Via della Carletta regala un tempietto devozionale del XVIII secolo. Attira subito l'attenzione. Ma a chi appartiene? Non alla Diocesi e non al Comune. E chi l'ha progettato? Il nostro Indiana Jones ha cercato di far luce su tutto ciò e durante il viaggio ha anche scoperto qualcosa di nuovo che lega questi luoghi a personaggi felliniani e ad una celebre scena dei Vitelloni. Ma per il resto solo una cosa è certa: merita un restauro.
Via della Carletta è una strada che a meno di mezzo chilometro dalla rotonda Gianni Fabbri raccorda via Santa Cristina con via San Lorenzo a Monte. Salendo in direzione di quest’ultima, dopo poche centinaia di metri il percorso si interseca con via delle Fonti. Nell’angolo di sinistra sorge un’edicola devozionale del XVIII secolo.
L’antico manufatto denuncia inequivocabile necessità di urgente restauro, come mi viene segnalato da Marco Ferrini, fino a pochi mesi fa presidente della Confraternita di San Girolamo e della Santissima Trinità (la più antica istituzione laica di Rimini), persona particolarmente attenta alla conservazione e al recupero dei beni culturali locali. Da buon cittadino che ha a cuore qualsiasi rappresentazione della memoria storica riminese, Ferrini aggiunge che tempo fa ha inviato una lettera di posta elettronica al competente ufficio di zona della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per segnalare lo stato in cui versa l’edicola. Quale sia stato il tenore della risposta, lo riferirò al termine dell’articolo.
Nel frattempo, voglio rendere partecipi i lettori di una curiosità che immagino conoscano in pochi. Durante il primo sopralluogo che compio per fotografare il precario stato dell’edicola, mentre con l’auto sono fermo in mezzo alla carreggiata di via Santa Cristina per immettermi in via della Carletta, vengo affiancato da una persona in sella a una bici da montagna (o “rampichino”). Sorride e mi saluta con la mano. Contraccambio. È l’avvocato (“figlio d’arte”) Federico Benzi. L’ho intervistato nel 2018. In quell’occasione mi ha raccontato diversi episodi del padre Titta, amico di Fellini e spassoso protagonista del film “Amarcord” (1973). Visto che senza dubbio sta per prendere la mia stessa direzione, gli chiedo se gentilmente può accostare. Acconsente, quindi approfitto per chiedergli se per caso sia al corrente della storia del piccolo tempietto lungo la via. Chi e perché lo abbia costruito e a chi appartenga oggi. Sapendo dove abita, presumo che l’amico Benzi Jr. stia tornando a casa dopo un’escursione e conosca bene la zona in cui ci troviamo. Mi risponde che quando esce per fare una pedalata, spesso passa davanti al tempietto perché, grazie al tipo di bicicletta che sta adoperando anche oggi, percorre il tratto interrotto (non praticabile in auto) di via delle Fonti per raggiungere la propria abitazione sul colle di Covignano. Ma non sa darmi altri ragguagli in merito alla piccola costruzione. Peccato. Ma è a quel punto, quando sto per salutarlo dopo averlo ringraziato che, ricordando il tema dell’intervista di tre anni fa, mi svela un aneddoto a me sconosciuto: il punto in cui ci siamo incontrati poco prima corrisponde più o meno a quello in cui si è svolto realmente l’episodio che ha ispirato una celebre scena del film “I vitelloni” di Fellini. Di quale scena parlerà mai l’avvocato? Di quella della pernacchia, naturalmente.
La trasposizione cinematografica che tutti ricordiamo nasce da un episodio, cinematograficamente manomesso dalla fantasia del regista, ma veramente accaduto nei pressi del nostro incontro. Benzi riporta il fatto, così come glielo raccontarono Titta e “Fellas”: «Federico, mio babbo Titta e l’altro loro storico amico, Mario Montanari (diventerà anch’egli avvocato; ndr), stanno andando a studiare nella villa di famiglia di Mario, in via della Carletta. Ai bordi del campo che costeggia via Santa Cristina notano un gruppo di operai al lavoro. Scatta l’improvvido quanto celebre “lavoratoorii…”, poi gesto dell’ombrello e tonante “sordino” di accompagnamento. I tre, che non si aspettavano la fulminea reazione che invece ha il gruppetto di operai, pedalano istintivamente in direzione di villa Montanari senza pensare che la strada è in salita. Mentre Mario, da solo su una bicicletta, semina l’inferocito gruppetto, Titta e Fellini, essendo in due sullo stesso mezzo, finiscono ben presto nelle mani degli inseguitori che come si intuisce nel film, li pestano a dovere. E questo dolorifico particolare, allora non trascurabile per i protagonisti, a differenza delle modalità con cui la vicenda è stata narrata in pellicola, coincide con quanto realmente accaduto».
