Un grande europeo a Rimini: Francesco Algarotti e Castel Sismondo

Un grande europeo a Rimini: Francesco Algarotti e Castel Sismondo

Fu il primo a notare l'attribuzione del castello fatta dal Valturio ad uno straordinario innominato, “una grande mente ed eccellentissimo ingegno”, diverso da Sigismondo Pandolfo Malatesta. Con le sue lettere a famosi interlocutori del vecchio continente contribuì a dare un impulso notevole alla diffusione, soprattutto in Francia e in Germania, della fama di Rimini e della Rocca.

Jean-Etienne Liotard, ritratto del conte Francesco Algarotti, 1745 (fonte).

LA RICERCA SUL CASTELLO DI RIMINI NELL’OPERA DI FRANCESCO ALGAROTTI, NEL SETTECENTO ITALIANO E FRANCESE

Francesco Algarotti (Venezia 1712 – Pisa 1764), critico letterario ed estetico, poligrafo, viaggiatore europeo negli ambienti culturali, politici e sociali alti, nell’ultimo periodo della sua vita volle venire a Rimini per un soggiorno di studio proprio per Castel Sismondo, stimolato dal De Re Militari di Roberto Valturio. Francesco Algarotti fu il primo a notare l’attribuzione del castello fatta dal Valturio a uno straordinario innominato, “una grande mente ed eccellentissimo ingegno”, diverso da Sigismondo Pandolfo Malatesta, come vedremo, e contribuì con le sue lettere a famosi interlocutori europei a dare un impulso notevole alla diffusione, soprattutto in Francia e in Germania, della fama di Rimini e di Castel Sismondo.

MOMENTI DI SINCRONICITÀ E L’APPROPRIAZIONE INDEBITA DI SCOPERTE ALTRUI

E’ un po’ di giorni che attraverso numerosi momenti junghiani di sincronicità, il che è imbarazzante per un freudiano; sono momenti di strane coincidenze ripetute, peraltro assai probabilmente spiegabili con i meccanismi complessi e misteriosi della memoria cosciente e inconscia. In un precedente intervento sul fossato di Castel Simondo ho lasciato credere di avere fatto caso, per primo – l’ipse prius narcisistico – all’attribuzione del fossato e per metonimia – la parte per il tutto – dell’intero Castel Sismondo nel De Re Militari a “Una grande mente e a un eccellentissimo ingegno”, lo straordinario innominato che noi sappiamo trattarsi di Filippo Brunelleschi.
Bè, mi sbagliavo. Poco dopo la Befana, sfurgattando tra i miei appunti, in cerca di altro, ho trovato la trascrizione di lettere di Francesco Algarotti al dottore Giovanni Bianchi, alias Janus Plancus, in alcune delle quali vi sono i quesiti relativi a Castel Sismondo e per la prima volta, a quanto mi consta, è notata l’indicazione di Roberto Valturio della mente e dell’ingegno dell’architetto del castello, citata dalla pasticciata traduzione di Paolo Ramusio. Francesco Algarotti si stava preparando a Bologna per una visita veramente culturale a Rimini e ai suoi tesori, mirata alla conoscenza di Castel Sismondo e del suo fossato. Su di lui come personaggio aggiungerò qualche informazione più sotto.

Cesare Massimiliano Gini, ritratto eroico di Mauro Antonio Tesi, acquatinta (fonte).

