Federico racconta un Fellini inedito

Federico racconta un Fellini inedito

“Via tutti, ho comprato villa Mattioli poche ore fa". Aneddoti e rivelazioni sul grande regista. Come quando un prete dei Paolotti disse: "il bimbo non lo faccio tenere a battesimo da questo signore". Questo signore rispondeva al nome di Federico Fellini. Il bimbo è il protagonista di questa intervista esclusiva: Federico Benzi, figlio di "Titta". Che apre lo scrigno dei ricordi, anche quelli più intimi, e tratteggia un Fellini sorprendente.

La voce narrante è di Federico Benzi, uno dei quattro figli di Titta, storico amico di Fellini (1920-1993) e personaggio centrale di uno dei film più amati dal grande pubblico, in particolare da quello riminese: Amarcord (1973).
L’avvocato Luigi (Titta) Benzi, classe 1920, è venuto a mancare quattro anni fa all’età di 94 anni, gran parte dei quali trascorsi in telepatica amicizia con l’amico “romano”.
Con il figlio Federico, avvocato penalista come il padre, ci si conosce da sempre, pur non essendoci mai frequentati, ma si sa, il “borgo” è piccolo.

Federico Benzi con la figlia Maria Sole

Federico Benzi nasce nel 1960, data che rappresenta una svolta cruciale anche nella vita di Fellini, le cui vicende, in parte, si riverberano sulla famiglia Benzi. Ci sono avvenimenti che possono essere letti come fossero capitoli di un film a episodi. Federico me li racconta mentre siamo comodamente seduti su un divano della sua bella villa sul colle di Covignano, parzialmente adibita a B&B di charme. Mi fa piacere condividere con voi lettori, la gradevole chiacchierata. Come se fosse la voce narrante di un film, il terzogenito figlio di Titta attacca così: “Siamo a Rimini. E’ l’estate del ’60. Fa già caldo. La scena si svolge all’interno del Santuario di S. Antonio da Padova (Paolotti). Mio padre ha sempre raccontato che in chiesa, quel giorno, oltre a lui e alla mamma, c’è il parentado al gran completo. Quando il sacerdote chiede chi sarà il sàntolo del battesimando, gli viene indicato Federico Fellini. Il prete lo guarda, sbarra gli occhi, poi dice: “no, il bimbo non lo faccio tenere a battesimo da questo signore. Mi rifiuto”. A quel punto mio padre, con la consueta energia, ribatte: “bene, a casa l’acqua l’abbiamo anche noi. Il padrino anche. E si chiama Federico Fellini. Il bambino lo battezziamo noi. Ce ne andiamo.” Il prete rimane basìto, è in preda al dubbio, ma urge decidere in fretta; mentre riflette ondeggia varie volte sui talloni e infine richiama indietro il piccolo plotone. La cerimonia può cominciare.”

Battesimo d’autore. Fellini tiene in braccio Federico Benzi

Il motivo dell’atteggiamento del parroco si può leggere così: il 5 febbraio era uscito il nuovo film del regista riminese. La Dolce Vita, proiettato in prima nazionale al Capitol di Milano, suscita una piccola guerra civile di natura socio-culturale: c’è la disapprovazione del Vaticano, ma non quella dei gesuiti, netto il plauso del settimanale “L’Espresso” e del mondo della sinistra, vibrante la protesta de “L’Osservatore Romano”. Fischi, sputi e insulti a Fellini e Mastroianni da parte di alcuni, battimani, baci e stima da parte di altri. Si ventila l’ipotesi che la pellicola possa subire un sequestro. La mattina dopo c’è una lunga fila alla cassa del cinema. Il fascino del proibito ipnotizza gli italiani.

Tornando a noi, alla fine si è risolto tutto senza ricorrere al paventato “kit battesimale fai-da-te”?
“Sì, diciamo che è stato un battesimo un tantino movimentato. Forse quel giorno è avvenuto anche il mio primo contatto con Federico, del quale mi sono sempre onorato di condividere il nome: mi è stato dato in virtù della grande amicizia che c’era con papà. Ma questo, del resto è risaputo e fortemente amplificato dopo l’uscita di Amarcord.”

Uno dei celebri “tovaglioli illustrati” da Fellini. Datato 30/9/’76 proviene dalla famosa Trattoria Toscana Fiaschetteria al Chianti. Fondata nel 1938 da Pietro Bruni e dalla moglie Gabriella, la famosa trattoria di Via Germanico nel quartiere Prati a Roma era frequentata assiduamente da Federico con Giulietta Masina. Sul retro della cornice si legge: “Pranzo del 30 settembre 1976 alla Trattoria Toscana di via Germanico a Roma, i commensali sono Titta, Federico, Mario Montanari, Federico piccolo, Leopoldo Trieste e la Norma (storica segretaria di Fellini)”. Federico dipinge Titta che ride perché aveva bevuto parecchio Chianti. Sul tovagliolo è infatti raffigurato “il grosso”, alias “Titta” al secolo Luigi Benzi. Se capovolta, la “sarvietta” mostra in rilievo il nome di Pietro Bruni, proprietario del locale.

