Sul Palazzo detto “del Garampi” e sui motivi per non chiamarlo più con questo nome

Sul Palazzo detto “del Garampi” e sui motivi per non chiamarlo più con questo nome

Il pasticcio è nato dall'assunzione acritica di un'attribuzione di Luigi Tonini, ed ha "infettato" anche strumenti di consultazione europei, come uno dei 36 volumi dell'enciclopedia tedesca delle arti. Il prof. Rimondini spiega perché la residenza comunale si fregia di una denominazione fasulla.

I tre palazzi comunali di Rimini.

DA QUANDO CHIAMANO “PALAZZO GARAMPI” LA RESIDENZA COMUNALE? DAL 1923-1926.

Ci è stato chiesto se sappiamo da quando il Palazzo Comunale è chiamato Palazzo Garampi. La risposta a questa domanda, che nessuno si era mai posta, si trova in due edizioni della guida di Rimini di Luigi Tonini del 1923 e del 1926. Nell’edizione del 1923 a p. 49 è pubblicato il progetto delle facciate dei tre palazzi comunali dell’architetto Gaspare Rastelli datato 1920 con la didascalia:

Gaspare Rastelli, progetto dei restauri dei palazzi comunali 1918 e anni seguenti; immagine pubblicata nella guida dei Tonini nel 1923; il palazzo a destra è chiamato “Garampi”.

“I TRE PALAZZI COMUNALI formanti tutto il lato destro della Piazza Cavour. Al centro l’Arengo (sec.XIII); a sinistra il Podestà (sec XIII [in realtà sec. XIV]); a destra il Garampi (sec. XVI-XVII)…”

L’architetto Rastelli aveva staccato i tre corpi di fabbrica, due dei quali avevano un nome antico: Arengo e palazzo del Podestà, mentre il terzo si chiamava “palazzo nuovo”; a battezzarlo “palazzo Garampi” o “palazzo del Garampi” potrebbe essere stato l’architetto stesso.

Fotogrfia della guida dei Tonini del 1923, con il nome Garampi.

La settima edizione della guida di Rimini pubblicata nel 1926 con i nomi dei due autori Luigi e Carlo Tonini, e il titolo Rimini guida storico artistica VI edizione ‘illustrata’, era stata edita da Emilio Renzetti – noto garibaldino, poeta e storico locale, tipografo – con l’aiuto di padre Gregorio Giovanardi – francescano e storico locale – e di Ferruccio Angelini – giornalista dell’Ausa -; a p.35-36 troviamo per la seconda volta il nome Garampi riferito al terzo palazzo comunale:

“Il Palazzo cinquecentesco detto del Garampi nella sua superba mole poggia su sette archi verso la piazza e tre sul Corso di Augusto.”

Nella stessa edizione a p.25 c’è una foto dei tre corpi dei palazzi comunali restaurati, dopo i danni del terremoto del natale del 1916, con la didascalia:

PIAZZA CAVOUR. PALAZZI GARAMPI, ARENGO E PODESTÀ (Foto P. G. Giovanardi)”

Nella sopraddetta Guida storico artistica di Rimini del 1923 vi era anche raccontata la fresca vicenda dei restauri ai Palazzi Comunali dopo il terremoto del 1916. Il sindaco Adauto Diotallevi nel 1917 aveva varato una “Commissione di Architetti Bolognesi” con l’assenso del Soprintendente ai Monumenti della Romagna Giuseppe Gerola. Ma ad assicurarsi la realizzazione dei restauri, con il consenso di Corrado Ricci, Direttore Generale delle Belle Arti, fu l’architetto riminese Gaspare Rastelli (1867-1943) che presentò un progetto di ripristino dell’Arengo e di netta separazione in tre corpi dei Palazzi Comunali – esecuzione dalla fine del 1918 al 1922; poi sarebbe seguito il restauro del Palazzo del Podestà.
Vediamo ora i tre palazzi nel loro valore storico artistico effettivo.

Palazzo dell’Arengo 1204.

Capitello del palazzo dell’Arengo con inserimento trecentesco di un galletto “guelfo” che sta per acciuffare una gallinella ghibellina.

L’ARENGO 1204

Palazzo del Podestà; la facciata immaginata nella ricostruzione del Rastelli.

Per avere un’idea dettagliata delle vicende dei Palazzi Comunali rimando a una sorta di enciclopedia, come di consueto, opera di Angelo Turchini: I luoghi della Comunità, le cattedrali e i palazzi comunali di Rimini, Cesena 2010, il cui valore non è per niente inficiato dall’essersi l’autore fidato di Luigi Tonini in un punto, come vedremo.
L’edificio comunale più antico è il Palazzo dell’Arengo, datato 1204, ai tempi del podestà bolognese Madio dei Carbonesi, ricostruito dal Rastelli con le polifore parzialmente rivelate dal terremoto, coi merli ghibellini, a coda di rondine – sulla base dei resti di un merlo attaccati alla torre -, e con l’invenzione delle due scale esterne d’accesso e della zoccolatura dei sette pilastri rialzati su un podio di cinque gradini. I capitelli romanici – che reggono archi gotici, compromesso estetico tipico di Rimini – dei sette pilastri sono stati decorati da scalpellini poco abili nei primi decenni del ‘300, quando la città era ormai di parte guelfa, con i gigli angioini o guelfi scavati in negativo e ricavando alcune scenette in rilievo ingiuriose nei confronti dei ghibellini: in una facciata di capitello si vede una gallina ghibellina montata da un pimpante galletto guelfo.