FRANCESCO ALGAROTTI A RIMINI NELL’ESTATE DEL 1761

Nel ritorno da una visita a Firenze, il dottor Giovanni Bianchi, o Janus Plancus e anche Giano Planco, il medico che diventerà archiatra di papa Clemente XIV, nostro maggiore erudito del ‘700, archeologo, storico e insegnante di lingua greca, formatore di una generazione di studiosi importanti, si ferma a Bologna; come apprendiamo dai suoi appunti di viaggio sotto la data 25 settembre 1758. Poco prima di ritornare in calesse a Rimini, amici comuni lo portano a trovare il conte Francesco Algarotti – che già conosceva -; nella “conversazione” il veneziano ruba la scena al Planco, gran monologhista, e parla delle vittorie militari della Prussia il cui re Federico il Grande è un suo intimo amico; gli ha dato il titolo di cavaliere con pensione e di conte ereditario; il veneziano è un suo consigliere militare.
Sorpresa per il riminese, l’Algarotti gli chiede informazioni sul De Re Militari di Roberto Valturio, umanista interessante, dice, per quanto sconosciuto, e su Castel Sismondo di cui ha letto la descrizione nella traduzione di Paolo Ramusio. Proprio in quell’anno l’Algarotti stava preparando un volumetto di Lettere militari – uscirà nel 1759 -, in cui cita il De Re Militari del Valturio che però, in confronto con il serrato e argomentato testo L’arte militare del Machiavelli, riteneva “un giardino fiorito”. Tuttavia era rimasto incuriosito della descrizione del castello di Rimini e del suo fossato.
Naturalmente il Bianchi lo invita a Rimini e si offre come guida: “Discorremmo di varie cose mostrandomi il libro del Valturio tradotto dal Ramusio e prendendo da lui il cioccolatte”. E il Bianchi sapeva che il cioccolatte gli faceva venire il caghetto; lo dice spesso nei suoi scritti, e dice anche che si curava la diarrea con l’oppio. L’oppio però gli provocava la stitichezza… Pure con l’oppio il dottor Bianchi curava la propria sciatica, insieme con i bagni di mare, quando l’acqua era calda. L’oppio cancella un po’ tutte le sofferenze corporee, dice, aggiungiamo anche le psichiche, ma solo per 24 ore. Poi il dolore si ripresenta. Si ha l’impressione che dopo anni e anni di uso dell’oppio – in pillole – il Bianchi avesse contratto una qualche forma di dipendenza che cercò di lenire.
L’Algarotti venne poi tre anni dopo a Rimini con il suo protetto, Maurino Testi, il più raffinato disegnatore, pittore e architetto della stagione artistica bolognese della seconda metà del ‘700.
L’Algarotti scrive al Bianchi una lettera il 30 settembre 1758 – conservata come tutte le altre qui citate in Gambalunga nel Fondo Gambetti -, a poche ore, si direbbe, dalla visita; scambiati i primi argomenti, il Bianchi aveva regalato al veneziano una copia del libretto Pitture di Rimino di Filippo Marcheselli rinnovato da Giovan Battista Costa:

…Ella continui ad ammaestrarmi [dice l’Algarotti al Bianchi] soddisfacendo ad alcune questioni, che io prendo la libertà di farle. Sopra quale fondamento si crede che Roberto Valturio fosse l’architetto di Castel Sismondo, come trovo nelle Pitture di Rimino da lei favoritami alla p. 61.
Lessi questi ultimi giorni dell’istesso Valturio, che, dove parla dell’arsenale di detta fortezza dice “di uno grand[issimo] excellente ingegno certe opera.”
Desidererei ancora sapere se fuori di detto Castello vi sia ancora fossa e se finalmente di detta fabbrica vi sia qualche stampa. Ardirei pregarla di volermi far copiare il testo latino dell’istesso Valturio là dove nel libro I cap. III fa per più di due pagine la descrizione di detto castello come altresì dove quella particella del libro X, dove parla della bombarda d’invenzione di Sigismondo Malatesta [non la bombarda ma la bomba a mano o granata, presente nelle xilografie in due forme] . Quando cercai in Bologna tal libro, ed è pur stata la grande ventura che se ne trovi la traduzione del Ramusio. Se vi fosse qualche autore che particolarmente parlasse di codesto loro antico letterato che fu non piccolo onore a Rimini, la prego indicarmelo.
Io sono più invogliato che mai di vedere Rimini dopo che ho avuto l’onore di rivedere Vostra Signoria Illustrissima il principalissimo ornamento suo, per cui l’onore dell’Italia suona tra l’Alpe e il mare…