Dopo la cellulosica divagazione, torno alla vicenda del tempietto. Una cortese e-mail del responsabile ufficio Beni Culturali della Diocesi di Rimini mi informa che “[…] ho verificato che, allo stato attuale, non è di proprietà della Diocesi di Rimini, per cui non è inserita nel nostro archivio dei beni culturali […]” e anche dalla Direzione Risorse Finanziarie del Comune di Rimini “[…] si comunica che dalle verifiche eseguite presso l’archivio del Settore scrivente il manufatto non è annoverato nell’inventario dei beni immobili comunali. Inoltre si informa che il manufatto non è censito al Catasto Terreni e/o Fabbricati ed è posto a margine del crocicchio scaturito da due strade Vicinali di cui una classificata a comunale in epoca recente (Via della Carletta, Delibera di Giunta Comunale n. 91 del 03/02/1970). […] Per quanto riguarda eventuale accessione (art. 934 C.C. ), le due strade nascono come vicinali e pertanto la proprietà è in capo ai frontisti”.
“Cordiali saluti” da entrambe le direzioni che si mettono gentilmente “a disposizione per eventuali approfondimenti”. Grazie infinite per i ragguagli. Se non altro ora sappiamo a chi “non” appartiene l’edicola. Ma per il resto, resto al punto di partenza. Decido di attingere alla generosa fonte storico/architettonica del professor Giovanni Rimondini, come sempre generoso nel mettere a disposizione il proprio sapere. Egli mi scrive: «Dovrebbe trovare qualcosa nel Catasto Calindri, foglio San Lorenzo in Monte. Potrebbe trovare anche la villa vicina; guardi al numero, sia della villa che della particella catastale, poi dietro ai disegni. Al numero corrisponde il proprietario». Seguo le indicazioni del professore e con il prezioso supporto degli impiegati, individuiamo due mappe che fotografo e alla bell’e meglio unisco con Photoshop. Risalgo al numero di particella catastale. Il nome del titolare che corrisponde alla particella individuata è quello di tale Domenico Giorgetti.
Tra l’altro, facendo una sovrapposizione delle antiche mappe con quella odierna di “Google Maps”, si apprezza una certa coincidenza, considerato che la morfologia del terreno in due secoli e mezzo è cambiata e il mio lavoro di sartoria digitale è piuttosto approssimativo.
Ora però entra in gioco la fase due prospettata dal professor Rimondini: «Trovato il proprietario nel Catasto Calindri, forse si può avere un punto di partenza per un’indagine nell’archivio notarile. Là si cercano i regesti dei notai che hanno rogato nel decennio anni ’30 e se ci sono gli indici, si vede presto se sotto il nome del proprietario esistono dei contratti con i capomastri o altri documenti utili». Dopo essere stato varie volte all’Archivio di Stato di piazzetta San Bernardino e consultato pile di faldoni gonfi di meticolosi atti notarili, tra timbri, grafie talvolta impervie, svolazzi, firme e ceralacche centenarie, non rimedio nulla di interessante se non due parole che mi sono rimaste in testa, palleggiate tra le mie residue sinapsi neuronali: “tempus fugit…”.
L’odore del passato può residuare qualche scoria sinistra. Va beh, telefono a Giovanni Rimondini al quale presento il carniere delle ricerche desolatamente vuoto. Ma ci pensa lui a riempirlo con una delle sue consuete, acute analisi. Conosceva e aveva visto tempo fa l’edicola, ma guardando le foto che gli ho inviato di recente, prospetta un’ipotesi. Questa: «L’edicola è un piccolo edificio aulico non opera di un capomastro, ma forse disegnato da un architetto riminese del ‘700 che si è ispirato per la edicola superiore a quella della chiesa di Santa Maria ad Nives che ho attribuito a Francesco Galli Bibiena in base a un disegno dell’interno della chiesa dei Servi conservato a Milano, in particolare per la luce mistilinea del finestrone simile a quelle delle finestre del disegno e per la sorprendente soluzione di angolo che lega la chiesa all’antico Ospedale della Misericordia. Siamo negli anni ’30 del ‘700. Francesco Galli Bibiena ha abitato a Rimini e ha disegnato e dipinto il piccolo teatro degli Arcadi in via Clodia e stava probabilmente in casa di Ignazio Pallotta, in via Ducale. Se ti interessa, vedi il mio “Ferdinando e Francesco Bibiena e i loro seguaci a Rimini” ne “L’architettura dell’inganno” a cura di Fauzia Farneti e Deanna Lenzi (Alinea editrice, Firenze 2004)”.
Il professore si riferisce alla pubblicazione degli atti di un Convegno Internazionale di Studi tenutosi a Rimini alla fine di novembre del 2002. Naturalmente vado alla biblioteca Gambalunga, porto a casa il volume, leggo le pagine di Rimondini. Esco, vado in corso d’Augusto, raggiungo la chiesa di Santa Maria ad Nives e guardo in alto, dove le parole di Rimondini diventano immagini.
Forse non sapremo mai se l’edicola di via della Carletta l’abbia disegnata Francesco Galli da Bibiena o un altro architetto che a lui si è ispirato, ma comunque sia, merita di essere restaurata. Lo dice chi ha titolo per farlo. Ma naturalmente bisogna che la disposizione venga “dall’alto”. Sono trascorsi due mesi da quando Marco Ferrini ha segnalato a chi di dovere il dissesto del settecentesco manufatto. Più sopra, avevo rimandato al termine dell’articolo la risposta alla sua lettera da parte della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. Ebbene, a due mesi e passa di distanza, Marco Ferrini non ricevuto riscontri di sorta. Per il momento “l’alto” è silente. Che sia il caso di andare in via della Carletta, angolo via delle Fonti, e accendere un cero?
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