Una nuova parola al giorno… una mamma con prole in libreria

Una nuova parola al giorno… una mamma con prole in libreria

Sulla porta d'ingresso compare un terzetto composto da una giovane mamma, un bambino e una femminuccia. Giovanni Luisè li conosce, dunque li saluta, mentre la madre gli chiede: «che nuova parola ha pensato per i miei bambini?».

Di questi tempi accade di vedere bambini, perfino già nel passeggino, ingrugniti a spippolare su telefonini e tablet, estemporanee “tate elettroniche” degli anni 2000. Per fortuna, di recente ho avuto il privilegio di assistere a una scena che ha sortito l’effetto rivitalizzante di un cardiotonico. Pochi giorni fa sono da Giovanni Luisè, libraio antiquario ed editore, innamorato della propria attività e con una palese, peraltro dichiarata, passione per il Risorgimento e la figura di Giuseppe Mazzini. Eloquente l’immagine, logo e nome della libreria, che domina la porta d’ingresso.
Oltre ad essere un autorevole esperto di libri antichi, Luisè è un conversatore arguto, quindi piacevole da ascoltare. È possibile vederlo, di tanto in tanto, ostentare la barba fuori dall’uscio per farla rivaleggiare in candore con la pietra d’Istria del Tempio Malatestiano. La sua bottega antiquaria infatti è là, quasi compiaciuta, nell’assorbire la distensiva atmosfera rinascimentale di via Leon Battista Alberti. L’editore trascorre molte ore della giornata tra pile di tomi antichi e moderni. Mi ha confidato che ogni tanto, nell’austero silenzio intriso della cultura che emana da sotto le copertine dei volumi, gli capita di avvertire un frusciare sinistro. È la protesta (quasi) silenziosa, sostiene, delle ultime pagine dei libri, quelle raramente lette che ospitano note, appendici, indici. Quindi i libri sono vivi. Hanno un loro odore particolare e una propria personalità. Vanno capiti, ma soprattutto diffusi e naturalmente, letti. Mentre chiedo a Luisè se abbia una certa pubblicazione che sto cercando, ecco che si materializza il “cardiotonico”.
Sulla porta d’ingresso compare un terzetto composto da una giovane mamma, un bambino di circa 8/9 anni e una femminuccia, forse di 5. Giovanni li conosce, dunque li saluta strizzando entrambi gli occhi, come fanno i gatti, mentre la madre gli chiede: «signor Luisè, che nuova parola ha pensato per i miei bambini?». Il libraio nota la mia espressione interdetta, per cui spiega a mio beneficio che «quando passa in centro per commissioni, la signora si ferma da me per avere consigli su quali pubblicazioni siano più adatte a loro e una nuova parola da suggerire ai due figli perché acquisiscano nuovi vocaboli. Ormai è un rito che ripetiamo entrambi e molto volentieri, per i suoi bambini». Quel giorno, la parola nuova dell’antiquario è “deduzione”. Prima di uscire di casa, mentre mi radevo avevo ascoltato una trasmissione su RaiPlay in cui Pier Paolo Pasolini in un passo di “Ragazzi di vita” (Garzanti, 1955) descrive alcuni bambini “coi zinalini”. Dunque, mi permetto di proporre a mia volta una parola: “zinale”. Credo che dalle nostre parti il termine si adoperi perlopiù in dialetto e generalmente in modo accrescitivo, “zinalon”, come mi è capitato di sentire più di una volta. A quel punto, l’editore osserva che il dialetto è una vera e propria lingua che non va trascurata e anzi, nota che andrebbe conservata con riguardo e rispetto. È stato giocoforza, finire per parlare di “Rò e Bunì”.

Giovanni Luisè.