La facciata del Palazzo in piazza Malatesta.

IL PALAZZO DEL PODESTÀ DEL SECOLO XIV

Il Palazzo del Podestà, dei primi decenni del ‘300, ha tuttora la sua Porta magna gotica che si apre in piazza Malatesta, verso l’antica Cattedrale di S. Colomba, con i capitelli d’imposta che sono decorati con figure araldiche guelfe: quello a sinistra esibisce i notati simboli del partito guelfo: i gigli degli Angiò e le rose del papato, e quello a destra mostra gli esemplari più antichi che ci sono rimasti di una bandiera e dello stemma più usato di casa Malatesta, a tre bande scaccate rosse e oro o giallo su fondo argento o bianco.

La porta magna del Palazzo del Podestà di primi decenni del ‘300.

Imposta a destra dell’ogiva della porta magna; espone un cavaliere con gualdrappa a scacchi, una bandiera e lo scudo più antico della casa Malatesta.

L’architetto Rastelli raddoppiò su questa facciata verso piazza Malatesta la grande porta per un arcaico bisogno di simmetria.
Il portico a tre archi ogivali del palazzo del Podestà che si apre sulla piazza, come quello che sta dietro, sono invenzioni dell’architetto restauratore, insieme al coronamento merlato. Questo palazzo dal ‘500 era la residenza del Governatore pontificio.

Il palazzo impropriamente detto del Garampi oggi.

Una foto dei palazzi comunali prima del terremoto del 1916; mostra l’unificazione dei tre edifici mediante una sorta di cerniera o arco trionfale bugnato tra L’Arengo e il “palazzo nuovo”.

IL PALAZZO COMUNALE DEL ‘500

A pag. 24 della V guida ‘illustrata’ del Tonini sopra citata è pubblicata la foto dei Palazzi Comunali prima del Rastelli, un lungo palazzone unificato dal cornicione classico, dai fastigi, dai portici e con la saldatura tra il vecchio e il nuovo di una sorta di arco trionfale bugnato, progettato utilizzando un disegno di Sebastiano Serlio (Bologna 1475 c. – Fontainebleau 1554 c.), il noto architetto e teorico dell’architettura i cui disegni circolavano nei trattati e sciolti.

Particolare dell’arco trionfale bugnato ripreso da un disegno di Sebastiano Serlio.

Disegno di Sebastiano Serlio per “un palazzo di governatore; figura XX del libro Delle habitationi di tutti li gradi delli homini.

Anche per i progettisti della “Fabbrica nuova” le attribuzioni dei Tonini e dei collaboratori delle guide, non sono più utilizzabili. Conosciamo come loro le date delle progettazioni e dell’apertura della lunga e stretta piazza e del cantiere – rimando al mio saggio dal titolo ridondante Palazzi di città e ville di campagna in Soria illustrata di Rimini a cura di Piero Meldini e Angelo Turchini, Aiep Milano 1990 -. Al 1528 data la prima menzione nel Consiglio Generale del progetto di ampliamento dell’Arengo con la prevista e costosissima demolizione dell’isolato della chiesa di S. Silvestro che limitava a nord la piazza del Comune, che sarebbe stata così allungata fino alla “via Regia” – il Corso d’Augusto -.

Palazzo Nuovo”; si notino i capitelli degli archi ‘tagliati’ dalle paraste.

Pesaro, Filippo Terzi, particolare del portale del palazzo dei Bourbon del monte.

Nel 1561 il Governatore propone la vendita del palazzo di Isotta (degli Atti) per avere un primo capitale al fine di cominciare a realizzare il progetto; nello stesso anno sono testimoniati i primi acquisti delle case da demolirsi e varie trattative col governo centrale pontificio, che sembra favorevole all’impresa, per avere donativi e una riduzione delle tasse; nel 1562 papa Pio IV (pontificato 1559-1565) assicura le entrate regolari da destinarsi al cantiere. Nel 1564 l’architetto cortonese Francesco Lapparelli visita il cantiere, nota 12 pilastri “tirati sopra terra” che “fanno un bellissimo effecto”; questi pilastri dovrebbero essere i 10 sulla piazza e i due sul Corso; ma tre pilastri della piazza saranno coperti, in un secondo momento, dall’arco bugnato serliano. Nel 1582 il Legato sollecita perché venga finita la scala – dovrebbe essere la grande scala a chiocciola esistente, ridotta oggi a scala secondaria. Nel 1587 viene demolita la chiesa di S. Silvestro ed è invitato a Rimini da Urbino l’architetto “nobile” Ludovico Carducci, ma per la fabbrica del porto. Nel 1595 i fabbri di Roncofreddo Giuliano e Giovanni Pannatti forgiano le balconate sull’arco serliano sull’angolo nord del palazzo. Nel 1612-1613 sono acquistate e abbattute le ultime case e vengono costruiti i “granari con Logge” nuovo fondo della piazza che chiude la vista di Castel Sismondo, forse uno sgradevole ricordo. Il 22 giugno 1614 è inaugurata la statua di Paolo V (pontificato 1605-1621) opera dello scultore francese Nicolas Cordier (1567-1612); gettata nella fonderia di Recanati da Sebastiano Sebastiani (1567-1626).

