Compianto sulla Fondazione Carim e sul futuro stalinista della cultura riminese

Compianto sulla Fondazione Carim e sul futuro stalinista della cultura riminese

Nulla di Rimini alla grande mostra perugina di Sgarbi che espone i tesori delle Fondazioni bancarie. Un nulla al quale ci dovremo rassegnare? La Fondazione Carim, sempre più impoverita e destinata ad un ruolo marginale in futuro, esce di scena dal punto di vista del forte sostegno alla cultura e alle mostre in particolare. Dopo la felice esperienza delle esposizioni firmate Goldin. Ora tutto sarà nelle mani di Palazzo Garampi. Castel Sismondo compreso.

Non accreditati.
Vittorio Sgarbi, come accade spesso, l’ha pensata buona. Ha messo in mostra ciò che di solito è nascosto, esposto in modo sparso e occasionale. L’evento, di cui hanno parlato mari&monti, è la mostra Da Giotto a Morandi, in atto a Palazzo Bedeschi, Perugia, e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. Il genio di Sgarbi è stato, appunto, quello di mettere in mostra e ‘in rete’ i “Tesori d’arte di Fondazioni e Banche italiane”. Le Fondazioni bancarie, infatti, sono dei veri e propri forzieri delle meraviglie. La mostra non è tutta perugina, perché hanno prestato opere Fondazioni di tutta Italia. La Romagna partecipa con la Cassa di Risparmio di Cesena, con la Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena, l’analoga Fondazione di Forlì, con il Banco Popolare dell’Emilia Romagna. Alla foce di tutto c’è Acri, che non è l’ancestrale città d’Israele sdoganata pure da Indiana Jones, ma l’Associazione fondazioni e Casse di Risparmio Italiane che nel portale “R’accolte” racconta e mappa, soprattutto, “l’arte delle fondazioni” (vedete tutto qui). Tra le 59 Fondazioni allineate e censite c’è pure la Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini che si fa vanto – giustamente – della propria “collezione d’arte” di cui, si legge nella Descrizione, “ha notevolmente incrementato il patrimonio secondo una politica di acquisizioni precisa e coerente, che ha avuto come scopo la valorizzazione della storia culturale cittadina”. La sede espositiva della collezione è, come si sa, il Museo della Città; il referente risulta Alessandro Giovanardi. Tuttavia, nella mega-mostra di Sgarbi i preziosi della Fondazione Carim non ci sono, non sono accreditati.

Quadreria Carim.
Una delle ultime acquisizioni della Fondazione Carim è stato, nel 2015, il Compianto sul Cristo (nella foto) di Benedetto Coda (1495-1533), ad ogni modo la “Collezione d’arte” della Fondazione è visibile a chiunque abbia voglia di surfare nel sito www.fondcarim.it. Tra i pezzi di pregio, alcune tavole del Trecento riminese come l’Apparizione di Cristo risorto a Santa Maria Maddalena e la Resurrezione di Cristo di Pietro da Rimini – su cui è recente, vivaddio, promosso dalla Fondazione e stampato da Skira, un analitico studio di Alessandro Volpe, pubblicato nel 2016 – l’impressionante Cristo crocefisso di Giuliano da Rimini – su cui si è acceso un certo interesse da quando la National Gallery di Londra ha annunciato la mostra, “Giovanni da Rimini: An Early 14th-Century Masterpiece Unveiled”, in atto dal prossimo 14 giugno – e le Storie della passione di Cristo di Giovanni Baronzio. Per noi poveri ignoranti, sono di commovente bellezza anche il San Giuseppe con Bambino di Guido Reni e l’imbronciato San Giovannino di Guido Cagnacci detenuti dalla Fondazione Carim. Il resto di questo fausto tesoro, ammiratelo voi.