Questi due nomi convenzionali, nel nostro territorio si danno ai buoi aggiogati, per un preciso motivo.
A tal proposito, nel riquadro dedicato (in fondo), il lettore può trovare interessanti spiegazioni a cura di Oreste Delucca, ricercatore e studioso di storia locale. Tra una chiacchiera e l’altra, si fa tardi, la mamma con i figli ringrazia e si congeda. Là per là manco di tempismo e non le chiedo un futuro incontro per farmi raccontare meglio quale segreta formula abbiano usato, lei e il marito, per iniziare alla lettura i loro bambini. Me ne rammarico. È trascorso più di un mese, da quel giorno e che io sappia, i tre non si sono più visti. Ho anche pensato di essere piombato in un episodio della serie americana andata in onda anche in Italia dagli anni ’60 al 2015, “Ai confini della realtà” e che l’incontro sia stato dovuto al mio immaginifico ingresso in un’altra dimensione. Più concretamente, Giovanni è sicuro che prima o poi i tre ritorneranno a trovarlo. Certamente accadrà, ma nel frattempo volevo ugualmente riferire del rassicurante contatto avuto e se in futuro potrò parlare con quella brava mamma, le farò le domande che non le ho posto quella mattina. Comunque sia, ora ho una certezza: non esistono solo giovani digitatori compulsivi. Penso che il merito vada attribuito a genitori che senza forzarli, ma toccando i tasti giusti della loro curiosità, sono capaci di indirizzare l’interesse dei figli verso l’odore della cellulosa e della lignina anziché a quello della plastica e dei minerali delle cosiddette “terre rare”. Senza considerare poi che grazie al loro illuminato comportamento genitoriale, non corrono il pericolo di consegnare alla società giovani nomofobici (dal neologismo britannico “no-mobile-phobia”, paura di rimanere senza telefonino) rammolliti nel cervello e nell’anima. Sono l’ultimo che possa permettersi di fare predicozzi a chichessìa, nonostante ciò, visto che sono incappato in qualcosa di molto positivo, non vedo motivi per non scriverlo. Speriamo solo che molti genitori facciano di tutto per far comprendere ai figli quanto sia importante frequentare biblioteche (la Gambalunga ha spazi e iniziative dedicate ai ragazzi) e librerie.
E se per avventura, una fosse quella di Giovanni Luisè, perché rinunciare di vedere una barba bianca come la pietra d’Istria, allargarsi intorno a un sorriso?

Ro' e Bunì, buoi aratori fra Marche e Romagna
di Oreste Delucca*

Non ho fatto una indagine specifica, ma l’usanza contadina di chiamare (e incitare) i buoi aratori col nome di Ro’ e Bunì (talora anche Boni) un tempo risultava diffusa quantomeno nella bassa Romagna e nelle Marche settentrionali. Per maggiore esattezza, la tradizionale coppia di buoi veniva aggiogata all’aratro (o al carro) in maniera tassativa: Ro’ alla sinistra e Bunì alla destra, quest’ultimo destinato a camminare nel solco. Gli animali erano abituati fin da giovani a tale collocazione, che per loro diventava imprescindibile. Ricordo che, durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi requisivano il bestiame per esigenze di trasporto, la loro inesperienza li portava talora ad accoppiare i buoi in modo sbagliato. A quel punto gli animali si piantavano e non c’era verso di farli procedere.
Oggi il bestiame ha lasciato il posto alle macchine e l’utilizzo del parco bovino per il lavoro agricolo è pressoché cessato, salvo qualche rara e isolata persistenza. Ro’ e Bunì è rimasta solo una espressione del linguaggio figurato, con l’arcaico significato totalizzante, per intendere “tutti” e “tutto”, “da una parte all’altra”, “da destra a sinistra”: un retaggio di quando la coppia dei buoi – per la sua importanza ed il suo valore – rappresentava l’universo del contadino.
Determinare l’origine delle terminologie di ambiente rurale non è mai facile, perché mancano “certificati di nascita”. Con questa noticina vorrei soltanto riprendere e integrare alcuni vecchi studi d’inizio Novecento, per dare risposta ad un interrogativo rimasto finora inevaso e per attestare come la consuetudine di chiamare la coppia dei buoi aratori col nome di Ro’ e Bunì abbia le sue radici per lo meno nel tardo Medioevo.
Il riminese Guido Tonini, in un lungo saggio pubblicato nel 1930, si sforza di delineare l’evoluzione delle specie bovine presenti in Italia a partire dai primordi, in stretto collegamento con l’evolversi delle strutture rurali. In base a varie fonti sostiene, fin dall’antico, la compresenza del bove rosso e di quello bianco o grigiastro da lavoro. Nel Medioevo, per molti secoli, sarebbe prevalsa la razza rossigna, caratterizzata da maggiore rusticità e migliore adattamento alla vita brada. Con il progressivo intensificarsi dell’agricoltura e l’estendersi dei suoli arativi, i bovini colorati avrebbero subìto un graduale rimpiazzo con i maremmani, dal manto grigio, più forti e resistenti ai lavori. La fase intermedia, caratterizzata dall’abbinamento di un animale rossastro con uno grigio-biancastro (destinato al solco, cioè alla posizione più disagiata), in Emilia-Romagna sarebbe durata a lungo, fino al Settecento. Frattanto, il paziente processo di selezione e accoppiamento del torello di ascendenza maremmana con la vacca emiliano-romagnola avrebbe prodotto un continuo ingentilimento della specie, nella conformazione e nel mantello, portando alla cosiddetta “Razza Bovina Gentile Romagnola”: i solenni bovi bianchicci dei nostri ricordi, nel tempo divenuti presenza esclusiva d’ambo le parti del giogo.
Devo dire che le fonti trecentesche riportate dal Tonini, attestanti la prevalenza del bestiame rossiccio, trovano sostanziale conferma nelle coeve carte riminesi, da cui traggo qualche sintetico esempio; mentre nel Quattrocento i rapporti paiono equilibrarsi:

– 11 contratti degli anni 1324-1326, riferiti ai mercati della Valconca, riguardano 14 bovini, di cui 8 rossi, 4 chiari e 2 scuri”;

– 7 contratti degli anni 1487-1499, riferiti a soccide in varie località del contado, riguardano 103 vacche, di cui 44 rosse, 33 chiare e 26 brune. L’argomento meriterebbe una indagine più dettagliata, mettendo a frutto il ricco materiale archivistico disponibile, anche per ricavare alcuni elementi sulle razze e le provenienze: ricordo, ad esempio, che durante lo spoglio mi è capitato più volte l’accenno a vacche “trentine”. Ma in questa sede voglio piuttosto soffermarmi sulle terminologie usate per indicare il colore dei capi bovini, nonché sul nesso con le parole Ro’ e Bunì.
A detta del Tonini, anche il poeta Giovanni Pascoli si era interessato al tema, sostenendo che Ro’ significasse rosso e Bonì significasse bianco, volendo con ciò indicare l’accoppiamento del bue rosso (a mano sinistra) e del bue bianco (a mano destra). Guido Tonini, viceversa, accoglieva l’ipotesi di monsignor Giuseppe Villani, che faceva derivare Boni da Bonellus, il nome di un eretico riminese convertitosi in occasione del noto “miracolo della mula” procurato da Sant’Antonio. L’esame delle carte riminesi del Tre-Quattrocento mostra come nel vero fosse il Pascoli e come già in quei secoli sussistesse l’usanza di abbinare un bovino bianco (o bianchiccio) ad uno rosso.

“Va là Rò dài so Bunì”, volumetto di poesie scritto dal veterinario Mario Aluigi (1925-2013) in vernacolo di Corpolò. Copertina e tavole (belle, ndr), illustrate da Gloria Valentincich; Pazzini Editore, 2003.

Riporto a titolo esemplificativo:

1383 novembre 16: a Rimini, affitto di duos boves videlicet unum pilaminis rubei cum cor- nibus levatis, alium pilaminis clarini cum cornibus levatis (ASR, Fondo diplomati- co, pergamena 2441);

1407 maggio 7: a Rimini, affitto di unum par bobum quorum unus est pilaminis ruber cum cornibus levatis, alter vero pilaminis blanchi cum comibus levatis (ASF, Fondo notarile di Santarcangelo, not. Nicola di Francesco Duti 1407/1411, c. 39);

1426 febbraio 25: a Rimini, affitto di unum par mangiorum quorum unus est pillaminis rubey cum cornibus levatis, alius est pillaminis blanchetti cum cornibus levatis (ASR, not. Francesco Paponi 1425/1427, c. 56);

1473 febbraio 18: a Montefiore, affitto di duos boves quorum unus est pilaminis blanci cum cornibus levatis […] alter bos est pilaminis rubei cum cornibus levatis in ante (ASF, Fondo notarile di Montefiore, not. Francesco di Angelo 1473/1474, c. 25);