Smaccatamente adulatore nel finale di questa e delle altre lettere, al limite della presa in giro, l’Algarotti aveva in mente di chiedere dei favori concreti ed importanti al Bianchi, che supponeva a ragione gli sarebbe stato utile per le sue relazioni con i prelati “padroni”, come poi farà. Ma forse il Bianchi, solitamente avido di riconoscimenti e lodi, deve avere capito il sentore di irriverenza, se si ‘vendica’ dell’Algarotti, dandogli del “dilettante di pittura” – definizione che il veneziano certamente non si meritava perché le sue numerose pubblicazioni lo fanno anzi un addetto ai lavori piuttosto bravo -. La vendetta appare in una lettera al Giannelli del 2 giugno 1763 – sempre nel fondo Gambetti, lettere al Bianchi, della Gambalunga -, dove scrive:

Arco del ponte di Augusto e Tiberio di Rimini, disegno di Mauro Tesi, 1763, acquatinta di Massimilano Gini (Lodovico Inig). Fonte

Il Signor Conte Algarotti partì di qua lasciando di sé più nome d’essere un dilettante di pittura, che un gran letterato come ha nome… ed aveva con sé un pittor bolognese dal quale fece tirar giù in prospettiva e in maniera pittoresca i disegni del nostro Arco e del nostro Ponte d’Augusto e quello della Chiesa di San Francesco… e di altre fabbriche, ed egli praticò qui più con pittori e con rivenditori di pitture che con persone di lettere…

L’Algarotti, come abbiamo accennato, era consigliere di guerra del re di Prussia, e di certo aveva trovato e in parte letto il De Re Militari del Valturio per aumentare la sua cultura storica sulle fortificazioni e per la pubblicazione che stava preparando.
Avete notato l’interesse per il fossato, tre volte citato dal Valturio, e forse argomento ossidionale ancora interessante nella prassi bellica.
La ricerca dei fondamenti delle affermazioni del Valturio fa dell’Algarotti un vero e raro ‘scienziato’ della storia; quanti oggi e anche dei più noti e anche bravi intellettuali, parlano di argomenti storici come i sovrani di antico regime “di loro certa scienza” – “è così perché lo dico io” “io so io e voi …” – senza preoccuparsi di indicare i “fondamenti” o le “ragioni” di quello che dicono. E fuori dell’ambito degli “addetti ai lavori”, c’è una specie di pandemia psichica di citazioni storiche improvvisate: si sentono citare da persone anche colte le stupidaggini pseudostoriche le più assurde, enunciate come oracoli, come se la storia non avesse un fondamento scientifico rilevabile. Ce l’ha invece: e sono le documentazioni che permettono di possedere delle certezze, poche, e anche di argomentare ipotesi ragionevoli.

FRANCESCO ALGAROTTI UN PERSONAGGIO EUROPEO A RIMINI

Chi era Francesco Algarotti? Nato a Venezia l’11 dicembre 1712 da Maria Mercati e da Rocco, facoltoso mercante; morirà di tisi a Pisa il 3 maggio 1764. Francesco era un veneziano letterato, scienziato, archeologo, esperto di pittura, architettura, musica, teatro, divulgatore, mercante d’arte, viaggiatore europeo – Francia, Inghilterra, Germania e Russia – in relazioni ambivalenti di amicizia con filosofi come Voltaire, letterati e scienziati italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Invito chi sia curioso di questo scrittore a consultare la voce su Wikipedia e nel Dizionario Biografico degli Italiani la voce di Claudio Messori – peraltro eccessivamente critica – on line.
Suo grandissimo amico e benefattore fu Federico II di Prussia, detto Federico il Grande, che conobbe quando era principe ereditario e aveva una posizione incerta per la severità, per non dire l’odio bigotto del “Re Sergente” suo padre, Federico Guglielmo I di Prussia.

Alessandro Longhi, ritratto di padre Carlo Lodoli, 1761 (fonte).

