Chiesa, movimenti, carismi e capi: l’attualità della lectio di Ratzinger (1990) al Meeting

Chiesa, movimenti, carismi e capi: l’attualità della lectio di Ratzinger (1990) al Meeting

Da mesi la Chiesa di Francesco ha ingaggiato una severa battaglia nei confronti delle realtà ecclesiali più vive e radicate. Lo scontro più duro avviene nei confronti di Cl, imbrigliata in una polemica interna fra "tifoserie". Il card. Farrell usa la "frusta" nei confronti dell'esperienza nata da don Giussani. Ma l'ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede oltre 30 anni fa da Rimini aveva indicato in maniera molto più chiara e misericordiosa la radicalità del problema: «La Chiesa non è una democrazia». E «dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto».

Per fare posto alla tribù di nipoti americani che a giorni invaderanno casa, ho rimesso un po’ a posto l’appartamento in cui vivo dove ho ritrovato un opuscolo riproposto nei quaderni della rivista Tracce (che a quel tempo, il primo settembre 1990, si chiamava Litterae Communionis) che riporta l’intervento dell’allora cardinale Joseph Ratzinger al Meeting di Rimini sulla Chiesa: “Una Compagnia sempre reformanda”.
Me lo sono andato a rivedere anche sul sito del Meeting e mi ha colpito come quell’intervento di quasi 32 anni fa abbia attinenza e attualità con una polemica di oggi circa la richiesta del Papa ai numerosi movimenti e associazioni cattoliche sorte dopo il Concilio, di un vero rinnovamento nei singoli e negli organismi dirigenti per mantenere vivo il carisma dei fondatori, per la maggior parte nel frattempo deceduti.
Ma in particolare vorrei soffermarmi sulla ormai famosa e sferzante lettera (qui) che il cardinal Kevin Farrell, a capo del Dicastero vaticano dei laici, ha inviato di recente all’attuale presidente della Fraternità di Comunione e liberazione Davide Prosperi. Inutile nasconderlo, si tratta di una lettera piuttosto ruvida e non scevra da un’irritazione del mittente (che ricordo per i più distratti, non può fermarsi al cardinale americano che l’ha firmata – e che ha chiesto di divulgarla tra tutti i membri della Fraternità – ma che appunto, non può non tirare in ballo il capo dei capi della Chiesa), lettera che sostanzialmente sostiene che il carisma del fondatore non si trasmette per successione personale e che serve un processo di riforma complessiva e personale.
È piuttosto chiara e sferzante nel prendere di mira coloro che nel movimento continuano a opporre resistenza al cambiamento e ribadisce la piena fiducia in Davide Prosperi che conferma a capo della Fraternità di Cl non solo per il biennio richiesto per la modifica dello statuto ma per i cinque anni del mandato. Inoltre, pur non citandolo direttamente, sembra dire a don Julián Carrón di farsi davvero da parte dopo i suoi sedici anni di presidenza. Comunque sia l’irritazione della missiva è palese ed evidente e questa strigliata non può essere presa e giustificazione della mancata riflessione che riguarda tutti coloro che alla comunità fanno riferimento, capi e semplici membri.
Ma torniamo a quella “sempre reformanda” che il cardinal Ratzinger descriveva, al solito, con dovizia di particolari e rara intelligenza già dal 1990.
Già allora a Ratzinger, da circa nove anni a capo della Congregazione per la dottrina della fede, venne domandato di rispondere alla domanda se la sua richiesta di “riforma continua” si riferisse alla Chiesa in toto oppure ai movimenti e, se del caso, a quali movimenti. Anche se non c’è dubbio che il movimento a cui si riferiva l’interlocutore era quello degli organizzatori del Meeting, peraltro con don Giussani ancora vivo. Alla precisa domanda di un giornalista, che gli aveva chiesto se avesse voluto suggerire di ripensare in qualche modo al ruolo dei movimenti ecclesiali e in che misura questi ultimi andrebbero “riformati”, quello che poi diventerà Benedetto XVI rispose dicendo di non avere avuto in mente nessuna formazione in particolare e di conoscere con “maggiore cognizione di causa” la situazione della sua Germania. Ma subito dopo aggiunse, appunto volgendo la mente alla Germania ma come per parlare a suocera perché nuora intenda, che “esistono alcune strutture create come realtà giuridica, “perché ci sono i soldi” a cui poi si cerca anche di dare vita”. Ratzinger disse: «Si tratta un po’ di una perversione dei fattori umani, che crea quell’auto-occupazione della Chiesa con sé stessa e che non è più disponibile alla testimonianza». Occuparsi più di affari interni che della missione. Proseguì il cardinale tedesco: «Io penso invece che in sostanza i movimenti sono il contrario di strutture prima create come strutture per poi vivere: nascono dalla vita e poi cercano, anche con difficoltà, una configurazione giuridica. In questo senso io ho una simpatia per i movimenti proprio a causa di questa priorità».