1473 dicembre 20: a Montefiore, affitto di unum par bovum […] quorum bovum unus est pilaminis clarini vel quasi cum cornibus clarinis […] alter vero est pilaminis rubey vel quasi cum cornibus levatis (AS, Fondo notarile di Montefiore, not. Francesco di Angelo 1473/1474, c. 106);

1481 febbraio 8: a Roncofreddo, inventario post morte comprendente unum par bovum a iovo videlicet unus ipsorum pilaminis rubey et alter pilaminis albi cum cornibus altis (ASF, Fondo notarile di Longiano, not. Pietro Barbieri 1481/1484, c. 9);

1486 dicembre 14: a Longiano, divisione ereditaria comprendente unum par bovum vide- licet unum rubeum et alium album (ASE, Fondo notarile di Longiano, not. Simone di Cristoforo Laurenzi 1478/1489, c. 206);

1494 aprile 26: a Santarcangelo, inventario post morte comprendente uno par bovi, uno rosso e uno biancho, domi (ASF, Fondo notarile di Longiano, not. Simone di Cristoforo Laurenzi 1490/1504, c. 102);

1495 settembre 19: a Rimini, affitto di quota unius paris bovis […I videlicet unius bovis pillaminis clarini cum cornibus altis et unius bovis pillaminis rubeis cum cornibus calbis (ASR, not. Bartolomeo Fagnani 1495/1496, c. 137);

1496 settembre 27: a Rimini, affitto di unum par bovum videlicet unum bovem pillaminis rubei cum cornibus apertis et unum bovem pillaminis blanchetti cum cornibus etiam apertis (ASR, not. Bartolomeo Fagnani 1495/1496, c. 239). Altre fonti riportano in modo più specifico l’abbinamento rubeus-bonellus (o bunellus):

1436 settembre 3; a Gatteo, assegnazione al mezzadro di unum par bovum ab aratro quo-rum unus est pillaminis bunelli cum cornibus levatis et alius est pillaminis rubey cum cornibus apertis (ASR, not. Francesco Paponi 1436/1437, c. 32);

1487 febbraio 8: a Montefiore, affitto di unum par bovum sive mangiorum quorum unus est pilaminis bunelli […] alter vero mangius est pilaminis rubei vel quasi (ASF, Fondo notarile di Montefiore, not. Giambattista Tomasini 1488, c. 230);

1489 marzo 31: a Longiano, affitto di unum par vacharum ad arandum unius pillaminis bonelli et alterius rubei, cum cornibus altis (ASF, Fondo notarile di Longiano, not. Giovanni Antonio Sarti 1489/1493, c. 32). Che il termine bonellus o bunellus significhi bianco, biancastro, emerge inequivocabilmente da atti quali:
1495 dicembre 1: a Santa Giustina, inventario post morte comprendente do para de boi cioè uno de pele rosso con le corne dritte chiamato el Roxo, l’altro de pele biancho con le corne a scarpione chiamato el Bonello, l’altro de pele anchora rosse con le corne pigate in drede chiamato anchora el Roxo e l’altro de pele quaxe bunelle con le corne el simile al Roxo chiamato el Bonello (ASR, not. Pietro Cavalieri 1495/1496, с. 43).

1498 maggio 26: a Montecolombo, inventario post morte comprendente quota parte unius bovis pilaminis rubei cum cornibus chiarinis; item unius alius bovis pilaminis albi sive bonelli cum cornibus bonellis (ASR, not. Baldassarre Palazzi 1498/1499, c. 37).

Se consideriamo poi documenti come l’atto del 4 luglio 1362, riguardante l’affitto, a Rimini, di medietatem unius bovis pelaminis roli sive rubei cum cornibus brochis, il quadro può dirsi completo: frequentissimamente la coppia bovina è composta da un capo che – in base al colore – è definito rubeus-rolus-roxo e da un capo detto bonellus-bunellus. Per palese troncamento, derivano il Ro’ e il Buni (o Boni) che tanta eco hanno avuto nelle campagne per vari secoli, a partire quantomeno dal XIV e XV. Col tempo, all’ accoppiata rosso-bianco si è venuta sostituendo la pariglia bovina totalmente bianca; ma l’ormai radicata espressione Ro’ e Buni è rimasta nella consuetudine, perdendo il riferimento al colore del pelame per conservare unicamente l’indicazione di sinistra-destra.

*Tratto da “Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale”, nr. 60/2008

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