Ricordo perfettamente che in televisione e sui giornali “Titta” era il personaggio del momento, gli chiedevano interviste, racconti della loro infanzia, aneddoti.
“Certo. Mi fa piacere riferire le cose che mi raccontava mio padre e anche quelle di Federico. Ho avuto modo di conoscerlo bene, purtroppo anche nei momenti meno felici. La consuetudine di vederlo spesso a casa nostra ora appartiene a ricordi lontani che ritornano, talvolta anche appannati, ma che rivivo con molto affetto e nostalgia. Per esempio, era normale vederlo arrivare con un macchinone americano lungo da qua a là. Come del resto era naturale raccogliere i tovagliolini di stoffa o di carta su cui aveva scarabocchiato qualche idea, un pensiero, un volto buffo che avremmo forse rivisto in un futuro lavoro. Di quelle “reliquie” ne ho conservate molte, ma il tempo ne ha sbiadite parecchie e rese quasi indecifrabili. Peccato.

La telefonata da un milione!

Che ricordi hai di Fellini, quando eri bambino?
A parte l’auto-transatlantico americana? Mah, di scene divertenti ne ho vissute molte. Tra Fellas (pseudonimo adottato da Fellini poco più che ventenne, quando disegnava vignette per la rivista satirica il “Marc’Aurelio” fondata a Roma nel ’31; ndr) e mio padre Titta, di “patacate” ne inventavano una tutti i giorni. Vedi quella foto in bianco e nero? Se ti avvicini, vedrai che Titta ha aggiunto un fumetto. Quando Fellas andava a trovare mio padre in studio, capitava che telefonasse da lì a qualche attore o produttore, anche in America. Quella conversazione venne fotografata (non so da chi). Stampata la foto, mio babbo ha poi aggiunto un fumetto: “Sta facendo una telefonata da un milione, ‘sto pataca!!” Quando Fellini l’ha vista, si è sbellicato dal ridere. Noi pure.
Una volta, F (altro suo modo di firmarsi; ndr), credo fosse il 10 febbraio, arriva a casa nostra con 15 vestiti di carnevale: da indiano, da cow-boy, da vigile, da antico romano, da poliziotto, ecc.
Io avrò avuto 6 o 7 anni. Impazzisco di stupore e di felicità. Lui mi guarda e ride, felice quanto me. E’ molto probabile che abbia saccheggiato qualche magazzino di Cinecittà, prima di partire per Rimini. Forse in me, Fellini vedeva sé stesso quando aveva i miei anni (o forse sentiva il rimpianto per quell’unico figlio maschio, Pier Federico, morto poco dopo la nascita); chissà…

Lo schizzo di Fellini per il bisnonno Ubaldo di Amarcord

Sempre a proposito di ricordi, che tu sappia, i personaggi che compaiono in Amarcord sono tutti realmente esistiti o qualcuno proviene dai ben noti sogni di Fellini?
“Mio nonno Ferruccio, nel film era fedele alla realtà (come gran parte dei personaggi), incazzoso, come quando grida “am’ amazz, am sbrenc la bòcca!”. Anche il fratello di mia nonna che nel film chiamano lo zio pataca, quello con la retìna in testa, era veramente così: identico all’originale. Non ha mai fatto un cavolo in tutta la sua vita. Si chiamava Ugo; stava con una ballerina della Scala di Milano e non si alzava mai prima di mezzogiorno. Ha sempre fatto il principe. Spesso, quello sfaticato si alzava proprio mentre il nonno, dopo che si era fatto un mazzo così, tornava dal lavoro. E giù “rospi”, per non compromettere ulteriormente il delicato equilibrio casalingo… Una volta, in questa sala, durante una riunione di famiglia (c’ero anche io), mentre si dondola sulle gambe posteriori della sedia, lo zio Ugo urta la libreria con la spalliera: gli cade sulla testa un volume dell’Enciclopedia Britannica da una tonnellata almeno. Data l’età, 80 anni, crediamo che ci sia rimasto secco. Neanche per idea; per fortuna si riprende immediatamente, tra il sollievo generale.”