Urbino, la loggetta del duomo. Presenta nel fregio un’iscrizione del 1621 – e forse tutto il fastigio è stato rifatto nel 1621, non è facile da capire -, ma è di forme e strutture quattrocentesche, forse di Francesco di Giorgio Martini. La campata verso il transetto del duomo è stata chiusa con l’ingresso dell’oratorio della grotta nel secolo XVI.

CONGETTURE SULLO STILE E SULL’AUTORE DEL “PALAZZO NUOVO”

Non conosciamo il nome dell’architetto, o degli architetti che progettarono e intervennero in questi anni sull’ultimo edificio comunale e quindi non rimane che esaminare filologicamente il linguaggio dell’opera, che nel suo insieme presentava certamente una certa unità di elementi bolognesi riscontrabili anzitutto nella sorprendente saldatura di architetture medievali, l’ Arengo e il Palazzo del Podestà, con le novità moderne, operazione che Sebastiano Serlio (1475-1554) proponeva nei suoi trattati, e nel portale ad arco di trionfo bugnato copiato da un suo disegno originale per un ideale palazzo di governo. Il lungo edificio, unificato al piano superiore da una teoria di finestre “albertiane” e da un cornicione comune, proponeva anche, nei pilastri e nel bugnato, i caratteri dell’architettura roveresca urbinate e pesarese, dei tempi dell’architetto bolognese Filippo Terzi (Bologna 1520 – Setubal 1597), dal 1558 architetto del duca Guidubaldo II della Rovere (1514-1574), fino alla morte di questo dinasta. Per il duca il Terzi progettò la villa di Miralfiore a Pesaro, dove gli si possono attribuire anche alcuni palazzi dei cortigiani, in particolare quello dei Bourbon del Monte. A Urbino costruì un piano nel palazzo ducale di Federico, la piazza antistante il lato lungo dello stesso palazzo, e la porta urbana del Mercatale. Il Terzi dovette fuggire da Pesaro all’avvento del nuovo duca Francesco Maria II (1549-1631), che cercò di eliminare i servitor e i gentiluomini del padre, e trovò un rifugio in Portogallo.

Stranamente, la porta del Mercatale di Urbino, a causa dell’iscrizione sul fregio che celebra le nozze tra il principe di Urbino Federico Ubaldo e Claudia de Medici, è comunemente attribuita alla data di questo evento il 1621. Ma l’architettura ha le caratteristiche della progettazione del Terzi, baserà confrontarla con l’arco d’ingresso di Miralfiore che è opera certa del Terzi. Non posso dilungarmi più a lungo per elencare queste caratteristiche. La stessa iscrizione celebrativa del matrimonio con la Medici è incisa nel fregio della loggetta sulla destra della cattedrale di Urbino, prospiciente il palazzo ducale, visibilmente opera quattrocentesca certamente di Francesco di Giorgio Martini (1439 – 1502). E’ passato più di mezzo secolo da quando frequentavo la Biblioteca Oliveriana di Pesaro per studiare i documenti rovereschi.

Già che ci sono, permettetemi una botta di narcisismo ottantenne.
Ho seguito il Terzi anche in Portogallo, dove era entrato al servizio degli ultimi dinasti della casa di Aviz e poi di Filippo II di Spagna come architetto regio. Usando il metodo filologico e storiografico che mi avevano insegnato nell’università di Bologna, ho studiato gli edifici laici e religiosi a Lisbona e nei luoghi delle fortezze che gli attribuiscono. A Tomar gli ho tolto l’autoria del lussuoso ed elegante chiostro del convento dei Templari, da lui completato ma non progettato, e gli ho attribuito un monumentale lavabo. Ho studiato nello stesso tempo anche un architetto di Medicina (Taberna Medicina) presso Bologna, Francesco Saverio Fabri (1761-1817) che aveva costruito diverse chiese e palazzi e parte della reggia dell’Ajuda a Lisbona, collaborando con venerandi studiosi portoghesi che sono stati tanto soddisfatti del mio lavoro e delle pubblicazioni da aggregarmi alla Academia de Belas Artes de Lisboa. L’Academia de Belas Artes era un istituto culturale del rango della nostra Accademia d’Italia; abolita poco dopo la Rivoluzione dei Garofani, è stata di recente ripristinata, come mi ha comunicato pochi mesi fa la Senhora Presidente Natàlia Correia Guedes.