Se smettono di fare cultura loro…
La mostra allestita da Sgarbi, va da sé, è uno spunto per un pensiero tremendo. Se a Rimini tolgono la Banca che fine farà l’analoga Fondazione? Già, perché il dato di fatto – confortato dai numeri squadernati dopo – è che a Rimini la cultura civica, privata, benemerita, l’ha sempre fatta la Fondazione Carim. Basti un solo nome. Marco Goldin. Che stava un po’ sulle palle a tutti – in testa mi ci metto io – ma che ha avuto un merito indiscusso: ha portato Rimini, nell’ambito delle proposte espositive, al posto che in Italia le compete. Le mostre pensate dal 2009 – Da Rembrandt a Gauguin a Picasso – al 2012 – Da Vermeer a Kandinsky – hanno visto Rimini costantemente tra le prime 10 – e a volte tra le prime 5 – mete d’Italia predilette per godere l’arte e tirar fuori il portafogli. Poi, certo, si poteva speculare sulla mostra in sé – una specie di patchwork buono come il miele per carovane di pensionati e file di scolaretti – e discuterla. Ma, appunto, almeno c’era qualcosa di cui discutere.

Le casse spolpate, ovvero: il tramonto dell’imprenditoria culturale.
Erano bei tempi. L’“era Goldin”, quella delle grandi – e redditizie – mostre in Castel Sismondo è quella in cui la Fondazione Carim metteva un bel mucchio di soldi in cultura per il territorio. Basta leggere i bilanci degli ultimi dieci anni. L’esercizio 2009 – presidenza Alfredo Aureli – registra un “Importo deliberato” di quasi 5 milioni di euro, spesi per lo più in “Arte, attività e beni culturali” (2.338.124 euro) e in “Educazione, formazione, istruzione” (1.268.536). Da allora comincia una inesorabile diminuzione nella spesa, fino al Bilancio 2015 – l’ultimo cui abbiamo accesso on line – che recepisce delibere per 1 milione e 700mila euro, riducendo in modo drastico la voce “Arte, attività e beni culturali” (312.860 euro). L’investimento in educazione resta importante (772.320 euro), risucchiato pressoché interamente (721.820 euro) dalla “quota consortile” versata a Uni.Rimini. Resta importante pure il contributo versato all’Associazione Rimini Venture per l’“attuazione del piano strategico” (80mila euro) e il progetto “incubatore d’impresa” (altri 80mila euro). Non c’importa, qui, analizzare cause e concause che hanno portato al tramonto dei grandi investimenti. Resta il dato di fatto: il ‘braccio armato’ – finanziario – della cultura riminese libera – ergo: senza la consueta semina dei soldi pubblici del Comune – non c’è più, o quasi.

Il futuro ‘stalinista’ della cultura riminese.
Denunciato il principio – il compito di una fondazione bancaria è foraggiare la cultura del territorio, altrimenti che senso ha? – e ribadito il concetto – le banche non hanno soltanto funzioni finanziarie bensì etiche, perciò estetiche e culturali – resta il dato di fatto: la cultura a Rimini, ora, è soltanto ‘comunale’, statalista, partitica, quasi stalinista. La ‘stalinizzazione’ della cultura riminese – un processo iniziato tempo fa – ora è realtà. Il Comune di Rimini nello stesso tempo:
*programma la stagione teatrale del ‘Novelli’ e degli Atti;
*programma la stagione della Sagra Musicale Malatestiana;
*organizza i ‘frizzi&lazzi’ di:
a) Notte Rosa
b) Capodanno più lungo del mondo
c) Molo Street Parade ed eventi analoghi
*gestisce tutti ma proprio tutti gli spazi culturali della città, dal Museo civico alla Galleria dell’Immagine alla Far;
*organizza ciclicamente le attività espositive in città, dalla Biennale del Disegno in giù;
*ora si è pappato pure – visto che la Fondazione Carim è in mutande – il Castel Sismondo dove, incapace di produrre mostre importanti, usa i soldi statali per costruire un fantomatico Museo Fellini – che, detto per inciso, nel castello rinascimentale ci sta come Amarcord agli Uffizi, è una pernacchia.
Insomma, a Rimini non esiste più una cultura ‘libera’, ma soltanto una cultura di Stato, decisa da burocrati pubblici che pensano cosa sia buono&giusto per i cretini riminesi. Altro che indipendenza e inadempienza agli ordini, Rimini ha un parterre di sudditi. Contenti voi.

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