«Vicende del patrimonio artistico riminese»: il prof. Pasini si toglie qualche sassolino

«Vicende del patrimonio artistico riminese»: il prof. Pasini si toglie qualche sassolino

Il rapporto dei riminesi con la cultura artistica, molto controverso. Il libretto di risparmio che banca Carim aprì a «Giotto pittore». La storia del recupero degli affreschi nella chiesa di Sant'Agostino. L'origine del disinteresse che i riminesi hanno sempre manifestato verso i beni culturali. E l'appello ironico a ritrovare la splendida scultura di Alberto Viani, la "Grande Madre".

È raro che il prof. Pier Giorgio Pasini prenda la parola pubblicamente sulle «vicende del patrimonio artistico riminese». Lui le conosce certamente molto bene quelle vicende, se ne è occupato in numerosi libri, ma chi può dire cosa pensi il professore sulla scottante attualità del dibattito sul patrimonio artistico di Rimini? Qual è il suo giudizio su piazza Malatesta cementata con “piscina” incorporata, sul castello okkupato dal Museo Fellini, sulle mura malatestiane bucate per sostenere la passerella gnassiana… Insomma, con quale animo avrà seguito questi “assalti” al patrimonio artistico della città nell’ultimo decennio, che pure hanno visto esperti di casa nostra e non solo, esprimersi chiaramente e in modo contrario alle scelte comunali calate sulla testa di tutti? Beh, rimaniamo ancora con la voglia di saperlo, perché il prof. Pasini nel presentare un suo libro ormai datato (Vicende del patrimonio artistico riminese, editore Panozzo), seppure con alcune aggiunte, sabato scorso nella Cineteca comunale – introdotto da Annamaria Bernucci – non ha detto nulla su questi argomenti. Ma qualche giudizio che ha lasciato il segno la cronaca giornalistica deve registrarlo e c’è da scommettere che se lo spazio delle domande fosse stato meglio organizzato, almeno alcuni dei temi di stringente attualità sarebbero stati posti all’attenzione del professore.
Partiamo dalla fine, e dall’unica domanda che nella fase già del “rompete le righe” seguita al suo lungo intervento, è stata posta da una persona del pubblico: «Cosa pensa della candidatura di Rimini capitale della cultura. Interrogativo capitale, non c’è dubbio, e Pasini, pur cavandosela in modo un po’ frettoloso, non è sembrato troppo ottimista: «Penso sia un’utopia fatta adesso, se si poteva aspettare qualche tempo forse si sistemavano alcune cose, però non lo so, speriamo…». Così, letteralmente.
«Da una decina d’anni non ci vediamo, perché sono diventato troppo vecchio, non mi cercano più, mi cercano in giro … a Cesena, Forlì», ha esordito. Ha cominciato parlando di Giotto e subito è arrivato il primo affondo: «Tutti noi lo conosciamo in qualche modo, è il pittore del poverello di Assisi, per primo ha saputo esprimere le novità di carattere spirituale di San Francesco, ed è stato colui che ha provocato la rivoluzione nella pittura italiana». Dopo di lui «le cose sono andate in un altro modo, non ci si è più fidati della tradizione ma si è cercato di capire come rappresentare in maniera abbastanza realistica». Di Giotto ha messo anche in luce il volto da «affarista, usuraio, una carogna, affittava i telai ai tessitori poveri e se non gli pagavano l’affitto entro il termine stabilito li faceva mettere in prigione, è capitato almeno sei volte nella sua vita». Poi Giotto e Rimini: «non sapevamo però che Giotto era stato correntista della Cassa di Risparmio di Rimini; tra i documenti dell’ispettore onorario Alessandro Tosi ho trovato tre libretti di risparmio intitolati “Giotto pittore”. Quando li ho trovati purtroppo Carim era un po’ in agonia altrimenti sarebbe stata una vera pubblicità per lei poter dichiarare che tra i propri correntisti ha avuto anche Giotto». Correntista? Vediamo. «Il 23 dicembre 1921 Carim apre un libretto di risparmio intitolato “Giotto pittore”, certo che non era il Giotto vero … ma nel libretto ci sono i depositi e i ritiri, sono stati depositati molti soldi. Questo libretto rappresenta il momento in cui le vicende del patrimonio artistico riminese sono state meglio curate dai riminesi stessi». Quindi la prima tirata d’orecchi: «I riminesi non hanno mai avuto un grande interesse per il loro patrimonio artistico. È vero che quando sono arrivati i francesi di Napoleone, i riminesi hanno trasformato il papa che era in piazza in un vescovo per non farlo requisire, però è tutto lì, per il resto i riminesi dell’arte, dei prodotti artistici, della cultura artistica della città se ne sono sempre fregati altamente». Qualche altro interesse diciamo che si è manifestato, ad esempio con i mille che abbracciarono il teatro Galli per chiedere la ricostruzione filologica, ma adesso l’attenzione va posta sul pensiero di Pasini. In quel frangente storico però l’orgoglio è venuto fuori. Cosa è successo? «Nel 1916 ci fu un grande terremoto, anche la chiesa di Sant’Agostino venne sconquassata e dai muri dell’abside e del campanile saltarono fuori degli affreschi del Trecento. Vittorio Belli scarnificando un pochino il colore che era stato dato su quegli affreschi scoprì un volto che gli sembrava il ritratto di Dante. Nel 1921 c’erano i grandi festeggiamenti per il quinto centenario della morte di Dante e questo ha comportato una cosa importantissima: lo Stato si è occupato del restauro degli affreschi. Oltre agli affreschi dell’abside e del campanile è emerso anche un affresco grandissimo largo quanto tutta la chiesa, nascosto dietro al soffitto del Settecento… il Giudizio Universale. Cominciarono grandi discussioni: è il caso di staccare l’affresco e portarlo via dal suo muro? Come metterlo in evidenza? La Soprintendenza aveva anche ipotizzato di ricavare un’asola nel soffitto del Settecento, un buco orizzontale ampio per tutta la chiesa, e attraverso questo far vedere almeno un po’ dell’affresco. Lo Stato non aveva più soldi e allora come procedere?». A darsi da fare, come aveva fatto in tutta la sua vita a favore del patrimonio artistico riminese, sarà Alessandro Tosi, che «si è messo a cercare i soldi, fondando una specie di società e chiedendo ai riminesi di contribuire economicamente per poter distaccare l’affresco e restaurare quelli venuti alla luce. Questo è il momento in cui le vicende del patrimonio artistico riminese sono sentite di più, ma fino a pochi anni prima era stato un guaio. Tutte le raccolte private erano state vendute dalle famiglie nobili, che si stavano estinguendo». Il caso più eclatante fu quello di Audiface Diotallevi. Tosi raggranellò «molti soldi» ma, ha sottolineato Pasini, la somma più consistente la versò un «riminese che abitava in provincia di Novara e che si chiamava Tosi, ma non era parente dell’ispettore onorario: 20mila lire». Un gruzzolo che nel 1925 costituiva un tesoro.