LA RICOSTRUZIONE DEI PALAZZI COMUNALI DOPO IL TERREMOTO DEL 14 APRILE 1672

Rimane da capire la ragione di quel nome: “palazzo Garampi”. È dovuta all’assunzione acritica di un’attribuzione di Luigi Tonini, come cercherò di dimostrare.
Prima però dobbiamo ricostruire la cronologia e la qualità dei lavori di ricostruzione degli anni posteriori al terremoto del 1672.
Il “palazzo nuovo” comunale di Rimini venne gravemente danneggiato dal terremoto del 14 aprile 1672 e la sua ricostruzione fu tirata per le lunghe, probabilmente per potere usufruire dei cospicui capitali raccolti per la ricostruzione mediante donativi pontifici e del cardinale Carpegna, l’istituzione di nuovi dazi, esenzioni parziali di tasse. Dalla somma ricavata cospicue parti venivano prelevate e utilizzate per erigere altre opere comunali nel frattempo intraprese: nel 1681 il nuovo teatro dei veneziani Mauri venne costruito nella sala dell’Arengo, e nello stesso anno il letterato Agostino Martinelli curò il risarcimento dell’arco verso il Borgo del “Ponte di Augusto”; o infine perché i capitali messi da parte per il palazzo venivano assottigliati dai prelievi dei “depositari” o cassieri, per ragioni soggettive come quelli documentati del “depositario” o cassiere del cantiere Sperindio Sperindij.

Il libro dei conti del cantiere Entrate e Uscite della Fabrica del Palazzo Pub.co, conservato nell’Archivio Storico Comunale presso l’Archivio di Stato di Rimini – AP 822 – registra le entrate e uscite dell’ultima fase della ricostruzione, che poi è anche l’unica, dal 1686 al 1701, 14 anni dopo il disastro. Le opere tutte via via documentate di ricostruzione iniziarono nel 1686 per finire nel 1701.

Il rifacimento della “facciata del Palazzo”, o forse solo il suo completamento, è preso in esame nel Consiglio Generale del 19 aprile 1686. L’assemblea consiliare gestisce i lavori del palazzo, e intenta liti per riavere dagli eredi quanto hanno prelevato i “depositari” defunti dalle somme stanziate per il palazzo; lo stesso Consiglio decide in sostituzione della Commissione degli Eletti alle Fabbriche e Fontane. Negli atti del Consiglio Generale e dei Dodici – i XII sono una sorta di Giunta – da me consultati più volte in anni passati e recenti, non si trovano nomi di architetti relativi alla ricostruzione del palazzo, ma solo i nomi dei “Depositari” e degli “Eletti” ossia del cassiere e dei consiglieri ai quali era stato affidato il controllo delle spese e delle entrate per un certo numero di anni.

Si tenga ben presente in ogni caso che il lavoro di ricostruzione non fu certamente innovativo, ma solo di ripristino delle forme cinquecentesche, quindi facilmente conducibile da un bravo capomastro del comune. Come poi è avvenuto anche per la ricostruzione nel secondo dopoguerra, ad opera di muratori e scalpellini formati da una lunga ininterrotta tradizione e in possesso di grandi tradizionali capacità di lavoro, diretti dagli ingegneri del Genio Civile.

L’INESISTENTE NEL ‘600 “CONTE FRANCESCO GARAMPI” NELLA GUIDA DEL TONINI, UN PASTICCIO CRITICO PERDURANTE

Luigi Tonini nella prima edizione della Guida del Forestiere nella città di Rimini (1864) non chiama “palazzo Garampi” il palazzo comunale del ‘500 perché a Rimini c’era già stato un “palazzo Garampi”, era il vecchio nome del palazzo dai primi dell’800 chiamato palazzo Baldini in piazza S. Antonio – oggi Tre Martiri -, costruito intorno alla torre dell’orologio.
Tuttavia, stranamente, Luigi Tonini si preoccupa di farci sapere chi è l’architetto autore della ricostruzione.
Scrive a pagina 34 della prima guida:

“[il palazzo comunale del ‘500] cadde pel tremuoto del 1672, fu innalzato di nuovo nel 1687 con disegno del conte Francesco Garampi avo del cardinale.”

La data va bene. Mi dispiace criticare un autore così importante come Luigi Tonini, protagonista indiscusso della storiografica ottocentesca ma non solo, la cui importanza di storico non è tuttavia minimamente turbata da un’affermazione non vera, che malauguratamente si è imposta e non solo a Rimini.
È un’affermazione in sé assurda perché non è mai esistito un “conte Francesco Garampi avo del cardinale”; il primo conte Francesco (III) Garampi è il fratello del cardinale Giuseppe e lui, sì, poteva avere le competenze di un architetto, ma è fuori questione perché è vissuto nel ‘700; questo Francesco (III) è un personaggio cospicuo di cultura scientifica ma non solo, completamente ignorato dalla storiografia riminese, vedi sotto.
Ma perché a me tocca sempre di rilevare errori e falsi della tradizione certamente gloriosa della storiografia locale? In particolare ne ho stigmatizzato anche un altro di Luigi Tonini, succube per una volta del pur da lui giustamente criticato Cesare Clementini, a proposito di un fiabesco secondo porto romano di Ariminum, che poi per queste mie reiterate correzioni, più volte replicate ma mai contestate, da parte dei boccaloni del mainstream storiografico locale mi arrivano secchiate di odio e di silenzio stizzoso.