QUELLO CHE DI SOLITO SI TACE DELL’AFFETTIVITÀ E DELLA SESSUALITÀ DEI GRANDI PERSONAGGI DELLA CULTURA E DELLA STORIA DEL SECOLO XVIII

Francesco apparteneva a quella parte nobile e alto borghese della società affettiva e sessuale del secolo XVIII che formava una consorteria quasi pubblica di praticanti l’amore greco – per non usare dei termini storicamente fuorvianti come “sodomia” o “omosessualità” o anche “ mondo gay” -, eletta molto colta comprendente nobili, cardinali, lasciamo stare i papi, un sovrano o più di uno, e letterati, che godeva di molta libertà e non pochi privilegi, positivamente responsabile di molti capitali avvenimenti culturali e politici, ma non esente da pericoli mortali soprattutto nei paesi nordici. Il principe ereditario di Prussia, Federico di Hohenzollern (1712-1786), catturato in fuga da una corte eccessivamente severa, era stato costretto dal re padre ad assistere alla decapitazione del suo amico del cuore Hans Hermann von Katte, che lo aveva accompagnato, ed aveva evitato la stessa sorte per l’intervento accorato dei ministri prussiani e dell’imperatore austriaco. Il grande archeologo tedesco Johan Joachin Winckelmann (1817-1868), anche lui della consorteria dell’amore greco, vissuto a Roma come archeologo pontificio, e autore di testi che hanno iniziata la ricerca moderna sull’estetica classica, venne stilettato a morte in un albergo di Trieste da un giovane ‘amico’ conosciuto per caso. Il dottor Bianchi si fece raccontare la vicenda da un riminese che aveva una stanza nell’albergo del delitto, come scrive all’abate Cristofano Amaduzzi il 21 luglio 1768:

Nelle Gazzette di Bologna nella data di Roma sotto li 25 dello scorso è portata circostanziata la morte del povero nostro Signor Abate Winckelmann, ma non ci è posto il giorno preciso di questo accidente. Io parlai però col Signor Vincenzio Fagnani, che si trovava allora in Trieste, e nel medesimo Albergo dove successe l’Assassinio, e che il vide a morire, e dice che gli sembrò che ciò fosse verso li 12 di Giugno, e piuttosto prima che dopo. Dice che l’Abate Winckelmann non parlava mai con alcun altro nell’Albergo, fuor che con colui che l’assassinò, il quale tentò di assassinarlo anche prima di notte, picchiando alla Porta della sua Camera, ma egli non volle aprire la Porta, e la mattina domandò all’uccisore, se quell’Albergo era sicuro, perché la notte aveva sentito picchiare alla sua porta.

Anton Raphael Mengs, ritratto di Johann Joachim Winckelmann, 1755 (fonte).

