Fa discutere il Birrodromo. Il prof. Rimondini lo chiama, per rimanere in tema, Cervesarium. Ma la sostanza è questa: si continua a 'riminizzare' fregandosene bellamente delle conseguenze sul nostro patrimonio culturale. Nel caso specifico ci troviamo in un sito prospiciente l'Anfiteatro, su un tratto di mura romane di Ariminum con una torre ancora intera e le tracce di una seconda torre, oltre al rientro della Fossa Patara. Ma sembra non interessare nessuno.
UN NUOVO TEMPIO DI DIONISO IL DIO DELLO SBALLO CHE È ANCHE ADE
Nella vasta area prospiciente l’Anfiteatro, un tratto di mura romane di Ariminum con una torre ancora intera e le tracce di una seconda torre, e il rientro della Fossa Patara, cloaca romana, stanno adattando un vecchio capannone per aprire un nuovo tempio al dio Dioniso, divinità dello sballo alcolico, ma non solo, che è anche Ade, detto anche Plutone, l’invisibile dio della ricchezza e dei morti. Rimini la Città dei Balocchi. Chissà se all’Asilo Svizzero leggono ai bambini Pinocchio. Gli archeologi ufficiali non sembra che si siano mobilitati per tutelare tutto questo ben di Dio – del dio Apollo e della Musa della storia Clio e anche di Venus Cloacina – in questa che è un’area archeologica di primaria importanza del nostro Patrimonio culturale. Gli amministratori che hanno concesso la licenza – devono essere stati quelli vecchi, i cessati – considerano i monumenti archeologici classici, medievali e rinascimentali come “ruderi” da distruggere o al massimo da considerare “contenitori” di qualcosa di ‘nuovo’ che sia utile. Rimini “sotto il giogo dell’ignoranza”.
Jamil Sadeghoovad e Chiara Bellini prendete la distanza da questa infernale tradizione politica.
ASILO SVIZZERO
Se poi questi amministratori sono stati educati nell’Asilo Svizzero, che occupa fisicamente l’Anfiteatro romano contro leggi, decreti e ordini di sgombro, sanno fin da bambini che le leggi e i decreti che proteggono il Patrimonio storico e artistico della nostra Nazione – il petrolio dell’Italia – non contano assolutamente niente. Peggio ancora poi se non hanno nemmeno “nell’anticamera del cervello” idea di cosa sia un monumento storico o artistico. O chi sia quel tale Filippo Brunelleschi. In Italia hanno inventato una parola per indicare questi amministratori: sono i soggetti del verbo “riminizzare”.
L’ultimo che ci ha deliziati con la sua cultura felliniana – tettone e culoni, pulisci cessi, professori pataca, zii pazzi e suore nane – ha “riminizzato” il fossato di Castel Sismondo che Filippo Brunelleschi aveva progettato come un fronte bastionato, in anticipo di un secolo o due sulle novità ossidionali europee, simile a piramidi nelle sue scarpe e controscarpe, e come gli argini di un fiume, dicendo pubblicamente “tanto sotto non c’è niente”, era un genietto formato nell’Asilo.
LO SFORTUNATO ANFITEATRO
Chiamato a Rimini da Vittorio Belli, fondatore di Igea Marina, scopritore e salvatore degli affreschi di S.Agostino, e dal dottor Alessandro Tosi, Ispettore onorario, il primo a scavare le tombe protoetrusche di Verucchio, Giuseppe Gerola, primo Soprintendente ai Monumenti di Ravenna, nel 1910 impedì con un decreto che l’Anfiteatro venisse lottizzato da una società per la fabbricazione delle case “operaie” – villini impiegatizi in realtà -. Segnalò l’Anfiteatro, che era di sua competenza e le mura romane al Soprintendente archeologico di Bologna Salvatore Aurigemma. Ma l’archeologo dovette prenderla a male come un’invasione indebita di competenze, perché trent’anni dopo, quando pubblicò Ariminum Guido Achille Mansuelli, allora studente di archeologia a Bologna, non ebbe nemmeno il sentore che le mura a mare di Rimini fossero romane.
A gestire la demolizione di mura e Anfiteatro c’era il benemerito ma poco acculturato Riccardo Ravegnani, che nel 1930 si decise a regalare al suo nemico personale il podestà Palloni, l’area dell’Anfiteatro. Pietro Palloni lo fece trasformare in un giardino di Pini, mentre riprendevano gli scavi iniziati negli anni ’40 dell’800 da Luigi Tonini. Si scoprì che l’impianto idraulico dell’Anfiteatro funzionava ancora.