MICHELANGELO ZANOTTI ABBOZZA UNA GENEALOGIA DEI GARAMPI

Aggiungo anche che il Tonini dando il 1714 come data di morte del suo “conte Francesco Garampi” ci fa capire che prende l’informazione da Michelangelo Zanotti (1756-1830) cronista e storico di cui ci si può fidare, che non parla mai di “conte Francesco Garampi” con funzioni di architetto e segna la data di morte di Francesco (II) Garampi, che è contemporaneo sia del terremoto che della ricostruzione, vissuto nel ‘600 e morto prima del 1714.
Il titolo di conte, è sempre lo Zanotti ad informarci, fu acquistato da Lorenzo (II) Garampi – che nel 1708 riceve la dote di 3 mila scudi della moglie Diamante Belmonti -. Lorenzo (II) è padre di Francesco (III) Garampi (1711-1794), primo conte di questo nome, e del cardinale Giuseppe (1725-1792).
La poetessa e storica Rosita Copioli, esperta sulle famiglie di notabili riminesi, nel suo bellissimo libro su Alessandro Belmonte, lascia cadere il titolo di “conte” per Francesco (II) Garampi, ma seguendo parzialmente il Tonini lo dice “capomastro”. Lo Zanotti non cita questa attività, al tempo piuttosto modesta, in un notabile che sta acquistando il patriziato di Rimini e deve mostrare un treno di vita “splendido”.

Bisogna peraltro intendersi sulla “ricchezza” come misura per stabilire le fortune di una famiglia romagnola o romana. Un conto era essere ricchi a Rimini, un altro essere ricchi a Roma e a Vienna. Quando Giuseppe Garampi diventò cardinale si vide aumentare in modo esponenziale le spese per tenere una casa, numero di stanze per ricevere, numero di persone di servizio e gentiluomini al seguito, ospitalità, feste e ricambi di feste con o senza regali inclusi, esibizioni di carrozze e di gente a cavallo e a piedi con ricche livree e necessità di spese e regali per i quali sicuramente le risorse di casa Garampi non erano assolutamente adeguate.

Il Garampi monsignore era tacciato di avarizia, perché non riceveva e partecipava il meno possibile alla vita di corte quando era nunzio a Vienna e già cardinale in pectore. Era senza soldi. Le famiglie dei protagonisti della prima “cordata romagnola” alla conquista del Vaticano – i tre papi Clemente XIV di Santarcangelo, Pio VI, Pio VII di Cesena – non avevano i soldi per onorare le loro dignità supreme. Persino il nepotismo di papa Pio VI nei confronti del nipote era giustificato dal bisogno di moltissimo denaro per una famiglia, gli Onesti Braschi, di modestissime risorse economiche – e anche di nessuna preparazione per gestire il potere supremo – se paragonata alle famiglie delle corti regie e imperiali, che comunque doveva gestire il potere assoluto dello zio.

Si poteva rovinare un personaggio o una famiglia facendogli il ‘regalo’ di una dignità per la quale i gratificati non avevano le risorse di gestione. La vita si riempiva in fretta di debiti fino alla rovina.
È il caso del ducato che Sisto IV offre a Federico di Montefeltro nel 1474. La contea di Urbino non aveva la dimensione fisica e le risorse dal basso, tramite le tasse, per mantenersi come un ducato. E il conte Federico diventato duca, dovette darsi una corte con una decina di conti da mantenere e ai quali offrire terre, castelli e risorse per un treno di vita adeguato. Vero è che lui Federico era il più pagato dei signori della guerra e aveva introiti come capitano cospicui e continui fino alla morte e i suoi successori, in quanto parenti stretti di papa Giulio II e poi di Paolo III Farnese, per tre generazioni riuscirono a cavarsela, ma sempre meno bene. Un ambasciatore veneziano scriveva al Senato che per il ricevimento di una principessa di passaggio, il duca aveva spesso in pochi giorni quanto il ‘ducato’ doveva dargli in un anno…Alla fine Francesco Maria II tolse ai suoi conti quanto prima i duchi avevano dato e si ritirò a Castel Durante per non incontrare nessun personaggio da spesa.