FRANCESCO ALGAROTTI E PADRE CARLO LODOLI IL FAMOSO FUNZIONALISTA E CRITICO DELL’ARCHITETTURA CLASSICA

Francesco Algarotti aveva imparato la lingua greca a Venezia dal frate francescano Carlo Lodoli (Venezia 1690-1761), il famoso critico funzionalista dell’architettura classica – aveva anticipato l’architettura funzionale del ‘900 -, che nelle sue ultime ore di vita era stato crudelmente interpellato da un suo giovane allievo un po’ sfacciato: il ragazzo voleva sapere se per caso fossero vere le voci su la di lui sessualità greca… Sì caro, aveva risposto il frate. Ma allora Dio? Il giovane che lo stava interrogando doveva avere qualche cattiveria da sfogare verso il vecchio frate. Il Lodoli lo blocca con una risposta fulminante: Dio perdonerà, è il suo mestiere. Con questa risposta l’inventore della futura architettura moderna aveva anticipato anche la teologia di papa Francesco. Credo che il nostro Bianchi avesse qualche curiosità in materia, non sto insinuando niente di preciso; il dottore era curioso soprattutto dell’omosessualità delle donne, si pensi al caso clinico da lui indagato e pubblicato della “donzella di Lesbo”, la romana Teresa Vizzani, cha aveva vissuto la sua giovane e breve vita vestita da uomo corteggiando le ragazze ed era stata ammazzata per istigazione di un giovane prete vicino a Siena. Recentemente Marzio Barbagli ha pubblicato Storia di Caterina, che per ott’anni vestì abiti da uomo, un’analisi del ‘caso clinico’ descritto da Giovanni Bianchi con segnalazione dell’eco e della bibliografia europea che ebbe il libretto. Ci sono peraltro anche alcune lettere in cui il Bianchi affronta simili argomenti sessuali e affettivi in relazione a suore e a donne avventurose di passaggio nelle osterie di Rimini, magari ne riparleremo. Mi piacerebbe, se avrò tempo, affrontare altri argomenti di storia dell’affettività e della sessualità riminesi e romagnole. Un filone di ricerca che ho già coltivato e che mi auguro abbia fortuna in futuro anche per migliorare i costumi.

Bologna, Palazzo Poggi, sede dell’Istituto delle Scienze e dell’Accademia Clementina (fonte).

I PRIMI STUDI A BOLOGNA DI FRANCESCO ALGAROTTI NELL’ISTITUTO DELLE SCIENZE E NELL’ACCADEMIA CLEMENTINA. LA RIFORMA ANTIBAROCCA

Il giovane Algarotti dopo l’educazione veneziana era poi passato a studiare a Bologna in un momento magico della cultura bolognese. Erano state aperte due istituzioni culturali prestigiose, protette dal papa bolognese Benedetto XIV, la prima era l’Istituto delle Scienze, dove gli scienziati e i medici, di estrazione sociale aristocratica e alto borghese ma non solo, sussurravano che Galilei sul fatto del sole aveva ragione, dando la colpa della sua persecuzione ai frati, anzi ai Gesuiti. L’altra istituzione era l’Accademia Clementina per gli artisti e gli artigiani del mondo dell’arte, nella fase post barocca del mondo estetico bolognese. L’Algarotti partecipò alla moderazione, se non alla fine del barocco scenico, che trionfava a Bologna da un secolo, per teatri, palazzi e chiese, specialmente ad opera della numerosa tribù dei Galli Bibiena, architetti teatrali di fama europea che anche a Rimini hanno lasciato una traccia notevole per tutto il secolo XVIII.

Chiesa di San Francesco Saverio (Suffragio) di Rimini, Francesco Galli Bibiena o/e Giuseppe Chamant, decorazioni dell’interno, c. 1730.

FERDINANDO, FRANCESCO GALLI BIBIENA, FRANCESCO CHAMANT E GAETANO STEGANI ARCHITETTI BOLOGNESI A RIMINI

La presenza di Ferdinando Bibiena (Bologna 1657-1743) il patriarca negli anni ’20 del ‘700 – il soffitto di Sant’Agostino, una scala del convento dei Teatini scomparsa; forse la scala del convento di S. Francesco pure scomparsa –, di suo fratello Francesco Galli Bibiena (Bologna 1659-1739) negli anni ’30 del ‘700 – il teatrino degli Arcadi in via Clodia, scomparso, la chiesina di Santa Maria ad Nives, attribuita, un progetto per il rinnovo della chiesa dei Servi a Milano nelle Raccolte Bertarelli – e del discepolo di Francesco di nome Joseph Chamant (Haraucourt 1699- Vienna 1768) nell’interno della chiesa dei Gesuiti, e nel Collegio l’Oratorio dei Nobili, entrambe le opere forse in collaborazione con il maestro Francesco. Ultimo architetto bibienesco a Rimini, dopo che Giovan Francesco Bunamici (Rimini 1692 – 1759 ) aveva adottato il linguaggio architettonico di Roma, fu Gaetano Stegani autore della nuova chiesa dei Carmelitani nel Borgo di San Giovanni Battista, dell’interno della chiesa dei Servi e di altre opere. Il nuovo stile bolognese patrocinato anche dall’Algarotti quando tornò in Italia e per qualche anno risiedette a Bologna, cercava di ridurre le bizzarrie barocche in parallelo con lo stile francese che nei mobili si chiama “Louis XVI”, un classicismo con ancora fondamentali eleganze di linee della bellezza barocche, di andamenti ovali e stilemi di nastri e corone che sarebbero stati presto cancellati dai rigori di linee rette e di massicci volumi dorici nei decenni della Rivoluzione Francese e dell’Impero napoleonico.