Copia del disegno donato alla Fondazione Fellini. “Titta e Federico davanti ai resti degli affreschi nella chiesa di S. Agostino (26/8/1992)”

E lo zio Teo?
“No, lui è inventato di sana pianta. Costruire un personaggio del genere, magistralmente interpretato da Ciccio Ingrassia, con la scena clou dell’albero e della suora lillipuziana che gli dice “vin zò, pataca!” è una trovata sublime. Quello dello zio demente è un capitolo strepitoso. Ti dico una cosa che sembrerà forse scontata: visionare centinaia di volti, sia in foto che di persona, per individuare quello perfetto, sognato e disegnato da lui, sarà per sempre una prerogativa esclusiva di Fellini.
Quando si andava nel suo ufficio, davanti allo studio 5 a Cinecittà, si rimaneva colpiti dalla parete completamente occupata da foto (formato dieci per dieci centimetri): pareva una tappezzeria fatta di volti. Anche da quella, carpiva i visi dei personaggi che avrebbe utilizzato nei film.”

Quindi, la tua famiglia frequentava spesso Roma e gli studi di Cinecittà, mi pare di capire.
“Da Amarcord in poi, ad ogni film che Federico girava eravamo invitati per almeno due o tre giorni sul set.
Vederlo con il megafono in mano era un’esperienza fantastica. Pareva un vulcano in eruzione, un turbine che urlava ordini, s’incazzava e sbuffava come un toro, prendeva il viso di un attore o di un’attrice e cercava di alzarne un sopracciglio o un angolo della bocca per trovare l’espressione che solo lui aveva in mente. Mi viene ancora la pelle d’oca, pensando a quando lo vedevamo dirigere. Era molto rapido e i ciack per ogni scena, veramente pochi. Non posso fare raffronti con altri registi, ma l’impressione era quella. Sapere che spesso le battute venivano improvvisate al momento, ti dà la misura del suo formidabile estro.”

Ritratto di Titta (“Grosso in bianco con rose”)

La scorsa estate, quando ti ho telefonato per chiederti se eri a conoscenza di un disegno di Fellini che sembrava fosse stato eseguito, forse subito dopo il ricovero all’ospedale di Rimini, mi dicesti che hai vissuto in pieno la triste vicenda dell’inesorabile malattia.
“E’ l’estate del ’93. Federico arriva a Rimini e ci dice che vuole trascorrere qui tutta l’estate. Deve rimettersi dall’intervento chirurgico subìto in Svizzera a causa di un aneurisma dell’aorta addominale. Naturalmente è accolto con grande gioia e affetto. Mio padre è al settimo cielo dalla contentezza di poterlo avere nuovamente vicino a sé. Purtroppo però, il 3 di agosto Fellini è colpito da ictus e ricoverato all’ospedale di Rimini dove rimarrà fino al 20 del mese, giorno in cui io stesso lo accompagno con l’auto fino all’ospedale di Ferrara per la riabilitazione. Vorrei però tornare a racconti meno tristi: sebbene non fosse in forma neanche prima dell’ictus, lo scarrozzavo ovunque desiderasse andare. Non era il tipo da starsene seduto al Grand Hotel a leggere un libro. Un giorno mi chiede di accompagnarlo a vedere villa Mattioli, appena ristrutturata dalla Cassa di Risparmio” (la nobile dimora fu eretta nel 1800 dal marchese Audiface Diotallevi su progetto dell’architetto Luigi Poletti (1792-1869); ndr).

Schizzo di Fellini per uno degli studenti di Amarcord

Come mai ha questo desiderio?
“Perché con mio padre, da ragazzini studiavano proprio qui dietro, in via della Carletta. Talvolta, dopo la scuola si spingevano a fare un giro verso Spadarolo a guardare quella bella casa. Ora intendeva sincerarsi che Villa Mattioli fosse tornata ai vecchi splendori. Lo scorto con piacere. La sera prima c’è stato un evento con molte persone, forse un matrimonio per cui c’è gente che lavora, pulisce, rassetta il posto. Entriamo, lo riconoscono; qualcuno, particolarmente emozionato, abbozza una mezza genuflessione. Ma lui frantuma in un attimo l’atmosfera incantata. Serissimo, dice: “Via tutti, ho comprato villa Mattioli poche ore fa. Andatevene, lasciateci in pace”. Naturalmente gli addetti si ritirano in buon ordine, senza fiatare, sbigottiti dalla notizia. Ha sloggiato tutti, per rimirare la villa in tranquillità. Da solo. Era un tipo fatto così. Con un colpo di teatro sempre pronto in tasca. Di certo, non ti dava il tempo di annoiarti.
Al fondo delle sue estrose “uscite” c’era pur sempre una benevola burla. Come quando si andava a mangiare da Giggi Fazi, la storica trattoria Romana. Ecco la scena: si crea la fila di chi gli chiede l’autografo. Lui individua qualcuno particolarmente timido o in soggezione, prima firma e poi severo, tenendo il foglietto in mano, gli dice: “bene, sono centomila lire”. Quello, il più delle volte, balbetta interdetto “… ma maestro… veramente…” e lui, accigliato: “si renda conto che io non posso star qua, gratis, a perder tempo!” Ma dopo tre secondi si mette a ridere e porge il foglio autografato, con tanto di dedica.

