Ci sono tre gravi errori alle radici degli interventi che interessano il bimillenario ponte: sindacocentrismo, riminicentrismo e la poca preparazione dei tecnici. Ma l'aspetto più preoccupante è il seguente: l'elefante nella cristalleria dei beni culturali di Rimini decide e comanda senza essere esperto né di archeologia, né di storia e né di arte. L'intervento del prof. Giovanni Rimondini.
di Giovanni Rimondini
Ci sono tre gravi errori alle radici degli interventi al ponte: il sindacocentrismo, il riminicentrismo, e la qualità storica infima dei tecnici. Magari alla ‘zenta’ piacerà questa bertesca che orla la parte destra del canale fin quasi al ponte; la democrazia – il meno peggio dei regimi possibili – implode sempre per vizi interni, perché le masse che decidono amano farsi ciarlatanizzare e ubbidiscono all’uomo forte.
Il primo errore: il sindaco Andrea Gnassi non è un esperto di archeologia, né di storia e né di arte, ma gli vengono queste idee relative ad ambiti di competenza culturale non suoi e tutti dobbiamo subirle, perché col sindaco Andrea Gnassi non si discute, si ubbidisce e zitti. Decide lui. Questo rigore e squallore di decisioni personali non è, come qualcuno dice, un segno di un qualche disturbo caratteriale, ma il residuo del metodo togliattiano del cosiddetto “centralismo democratico”. Quando c’erano le sezioni del pci, si leggevano gli ukase del “migliore” e dei suoi successori, tutti i compagni si alzavano per attestare la loro adesione: – Sono d’accordo col compagno segretario… Chi avanzava anche solo dei dubbi era fuori. Il comunismo non è morto. Ma nemmeno il fascismo, perché questi interventi sul corpo storico della città ricordano nello ‘stile’ politico quelli che Benito Mussolini faceva sul corpo storico della Nazione. Ma forse c’è anche un precedente letterario orientale: avete presente le Mille e una notte, il califfo Harun ar Rashid che di notte con il nero Giafar percorreva travestito le vie di Bagdad e pensava, pensava a come impacchettare il ponte romano, riempire di ciaffi felliniani il castello… Nessuno che si inventi un modo veramente democratico di amministrare, rispettoso delle vere competenze, cosciente dei propri limiti sia personali che istituzionali, aperto al dialogo e pronto a modificare le proprie convinzioni ove risultino errate, adulto e non infantile nei modi di rapporto, e anche un tantino depresso per la vergogna di tutti i disastri che le varie amministrazioni hanno inflitto alla città.

Le informazioni storiche che si possono leggere a fianco della passerella
E qui offro alla discussione il secondo errore: il riminicentrismo. E’ mezzo secolo che abito a Rimini e mi ha sempre riempito di stupore la costante prassi politica e culturale di Rimini, dove tutti sono convinti che Rimini sia come San Marino, sovrana, autonoma e indipendente, dove quello che i politici, e i vescovi, decidono vien fatto senza interferenze esterne. Si prenda uno dei cartelloni che costellano la bertesca, dove sembra che la vita e la fama del ponte romano dipendesse dai Riminesi e dalle loro assenti o attente amministrazioni: “Dopo la realizzazione del deviatore Marecchia negli anni ’30 l’area antistante il ponte è stata lasciata a se stessa. Negli anni ’60 l’area versava in condizioni di estremo degrado. La valorizzazione dell’area partì dalla redazione del ‘Piano generale paesistico e di utilizzazione del verde cittadino” che venne affidato all’architetto milanese Vittorino Viganò nel 1973.” Come se il ponte romano fosse proprietà riminese abbandonata ed esistesse solo agli occhi della popolazione e dell’amministrazione comunale di Rimini. L’amministrazione faceva venire un archistar minore, con tessera dei partiti al potere, assolutamente insensibile all’archeologia, alla storia e all’arte di Rimini. In questo caso un esperto di cemento armato. E l’intervento del brutalista Viganò produsse un vero disastro archeologico, storico e naturalistico che distrusse una torre medievale per far posto ad una rampa di scale in cemento, cementò, con una banchina perennemente sott’acqua, un muro di pietre romano, dissestò l’equilibrio statico del ponte col prelievo della ghiaia, e per rimediare cementò le pile del ponte con le “piastre intirantate”, modificò in maniera al momento senza rimedio, il regime delle acque, inventò il fenomeno dell'”acqua alta” e fece risalire sorgenti del fiume sotterraneo che scorre sotto l’alveo del fiume ‘abolito’.
E’ necessaria una commissione di esperti di archeologia, storia, idraulica, geologia, urbanistica che lavori per anni per offrire la soluzione dei problemi creati dall’intervento di Viganò che ancora premono.
Terzo: la qualità storica infima dei tecnici. Gli esecutori dei ‘progetti’ archeologici, storici e artistici dell’amministrazione, o dell’amministratore unico e indiscutibile, ‘lasciano molto a desiderare’. Gli esecutori sono poco preparati. Per dirne una. Nei cartelloni di sopra ce n’è uno che parla di Pandolfaccio che nel 1528 incendiò l’arcata del ponte che poi venne ricostruita nel 1531. Fu Sigismondo – non Sigismondo Pandolfo che era il suo bisnonno -, a ‘demolire’ l’arcata, come poteva incendiarla? E l’arcata venne ricostruita non nel 1531 ma nel 1681 da Agostino Martinelli. Sull’aspetto antico del ponte romano circolano da anni, malgrado le ripetute denunce, immagini sbagliate: dal plastico costoso ma errato del museo che mostra il ponte romano come è oggi, con le arcate che sorgono dall’acqua, alle vedute di Rimini antica che ripetono lo stesso errore, fino ai cartelloni della passerella. Il pur bravo Giuma fa vedere nella sua ricostruzione del ponte un mozzicone di piloni, circa un terzo di quelli reali. Così va il mondo.

Il ponte secondo il disegno di Giuma fra le tavole esposte di fianco alla passerella
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