Ritratto di Pierre-Jean Mariette (fonte).

Non starò a indicare i viaggi a Parigi, a Londra e a Berlino dell’Algarotti, e gli studi delle lingue francese, inglese e tedesca. Il libro Neutonianesimo per le dame, assai più serio di quanto suggerisca il nome, provocò l’invidia e la critica ingenerosa di Voltaire. In Prussia rimase molti anni ospite di re Federico il Grande, che lo aveva conosciuto quando era ancora principe ereditario e l’accostarglisi poteva costare caro al veneziano. Il re lo fece cavaliere con una pensione annua, e conte ereditario, con l’incarico di consigliere militare e artistico. Diversi anni passò anche presso l’Elettore di Sassonia e re di Polonia, per il quale acquistò in Italia diversi capolavori di pittura conservati a Dresda, meritandosi il disprezzo degli intellettuali nazionali e l’inizio della sua cattiva fama.
Venne a Rimini con Mauro Tesi, un giovane bravissimo disegnatore e pittore suo protetto, col quale aveva studiato le bellezze architettoniche di Bologna, e aveva progettato di fargli conoscere le bellezze della Romagna. Della serie di disegni che Mauro Tesi dedicò ai nostri monumenti conosco solo un’incisione dell’arco centrale del ponte di Augusto e Tiberio, lato mare, arrivatoci in un’incisione di Cesare Masssimiliano Gini.

Pagina della Storia dell’arte di Seroux d’Agincourt dedicata al Tempio Malatestiano.

FRANCESCO ALGAROTTI SCRIVE A PIERRE-JEAN MARIETTE SULLA PESCHERIA DI RIMINI

Dopo il viaggio a Rimini Francesco Algarotti scrisse al suo amico francese Pierre-Jean Mariette (Parigi 1694 -1774) e gli comunicò notizie di Rimini e della sua pescheria, opera di Giovan Francesco Buonamici del 1747. Certamente Rimini era conosciuta in Francia per la storia del Rubicone, e come tappa del grand tour, e più tardi per Palo e Francesca, quando si diffonderà la fama di Dante; il Mariette, storico dell’arte, incisore, collezionista e libraio era in contatto col tout Paris, al punto che i suoi manoscritti erano ancora fonte di informazione nell’800 quando furono pubblicati, quella fama poteva incrementarla. Il francese, possiamo ipotizzare, fece circolare le informazioni avute dall’Algarotti. Si stava formando un interesse tematico riminese nella cultura francese che poco dopo attraverso il d’Agencourt e altri importanti personaggi sarebbe arrivato fino a Charles Yriartre (Parigi 1832 – 1898). Non sono al corrente della diffusione in Germania di lettere dell’Algarotti; ma sembra un fatto probabile per l’amicizia col re di Prussia, che si assunse le spese per il monumento funebre all’Algarotti nel cimitero di Pisa, e con l’accademia di Berlino.

Pagina della Storia dell’arte di Seroux d’Agincourt; la sesta pianta alla nostra sinistra a partire dal basso è della chiesa riminese di San Michelino in Foro.