La sala della Cineteca piena per ascoltare il prof. Pier Giorgio Pasini.

Un racconto dei fatti artistici che Pasini ha compiuto anche ricordando alcuni dei protagonisti ai quali sono legate scelte importanti: Francesco Malaguzzi Valeri per la nascita della pinacoteca; Aldo Francesco Massèra, filologo e bibliotecario della Gambalunghiana, Carlo Lucchesi, Mario Zuffa. «Il Museo era concepito come cenacolo intellettuale, luogo per la gente migliore», ha detto citando dalle parole di Lucchesi: «La retorica del fascismo è durata per oltre 30 anni dopo la fine della guerra e chi ne ha sofferto di più sono stati i giovani che nel dopoguerra sono diventati i dirigenti della città. Non posso fare una colpa ai governanti della città di Rimini se per tanti anni dopo la guerra non si sono minimamente occupati dell’arte a Rimini perché c’era questa tradizione retorica». Le cose cambiarono con Zuffa ma la città ha mantenuto quel suo rapporto di lontananza con i beni culturali, «i soldi dedicati al Museo sono sempre stati pochissimi».
Altro capitolo toccato è stato quello delle grandi mostre, spesso nate da realtà esterne all’amministrazione comunale: «Ad un certo punto l’attività del Museo si è intersecata con quella della Carim la quale ha avuto un grandissimo merito: procurarsi opere d’arte riminesi sparse per il mondo, acquistarle e depositarle nel Museo; questo non è capitato in nessun altro luogo, le altre Casse di Risparmio si sono fatte il loro museo, la loro pinacoteca». Una pubblica lode alla ex banca del territorio, anche se non a tutta: «Con Giuseppe Gemmani c’è stata questa importantissima idea di permettere alle opere acquistate dalla Carim di entrare a far parte del grande circuito della città, ma prima di lui c’era anche qualcuno che diceva “noi ai comunisti non facciamo nessun favore”». Però Pasini ha visto anche in questa fase piena di positività, un aspetto problematico: «Il Comune non aveva soldi o comunque non li dava al Museo, le attività culturali della Carim erano ricchissime e quindi sembrava che tutto venisse fatto da lei, molte delle mostre più importanti realizzate al Museo sono state fatte dalla Cassa di Risparmio, anche se insieme al Comune e al Museo, ma figuravano quasi sempre come opera, invenzione, di Carim o del Meeting. E lì c’è stata una sovrapposizione un po’ antipatica: sembrava che l’assessore alla cultura fosse il presidente della banca».
Infine un altro accenno di Pasini merita di essere riferito. Parlando delle mostre che venivano realizzate a Rimini ha posto l’accento su quelle, «durate quasi dieci anni», che portarono bellissime sculture in piazza Cavour: «Sculture moderne di interesse straordinario alle quali i riminesi non si sono interessati, anche perché le mostre andrebbero accompagnate da spiegazioni, giustificazioni, cosa che è mancata; si fa ma non si spiega e la gente rimane indifferente. Nel 1974 è stata comperata in una di queste mostre una meravigliosa scultura in bronzo, alta quasi due metri, di Alberto Viani, rappresentante la “Grande Madre”. Dove è finita questa scultura? L’hanno chiusa in un locale del teatro comunale e poi si sono accorti che mancava una pallina (un seno, ndr), so che l’hanno fatta rifare ma non so dove è finita. Dove sarà? Cercatela…».

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