto gli strumenti per capire qualcosa dello stato comatoso in cui versano gli eredi del Pci, ovvero Achille Occhetto, «un partito di cariatidi dell’architrave del sistema». E si può essere, politicamente parlando, anche delle giovani cariatidi come dimostra il riminese.
E’ un apparato che ha fatto il callo al potere. Si sa muovere molto bene nei palazzi, è bravissimo nella narrazione pro domo sua, sa galleggiare come nessun altro, sa mettere in gioco tutti i marchingegni elettorali più appropriati per non mollare la stanza dei bottoni. Dove il potere si maneggia. Tutto il resto è noia per il Pd. O parole in libertà. Come quelle del segretario Filippo Sacchetti, che scrive a Enrico Letta per mandare messaggi interni al Pd riminese e ad un elettorato sempre più disamorato. Sostiene che serve «un partito unito», «senza correnti arroccate» e con «dirigenti coraggiosi presenti sul territorio, che ascoltano e propongono». E’ il programma irraggiungibile che mette a nudo il limite insuperabile di una classe politica che ormai deve sforzarsi per intercettare la vita delle persone. Parla di ascolto come della conquista di un pianeta lontano anni luce dalla quotidianità e dalla normalità. Parla di ascolto come di qualcosa di avulso dal semplice e spontaneo modo di essere.
Il problema non sono le correnti e i dirigenti poco coraggiosi. Lo scoglio nel quale il Pd è andato a sbattere è figlio dell’isolamento nel quale vive. Non ha più orecchio, come cantava Jannacci. E se hai perso l’orecchio sei fottuto. La bobina continua a girare sì, ma la base va avanti anche da sola. E noi come dei pirla qui a suonare, ma con l’orchestra non si può inventare. Perché ci vuole orecchio.
Le primarie, cioè la canche di un sano e vivace confronto interno tutto e solo orientato a individuare le leve giuste per immaginare il futuro di Rimini, sarebbero l’unico contributo utile alla città che il Pd potrebbe proporre in questo 2021. Oppure il Pd è convinto che il futuro l’abbia già scritto e una volta per tutte il piano strategico, nato con l’aureola di «progetto insieme ai cittadini» e ormai trasformato in un fortino di illuminati soli al comando?
Nella babele dei numeri secondi, impegnati in una piccola campagna elettorale fatta di apparenze e di ammiccamenti di basso profilo, il Pd si trascina verso il voto senza dimostrare di aver capito che il mondo è cambiato. Lo afferma che il mondo è cambiato, ed evoca la pandemia come la bestia che ha messo a dura prova l’economia turistica di Rimini, ma non ha la consapevolezza del dramma. Recita anche sulle rovine. Non per cattiveria, per mancanza di spessore.
Ma Rimini si accontenterà ancora una volta, adesso che le macerie (seppure di tipo diverso da quelle che ci lasciarono le bombe della seconda guerra mondiale) sono tante e fumanti, di una classe politica senza bussola e attaccata solo al potere?
Se nemmeno il tracollo di undici punti di valore aggiunto sono in grado di scuotere il partito che governa da sempre, se nemmeno la crisi che spegne ogni giorno imprenditori e artigiani, alimentando una polveriera sociale drammatica, riescono a risvegliare la mummia, allora cosa resta al Pd per darsi una scrollata? Le primarie, quelle che nessuno però vuole.
Ce ne fossero di candidati desiderosi di metterci la faccia e le idee. Magari (anzi, si spera) altri dieci oltre a Jamil e Emma. Pronti a scannarsi, anche. A dirsi in faccia che il nulla è molto più pericoloso del confronto. A guardare i limiti e non solo i successi. Con la voglia di analizzare i fondamentali di una città piegata, che anche nell’estate 2021 viaggerà col freno tirato. Pronti a non accontentarsi della propaganda sul lungomare più bello del mondo ma anche a sezionare gli errori compiuti da Andrea Gnassi, per non ripeterli. Con sincerità e serietà.
E’ sconcertante che nemmeno gli esponenti del cosiddetto mondo civico siano consapevoli di questo e vadano ripetendo all’unisono che le primarie dividono e che dobbiamo stare vicini vicini. Questa reazione potrebbe indicare che non è sufficiente autoetichettarsi civici per essere effettivamente sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda della società civile. Il civismo non è sempre una virtù ed anzi i professionisti del civismo destano qualche sospetto. Le liste civiche che nascono a ridosso di una competizione elettorale, ad esempio, e si alleano col più forte, andrebbero piuttosto chiamate liste civ…etta. Portano la bombola dell’ossigeno al potere per mantenerlo in vita e andarsi a sedere alla stessa tavola.
Se invece il Pd rinuncerà – per paura o insipienza – al duro e alto lavoro di cominciare a mettere mano alla grande trasformazione che ci attende, si condannerà alla sconfitta. Se non elettorale, perché è pur vero che il potere spesso logora chi non ce l’ha, di certo dal punto di vista sostanziale: ne farà le spese la polis.
C’è solo una obiezione che regge davanti a questo ragionamento: la classe dirigente del Pd è diventata a tal punto liquida, quasi squagliata, incolore e inodore, non più allenata allo studio (certo, si tratta anche di mettersi a studiare per capire dove andare) e al confronto, che le primarie sarebbero comunque un flop. Dall’agorà politica del piddì non si caverebbe un ragno dal buco, insomma. Assisteremmo solo alla fiera delle banalità. Su questa obiezione, però, grava l’onere della prova. Gli esiti potranno essere valutati dopo, non prima.

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