JEAN BAPTISTE LOUIS GEORGES SEROUX D’AGINCOURT INCARICA GAETANO STEGANI DI DISEGNARE LA PIANTA DI CASTEL SISMONDO

Jean Baptiste Louis Georges Seeoux d’Agincourt (Bouvais 1730 – Roma 1814) archeologo e storico dell’arte, era diventato a Parigi un “fermier général”, apparteneva cioè al gruppo ristretto, una sessantina di persone, che dirigeva la finanza pubblica francese. Ricchissimo quindi. Nel 1778, dopo una visita alle cattedrali europee, si dimise da fermier e si stabilì in Italia dedicandosi allo studio dell’arte posteriore a quella classica. Andava a visitare le città grandi e piccole e tutti i luoghi dove c’erano opere d’arte medievali e posteriori al Medio Evo. Rimini lo interessò molto, entrò in relazione con i due importantissimi storici dei Malatesta, i fratelli Gaetano Francesco Battaglini (1753 – 1810 ) editore dell’opera poetica di Basinio da Parma, e Angelo Battaglini (1759 – 1842) quest’ultimo autore di una comunicazione Sull’architetto della fortezza riminese . Il d’Agincourt commissionò a Gaetano Stegani il rilevamento della pianta del castello riminese e poi mandò a Rimini dei giovani della scuola francese di Roma a farde ulteriori rilevamenti.

Pagina della Storia dell’arte di Seroux d’Agincourt; la quarta incisione a destra a partire dal basso è la pianta di Castel Sismondo tratta da disegno di Gaetano Stegani.

Grazie a questi disegni, oggi conservati in Vaticano, e alle piccole e grandi incisioni della Histoire del ‘Art par les Monuments 1808 1823, conosciamo monumenti di Rimini purtroppo scomparsi. Ricordo la chiesetta di San Gregorio nel Borgo San Giovanni, piccola ma ricoperta al suo interno di mosaici del VI secolo, come il Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna – e lì nel Borgo San Giovanni Galla Placidia aveva fatto erigere una basilica – che il suo proprietario, un arrogante e compiaciuto cretino, di una eletta riminese che non si è estinta purtroppo, fece distruggere San Gregorio per ricavare qualche soldo con i mattoni, malgrado un giovane storico lo avesse scongiurato di non farlo.
Alla fine del terrore i fermiers colleghi del d’Agincourt, tra i quali c’era il grande chimico Lavoisier vennero condannati da Robespierre alla ghigliottina, il nostro di salvò per essere rimasto a Roma durante la Rivoluzione.

Gaetano Stegani, pianta di Castel Sismondo.

ANGELO BATTAGLINI

Interlocutori riminesi del d’Agincourt, come accennato, col quale scambiarono lettere, furono due nobili fratelli riminesi, Francesco Gaetano (1753-1810) e Angelo (1759 – 1842) Battaglini. Le loro lettere si conservano nel Fondo Battaglini presso la Biblioteca Universitaria di Bologna.
Sui fratelli Battaglini, ottimi storici, si vedano on line le voci del Dizionario Biografico degli Italiani curate da Augusto Campana. Furono entrambi due esperti di storia malatestiana, il primo pubblicò a sue spese le opere più importanti del poeta Basinio da Parma aggiungendo un ‘Della vita e de’ fatti di Sigismondo Pandolfo Malatesta’, mentre il fratello Angelo, che era a Roma come scrittore della Biblioteca Vaticana, aveva aggiunto un ‘Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta Signore di Rimino’.

Ritratto di Jean Baptiste Louis Seroux d’Agincourt (fonte).

Angelo va ricordato qui per un suo manoscritto pubblicato nel 1882 ‘Sull’architetto della fortezza riminese’, dove riprende la critica dell’Algarotti all’autoria di Roberto Valturio ma senza notare l’accenno alla mente e all’ingegno straordinari dell’autore innominato, per concludere “Sigismondo Pandolfo che fece innalzare la fortezza cognominandola dal proprio nome ne fu dunque l’inventore e l’architetto.” Tale autorevole ma errato giudizio passò poi a Luigi Tonini e bloccò a Rimini per lungo tempo il riconoscimento dell’attribuzione documentata a Filippo Brunelleschi di Castel Sismondo.

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