IL PRIMO FRANCESCO (I) GARAMPI E IL FIGLIO LORENZO (I) IL “DEPOSITARIO”

Sono fedele alla tradizione, come il socialista Vittorio Belli, ma purché sia emendata da errori e falsi; mi accingo a ricostruire un certo abbozzo della storia seicentesca e settecentesca della famiglia Garampi o Garampa, che da mercanti di campagna diventarono patrizi di Rimini, comprarono il titolo di conti e uno di loro arrivò al grado principesco di cardinale, usando principalmente le affidabili Genealogie di famiglie riminesi – famiglia Garampi di Michelangelo Zanotti – Gambalunga, SC-Ms 188, cc. 31 e ss. -, notaio e custode dell’archivio notarile, le cui affermazioni sono accettabili perché sempre basate su documenti notarili citati.
Scrive lo Zanotti che la famiglia Trasii – primo cognome dei Garampi – venne da San Lorenzo in Monte. Erano ricchi mercanti di campagna. Un primo Francesco (I) Garampi marito di Violante Locatelli – dote nel 1604 c.35 v – è un mercante assai ricco, che acquista nel 1640 “un vasto casamento” in piazza S. Antonio – che sarà poi palazzo Garampi e infine Baldini -; fa testamento nel 1661. Suo erede è Lorenzo (I) che è tanto ricco da essere scelto come “depositario”, ossia come cassiere della comunità di Rimini. E qui devo dire che la mia ‘impressione’ che i “depositari”, o cassieri, seguiti o al seguito di nobili che si occupano di denaro, siano tutti dei ladri matricolati è certamente generica e basata non su una ricerca sistematica ma solo sui non pochi casi che ho trovato nelle mie ricerche. Si trovano spesso numerose liti della Comunità per recuperare i denari mal tolti e trasmessi agli eredi dei depositari. E’ anche il caso di Lorenzo (I) Garampi, che dal patrimonio finanziario del comune e da quello del Monte di Pietà ha prelevato diverse e anche cospicue somme di denaro, trasmettendole agli eredi, da provocare una lite con la Comunità riminese e con il Monte che si prolunga negli anni estendendosi all’ erede Francesco (II) Garampi.

Perché si capisca òmrno un modus operandi dei depositari, citerò un solo esempio o due: circa la metà del ‘700 arriva al cardinale Legato di Ravenna una lettera anonima: denuncia il depositario di Saludecio, che ha prestato a sé stesso, senza interessi e senza un limite preciso di restituzione, l’intero attivo di cassa della Comunità: 1000 scudi. Poi, essendo la Comunità rimasta senza liquidi per pagare le tasse pontificie, lui le ha prestato 1000 scudi con interessi e scadenze. Il Legato manda un suo giudice a Saludecio. Altra lettera anonima: il giudice è stato corrotto…Nello stesso momento a Rimini il depositario B. è fuggito col nobile suo garante lasciando uno scoperto di 20 mila scudi…

IL SECONDO FRANCESCO (II) GARAMPI FIGLIO DI LORENZO (I) IL DEPOSITARIO

Secondo un uso diffuso non solo nelle famiglie nobili, il primogenito riceveva il nome del nonno. In casa Garampi i Francesco e i Lorenzo si alternano, qui li ho distinti per non fare confusione con un numero romano per distinguere i nostri personaggi nei due secoli XVII e XVIII. Già sappiamo che il nostro personaggio presunto “architetto” o “capomastro” è Francesco (II).
Usando i regesti notarli di cui è responsabile, Michelangelo Zanotti traccia l’essenziale delle biografie dei personaggi della casa Garampi. Dopo Lorenzo (I) di Francesco (I) il “depositario”, ecco il Francesco (II) suo figlio i cui anni di vita corrispondono alle vicende del terremoto del 1672 e della ricostruzione del 1687. È l’uomo di Luigi Tonini e nostro. Con questo Francesco (II) la famiglia ha le ricchezze necessarie per un salto di status sociale, risorse ottenute dall’attività finanziaria di Lorenzo (I) e dai redditi protoindustriali di “concerie”, di cui però bisognerà sbarazzarsi per investire il denaro in beni di rendita agraria, gli unici “beni al sole” adatti alla condizione nobiliare.

Per l’eredità del padre “depositario” Francesco (II) è in lite con la Comunità di Rimini, come si rileva dai verbali dei Consigli Generali: il 18 VI 1674 il Consiglio nomina quattro consiglieri nobili perché controllino i conti della depositeria di Lorenzo (I) “da esso esercitata molti anni sono a fine di mettere in chiaro l’errore che si presuppone vi possa essere sulla revisione delli conti a danno di questa Illustrissima Comunità.” – Atti del Consiglio 1655-1676, AP 869, r. 2007, cc. 273v-274. -. Il 15 febbraio 1677 il consiglio nomina nuovi deputati “eletti a rivedere li conti agli Heredi del Signor Lorenzo (I) Garampi per la Depositeria da esso esercitata molti anni sono…” – Atti del Consiglio 1676-1684, AP 871, r.2009, c.114. 19 X 1682: facoltà del Consiglio data ai magistrati di stare in lite col “Signor Garampa (Francesco) concernente il debito del Signor Lorenzo (I) suo padre buona memoria che risulta dalle Depositarie di lui.” – Ivi, c.132. Lorenzo (I) era accusato per fondi di denaro pubblico prelevati e non restituiti.
Nelle carte dell’Archivio della famiglia Garampi depositate in Gambalunga, Busta 21, apprendiamo di una lite per la Depositeria del Monte di Pietà tenuta da Lorenzo (I).

