Sorgeva davanti alle Scuole Toti. Intervento fulmineo, anche per ripulire ogni traccia dell'abbattimento.
C’era una volta un Pino, un bel Pino; e non è una bella fiaba perché non ha un finale lieto, ma solo una cronaca di ciò che sistematicamente sta avvenendo a Rimini. L’albero faceva bella mostra di sé dinnanzi le Scuole Toti e, data la mole, doveva essere coevo a quell’edificio. Donava ombra ai tanti bambini che in quel fazzoletto di terra, unico reduce nel Borgo Mazzini in cui i bambini possono ancora socializzare e svagarsi all’aperto, dopo l’asfalto totale di ogni centimetro quadro di altro spazio rimasto libero, e ne recava pure decoro.
Il Pino, però, aveva l’unico torto di essere stato messo a dimora a Rimini, una città provatamente ingenerosa non solo verso quella specie, ma pure per quelle altre appartenenti allo stesso regno vegetale. E fu così che fu decapitato, previo segno di condanna con una croce rossa simbolo di cancellazione.
Dalle mie scarse reminiscenze agronomiche scolastiche, non pareva malato visto lo stato dei segmenti del tronco, ma data la particolare caratteristica della pianta che ha radici estese ma superficiali, poteva costituire un pericolo. Ma nulla si sa per certo, però si agisce repentinamente, in gran segreto, senza notificare giustificazioni autorizzative come per qualsiasi intervento si faccia a seguito di atti amministrativi. Certo è che è facile giungere a questo epilogo quando non si attua una corretta cura e manutenzione delle piante, o non le si rispettino per ciò che sono o che valgano attuando opere di sostegno.
Vi è molta – tanta – letteratura in proposito anche su internet, sul come manutenere o supportare questi alberi ma, evidentemente, chi dovrebbe per professionalità propria conoscerle, emette queste sentenze estreme di più facile soluzione; tanto gli alberi non urlano, non si lamentano e non hanno nessun protettore e per di più quasi mai una tutela a livello giuridico.
È inutile reclamizzare feste degli alberi o il rimpiazzo con altri, spesso poi abbandonati a sé stessi e quasi rinsecchiti, che impiegheranno anni ed anni per raggiungere dimensioni importanti. È come distruggere un monumento quindi, ma qui da noi sembra divenuto normale pure questo.
Dato il fatto ed i continui precedenti, direi che prevale l’opera da taglialegna piuttosto che da curatori del nostro bene “verde”; anche perché costoro infiggono qua e là cartelli chiodati nel tronco delle piante, non solo dalla incomprensibile utilità, ma che recano pure altrettante scritte indecifrabili e neppure nella nostra lingua madre.

Una bella pulita ha rapidamente fatto sparire ogni traccia dell’abbattimento.
Ma, come detto, si sa; gli alberi non sanno leggere, non si lamentano e non urlano neppure se infissi dai chiodi, figuriamoci poi se vengono distrutti a fil di sega. Chissà poi se gli altri fratelli rimasti, visto l’esempio, ora vivono nell’ansia di fare prima o poi la stessa fine.
E tutto ciò in attesa del completamento dell’«opera del taglialegna» già in avanzatissimo stato, in Piazza Malatesta poiché, da miseri esseri, contrastano il nuovo corso felliniano.
Salvatore de Vita
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