Insomma, non c’è dubbio che questa benevolenza sia patrimonio di Benedetto e, prima di lui, in maniera incontestabile anche di san Giovanni Paolo II, che infatti definì i movimenti come “coessenziali” alla Chiesa nella sua interezza. Penso che possa dirsi lo stesso anche di papa Francesco che tuttavia, pur rifacendosi a questa dottrina, ha convocato già nell’autunno dello scorso anno tutti i responsabili dei movimenti per chiedere loro un cambiamento: non diventare “adoratori delle ceneri” e auto plaudenti della loro “organizzazione”. C’è chi scorge nella severa opera di incanalamento che la Chiesa bergogliana sta conducendo verso il movimento di Cl, e nel diverso affetto dimostrato verso l’arcipelago dei carismi (Francesco non sembra mostrare nei confronti di Cl la stessa simpatia che riversa, ad esempio, sulla Comunità di Sant’Egidio), segni che lo differenziano dai suoi predecessori. C’è chi non vede dissonanze sostanziali. Non è questo il tema, se non ad un livello superficiale, come vedremo.
Non c’è dubbio, invece, che la recente lettera del cardinal Farrell abbia platealmente svelato urbi et orbi che all’interno della Fraternità di Comunione e liberazione sia ancora forte quella che potrebbe chiamarsi “tifoseria” nel sentirsi carroniani, giussaniani o piccininiani… e l’elenco dei neologismi potrebbe allungarsi. Ma attenzione. Il tifo nella cristianità non è un fenomeno recente: basta andarsi a rileggere qualche passo delle lettere di San Paolo, o gli accesi contrasti tra i due più grandi apostoli: san Pietro e san Paolo, appunto. Avevano personalità diversissime fra di loro, litigavano sulle cose da chiedere ai nuovi cristiani a seconda che provenissero dal mondo giudaico o da quello pagano dei “gentili” ma alla fine il “sì di Pietro” a Gesù che gli aveva chiesto per tre volte se lo amasse, e la tenacia di Paolo nell’annunciare Cristo nel mondo intero, sono bastati loro per essere considerati i “fondatori” del cristianesimo. Il primo come “pastore” il secondo come “apostolo delle genti”. Questo li legava l’uno all’altro più delle loro diversità di carattere e di cultura.
Ma torniamo a Ratzinger e all’affresco che tracciò al Meeting su ciò che risulta in ogni tempo essenziale non appena per mantenere integra la rotta dei movimenti, ma di tutta la Chiesa. E in questo senso il suo approccio risulta di un’attualità incredibile e non solo molto più affascinante e convincente rispetto alla reprimenda del card. Farrell, ma soprattutto più profondo dottrinalmente ed esistenzialmente, e più capace di smuovere i cuori.
«La Chiesa non è una democrazia. Da quanto appare, essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l’Illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni sociali e politiche», disse Ratzinger. E dunque nella Chiesa «chi ha propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene?». Nella democrazia politica, aggiunse, «a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo». Ma nella Chiesa è tutta un’altra storia: «Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione “credo” non va mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato».
Nella Chiesa, dunque, la tentazione di comportarsi come il mondo è forte e non da oggi. Il punto di diversità si annida altrove, spiegò con cattolica chiarezza Ratzinger: «La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà».
Nel delineare l’essenza della vera riforma della Chiesa invitò a guardare a Michelangelo e al teologo francescano san Bonaventura. Il primo concepiva la sua attività artistica non come un fare ma come un rimettere in libertà ciò che doveva “venire alla luce”. San Bonaventura spiega “antropologicamente” cosa questo significhi, quando dice: “Lo scultore non fa qualcosa. La sua opera invece è una ablatio: essa consiste nell’eliminare; nel togliere via ciò che è inautentico. Così anche l’uomo affinché risplenda in lui l’immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo essere”».
Ratzinger arrivava così ad indicare la strada: «Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la riforma ecclesiale. Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente. Una simile ablatio è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio, un’assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un “io” non sta più contro un altro “io”, un “sé” contro un altro “sé”. Piuttosto quel donarsi, quell’affidarsi con fiducia, che fa parte dell’amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro».
La prima e fondamentale ablatio, sottolineò l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, «che è necessaria per la Chiesa, è sempre nuovamente l’atto della fede stessa. Quell’atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce “lontano, in terre sconfinate”, come dicono i Salmi».
E concludeva che a partire dalla fede «noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa – specialmente nella sua vita associazionistica intramondana – non può divenire fine a se stessa».
Non solo. «Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore autoespropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: “Il Signore è lo Spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà” (2Cor 3, 17).
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova».
Quello che la Chiesa di Francesco da mesi sta cercando di comunicare a Cl e ai movimenti tutti è la stessa cosa? Di certo Ratzinger l’ha detto meglio. Il custode della dottrina non ha avuto bisogno di far schioccare la frusta. Dal profondo della tradizione, con l’unica misericordia che conta (per tutti e sempre occorre tornare continuamente alla fonte) ha fissato l’essenziale, che viene prima dei decreti, della durata degli incarichi e di ogni altra burocratica regolamentazione.

Joseph Ratzinger, Una compagnia sempre reformanda

COMMENTI

DISQUS: 0