Si conosce di questo Francesco (II) la moglie: Olimpia Maria Zangari di Longiano, sposata nel 1664. Lo Zanotti scrive che Francesco (II) “…proseguì l’avanzamento di suo stato; acquistò di molti beni, e vivendo con assai splendidezza, venne aggregato tra i nobili della Città, col qual titolo lo vediamo decorato fin dal 1692”. Delle due “conce” – concerie e commercio di pellami – si liberò nel 1711 vendendole a Francesco Piccioni un ricco campagnolo di Montescudolo. Infine è detto “mancato prima del 30 aprile 1714.” – Zanotti, op. cit. carte 47 e ss. -.

ATTIVITÀ DI FRANCESCO (II) GARAMPI NEL CANTIERE DEL PALAZZO PUBBLICO DOPO IL 1691

Come già affermato, non c’è una traccia di un’attività di architetto o di attività di gestione di cantieri edilizi nelle informazioni che abbiamo dallo Zanotti su Francesco (II) Garampi prima di essere dichiarato patrizio di Rimini e di avere un posto in Consiglio Generale.
Confermano le affermazioni dello Zanotti, con una leggera differenza di anno, le pagine degli atti consigliari: Atti del Consiglio (1684-1702) -AP 873, ì p.114 – 2 giugno 1691 Aggregazione del nobile Signore Francesco Garampi. “Il Signor Garampi desidera di essere aggregato al Consiglio nel numero dei Nobili.” Le indagini sui denari sottratti dal padre dovevano essere appena terminate se non sopite, o ritenute irrilevanti, dati i modi di funzionamento del sistema finanziario pubblico.

Aggregato in quanto patrizio – un basso genere di nobiltà che il Consiglio riminese poteva conferire, accettato dall’Ordine di Malta e da quello di S. Stefano – Francesco (II) Garampi venne subito occupato nelle commissioni di quattro consiglieri “Eletti” per seguire le varie attività della Comunità. Troviamo Francesco (II) Garampi nel libro dei conti citato come “herede” – va preso per collegato o responsabile – del depositario Francesco Maria Benzi. E anche come “Eletto alle Fabbriche” insieme a Giuseppe Antonio Battaglini, e a Orazio Dalloglio, per il periodo dal maggio al 29 novembre 1692, e dal 21 dicembre 1692 all’aprile 1693, c. 15; nello stesso gruppo, dal 1 maggio 1692 all’aprile 1693, c.20 –; in seguito, con Vincenzo Rinalducci. Giuseppe Battaglini, Pompeo Albanesi nel 1697 è revisionato per 4 anni, c.31; con gli stessi compari nel marzo del 1700 è revisionato per il periodo che arriva al 1699, c.42. In due occasioni è pagato per avere anticipato il denaro per l’acquisto di gesso, il 24 VI 1683, c.24 v., e il 17 XII 1693. c. 29 v.

Mi pare chiaro che non si tratti di pagamenti per gestire il cantiere o per attività da capomastro. Nel caso però che il Tonini abbia consultato delle fonti a me non note, giova ripetere che comunque sia non ci sono state novità progettuali rispetto alle strutture e agli ornamenti del ‘500.

L’ERRORE DEL TONINI SI FA STRADA IN EUROPA

Sospetto che il Tonini si sia lasciato sedurre dalla presenza di Francesco (II) Garampi tra gli eletti alla fabbrica del palazzo dal 1692 fino alla fine del cantiere. Avrebbe però scambiato un’attività di organizzazione e controllo del cantiere con un’attività di progettazione. Sospetto anche che il Tonini avesse un vago ricordo dell’esistenza di Francesco Garampi (III) conte e “matematico”, come ricorda suo figlio Carlo. E quindi un possibile architetto. Ha messo insieme le due figure è ha inventato un architetto nuovo.

Nella stessa Guida del 1864, il Tonini si preoccupa di creare un regesto di opere al suo conte architetto: attribuisce al “conte Francesco (II) Garampi” morto prima del 1714 anche il progetto per la chiesa dei Paolotti del 1728 e persino per la chiesa dei Gesuiti di anni non lontani – ma si veda su “Romagna arte e storia” 5 la mia ricerca sulla chiesa di San Francesco Saverio -. Anche qui non è impossibile che siano stati usati progetti preparati prima del 1714, ma è molto improbabile. Insomma un pasticcio che purtroppo ha infettato anche strumenti di consultazione europei, come uno dei 36 volumi dell’enciclopedia tedesca delle arti, che viene ancora consultata e citata nei discorsi come Thieme-Becker:

Allgemeines lexicon der bildendem kunster von der antike bis zur gegenwart regrundet von Ulrich Thieme und Felix Becker, vol. XIII
Leipzing im Harz 1920

[Voce] GARAMPI CONTE FRANCESCO: gli si attribuiscono le stesse costruzioni della guida del Tonini – palazzo Garampi e chiesa dei Paolotti – citata come unica fonte.