Gi interni del B&B “Sottoalfico” di Federico Benzi a Covignano

Il racconto che hai appena fatto mi dà modo di chiederti lumi su una tua passione che se non sbaglio, pur con differenti modalità, aveva anche Fellini: la cucina.
“Non sbagli affatto, avrei tanto voluto fare il cuoco. Dopo la maturità vado a Milano da Gualtiero Marchesi, alla sua scuola di cucina. Tieni presente che non è come oggi, che gli chef sono dei divi. All’epoca, parlo del ’77, Marchesi è conosciuto dagli addetti ai lavori, non ancora dal grande pubblico; ha appena aperto il suo primo ristorante, in via Bonvesin de la Riva a Milano. Leggendo svariate riviste e libri di cucina, capisco che Marchesi ha una marcia in più. Mi iscrivo all’Accademia del grande cuoco lombardo. Trascorro tutta l’estate a imparare la nobile arte culinaria. Un’esperienza indimenticabile. A settembre, “Titta il cerbero” mi viene a prendere per un orecchio: “Tu vieni a casa, studi e ti laurei in giurisprudenza: farai l’avvocato”. Così è stato. Mi sono rotto le scatole per 35 anni, tra codici legislativi e cupe aule di tribunali anziché tra gli amati fornelli, ma ora ho deciso di crearmi una vita parallela (per il momento) allo studio legale. Con mia moglie Federica (un nome un destino; ndr) abbiamo ristrutturato completamente questa villa, adibito un’ala per gli ospiti del Bed & Breakfast, sistemato il giardino, l’orto, ma soprattutto, attrezzato la mia “Sala d’Arme”: la cucina. Al posto di spade e fioretti ci trovi spiedi e acciaini pronti all’uso. Gli “affondi” li faccio con quelli (ride). Rimango in tema (ora si fa serio): sapevi che praticamente, Federico è morto dentro il ristorante “Al Bolognese”, in piazza Del Popolo? Quella domenica mattina ci era andato con Giulietta (stava già male anche lei); purtroppo, un frammento di cibo gli ha ostruito la trachea provocandogli irreparabili danni al cervello, causa la conseguente ipossia. Da quel momento non ha più ripreso conoscenza. E’ morto la domenica del 31 ottobre, il giorno dopo il 50° anniversario di matrimonio con Giulietta. Per tutti, per i suoi amici, ma per Titta in particolare, è stato un colpo durissimo. A proposito di amici, e questo va sottolineato, anche l’avvocato Mario Montanari era uno di quelli “veri”, fino dai tempi del liceo; sempre discreto, un amico leale del quale Federico aveva molta stima, a differenza di numerosi amici fraterni “postumi”. In verità, i pochi “autentici” lo hanno accompagnato tutta la vita.”

La famiglia più felliniana del mondo. Asa, Nisi e Masa

Caro Federico, in chiusura ho io, una notizia singolare che forse non conosci nemmeno tu. Ricorderai che in una scena del film 8 ½, a un certo punto il Mastroianni/Fellini bambino pronuncia una sorta di formula magica che fa muovere le pupille di un uomo ritratto in un dipinto. Le parole del metafisico prodigio sono “ASA, NISI, MASA”, il cui acrostico risulta ANIMA. Ma questa è solo una delle tante interpretazioni. Comunque sia, anni fa, tramite un amico ho modo di conoscere un architetto di Milano i cui genitori erano grandi appassionati delle opere di Fellini. Tornati a casa dal cinema, scrivono sopra una lavagnetta i nomi che avrebbero dato ai loro figli, se mai ne avessero avuti tre. Il brillante architetto si chiama Nisi Magnoni; devi sapere che ha due fratelli: ti lascio indovinare il loro nome. Bene, credo che non esista famiglia più felliniana di questa e l’aneddoto non può che ribadire l’immensa stima che il pubblico ha nutrito nei confronti del grande Maestro riminese.

Il maestoso fico che dà il nome al B&B di Federico Benzi

Prima che arrivi l’imbrunire, Federico si offre di farmi vedere l’orto (“lo curo personalmente”, precisa) e l’albero da cui il B&B (Sottoalfico) prende nome. Il vecchio fusto contorto, sostenuto da alcuni puntelli, ha ancora fronde fitte e verdi. Mentre faccio i complimenti per l’intera ambientazione, si leva un inaspettato venticello che passa veloce tra le foglie dell’albero. Sentiamo come la nota di un sibilo, rapido e sottile attraverso i rami. Federico mi guarda: “No, non è come pensi. Non sono effetti speciali. Succede spesso, quando mi avvicino al fico… ”
Capisco… forse. Ciao Federico. E grazie per l’intervista.

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