Alla stessa fonte si abbevera purtroppo un bravissimo storico belga contemporaneo studioso del cardinale Giuseppe Garampi, per noi tanto più importante perché con un ricco abbozzo ha tratto dal nulla la figura del fratello del cardinale, il vero conte Francesco (III) Garampi; la storia della famiglia Garampi:
Dries Vanysacker, Cardinal Giuseppe Garampi (1725-1792) an enlightened ultramontane, Institut historique belge de Rome, XXXIII, Bruxelles – Brussel – Rome 1995, pp.31- 53.
Id., L’homme derriere le cardinal.Les lettres originales de Giuseppe Garampia son frère ainè Francesco (1752-1788) conservès dans le fond Eredi Garampi à la Bibliotheque Gambalunghiana de Rimini, estratto da “Bulletin de l’Institut historique Belge de Rome, LXXI (2001); l’abbozzo della biografia di Francesco (III) Garampi pp. 203 e ss.

Da una lettera del cardinale Giuseppe, che risiedeva nelle sue diocesi di Montepulciano e Tarquinia, al fratello del maggio del 1786:

“Se voi vi siete divertito colle osservazioni celesti, io ho fatto all’incontro delle scoperte sotterranee, cioè di grotte con pitture etrusche.”
Francesco era conosciuto come esperto astronomo; si era educato nell’Istituto delle Scienze di Bologna negli anni 1734-1735 e nel 1736 aveva studiato il passaggio di Mercurio sotto il sole con Eustachio Manfredi. Nell’altana del suo palazzo riminese aveva costruito un osservatorio astronomico, che servì poi ai padri gesuiti Ruder Josip Boscovich e Christopher Maire nel 1752 per fare le osservazioni notturne necessarie alla definizione del meridiano di Roma, che passando dalla cupola di S. Pietro arrivava alla foce dell’Ausa a Rimini.
Passava per un bravissimo musicista e veniva considerato uno dei migliori suonatori di violino d’Italia. Inoltre si occupava di letteratura e di archeologia. Aveva compiti politici amministrativi e nella questione del porto si scontrò con Giovanni Bianchi, già stato suo maestro. Insomma bisognerebbe che la Rosita se ne innamorasse, lo studiasse e ci regalasse un bel libro come quello su Alessandro Belmonte.

La madonna Immacolata della Ringhiera: fusione di Antonio Landi; creazione di Giuseppe Maria Mazza (?).

LA MADONNA IMMACOLATA DELLA RINGHIERA

Dal 29 agosto 1693 viene pagato mastro Antonio Landi, detto “campanaro” “ a conto di metallo” per la “Statua della Beata Vergine che dovrà esporsi al nichio della ringhiera”; la prima rata sono 25 scudi – c.27 v. -; il 16 aprile 1694, il Landi è detto “fonditore” ed è pagato 50 scudi per metallo e “ a conto di sua mercede” – c.30 v. -; il 30 aprile del 1694è pagato ancora per metallo 80 scudi – c.31 -; il 15 settembre 1694 gli scudi sono 40 – c. 33 -; il 7 dicembre 1694 “Ad Antonio Landi fonditore da Imola” si pagano 15 scudi: il 14 aprile 1696 ancora 50 scudi “per rimborso di spesa in metallo per la statua della Beata Vergine della ringhiera.

Antonio Landi da Imola è pagato come esecutore delle parti in bronzo della statua della Vergine, che la presenza della falce lunare ce la fa riconoscere come una Immacolata, secondo il culto mariano promosso dai Francescani e a quei tempi avversato dai Domenicani.
È anche l’autore del modello in gesso o stucco necessario per la fusione?
Non lo sappiamo, ma nel secolo seguente appare un Antonio Landi di Bologna architetto emigrato in Brasile, dove viene considerato molto importante per la loro tradizione architettonica; è il nonno del nostro?
Eugenio Riccomini che ha studiato la scultura emiliana e bolognese del ‘600 e del ‘700, data all’inizio del ‘700 – ma potrebbe essere anche la fine del ‘600 – la presenza a Rimini dello statuario bolognese Giuseppe Maria Mazza (1653-1741), autore del “pannarone” con statue già nella chiesa dei Teatini, trasferito dopo il terremoto del 1916 nella chiesa di San Giovanni Battista di Rimini. Non ho trovato il suo nome tra i pagamenti, ma la statua originale potrebbe essere sua; stilisticamente gli si addice. Distrutta per le bombe della guerra mondiale, lo scheletro ferreo interiore venne rifatto e le parti riassemblate. Infine devo scusarmi con Salvatore De Vita perché non sono stato preciso a proposito dell’epigrafe di “palazzo Garampi” e ho studiato il libro dei conti dopo avere parlato con lui.

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