Sembrava che tutto andasse bene finché nell’immediato dopoguerra fu invaso dalle baracche di legno dei benefattori e santoni elvetici. Tanto, si disse, sono baracche di legno, male non faranno. Poi hanno anche costruito in muratura e sant’Iddio, volete murare senza fare profondi buchi?
LE MURA DI ARIMINUM
Le mura di Ariminum di tre metri circa di spessore che corrono in linea retta a monte del piazzale del nuovo CERVISARIUM sono quanto resta della recinzione geometrica a mare della città romana. Infastidiscono gli archeologi e gli storici che credono che Ariminum non avesse le mura a mare, perché, aveva scritto Guido Achille Mansuelli, a mare la difendeva…il mare. Invece la si poteva invadere con una barchetta, se non fosse stata difesa da un muro. Infastidiscono anche i residenti di via Settimia che le hanno scalpellate per farvi entrare i musi delle macchine. Che gusto eh, scalpellare le mura di duemila e trecento anni circa!
Ma allora, dicono gli archeologi de cuius, il resto delle mura rettilinee dov’è? Quando proprio da lì parte il muro romano disordinato, largo un metro e mezzo, dell’epoca aureliana – solo secondo secolo dopo Cristo – fatto con materiali di recupero che taglia obliquamente e appare in vicolo Mastini, dentro il palazzo già della Banca d’Italia e della ex Cassa di Risparmio di Rimini, nel giardino Ferrari, nella Taberna Medicina per il volgo la domus del Chirurgo, nel sotterraneo dell’antico Collegio dei Gesuiti, già Ospedale Civile oggi Museo Luigi Tonini, nel suo giardino, per unirsi sotto il palazzo a monte di piazza Simbeni con le mura più antiche di Ariminum.
Qui bisognerebbe che anche i geologi riminesi, senza fidarsi ciecamente del bugiardo storico barocco Clementini, entrassero con il loro sapere e definissero i movimenti verticali, non solo orizzontali, del suolo di Rimini. Il ponte romano esibisce le tracce chiare di una subsidenza, un calo di circa 4 metri dall’altezza antica del ponte e di parte del suolo di Rimini e del Borgo di San Giuliano.
Ma proprio qui bisogna parlare ancora una volta del falso del secondo porto romano di Cesare Clementini, che continua a disturbare i nostri storici più attempati e anche qualche giovane, tutti miei amici e alcuni persino miei nemici scoperti, persino il grandissimo ricercatore Oreste Delucca nel suo ultimo libro Rimini e il mare come cercherò di dimostrare in un prossimo intervento.
DUE TORRI ROMANE
Delle due torri romane che c’erano, probabilmente a chiusura di due cardines, ne è rimasta una, invasa dalle erbe e dagli arbusti e ogni tanto pulita, adesso all’esterno non ha erbe, ma non ancora oggetto di scavi archeologici. Non tutti i paramenti di mattoni esterni sono romani. Si tratta di strutture murarie a sacco che spesso hanno perduto il rivestimento in mattoni romani manubriati o sesquipedali originario e sono stati riparati con mattoni piccoli medievali e moderni. La struttura delle torri romane è a U, cioè mentre le torri medievali sono sporgenze delle mura, quelle romane sono strutture di tre muri che si appoggiano al muro continuo, ma hanno un grande arco in questo muro che permetteva l’accesso alla torre. Poi ancora in epoca antica questo arco era stato chiuso e alla torre doveva essere rimasto l’accesso dalla sommità delle mura. Due torri simili si notano ai lati dell’Arco di Augusto segnalati dai grandi archi di mattoni manubriati murati in antico.
Anzi a destra dell’Arco di Augusto, all’esterno possiamo vedere anche la consistenza di palinsesto di questo primo muro antico, perché sotto i mattoni romani dell’epoca di Augusto ci sono le mura del terzo secolo avanti Cristo. Sono grossi blocchi di arenaria con strati di sassi, provenienti dal Covignano – se ne vedevano tratti sotto la ex chiesina del Crocifisso all’inizo della salita del Covignano, spazzati via nell’ultima sistemazione -. La loro forma ‘disordinata’ ma ben connessa si definisce opus incertum opera incerta. Scavando sotto il muro di cui stiamo parlando, dall’Anfiteatro-Asilo e la Fossa Patera-Cervesarium, io credo se ne possano trovare dei tratti.
L’USCITA DELLA FOSSA PATARA
La Fossa Patara ha un nome medievale, perché lungo le sue sponde si erano accasati i Patari, eretici dei secoli XII e XIII, specializzati nella produzione di panni, che sfruttavano la corrente per le loro gualchiere – scomparvero al tempo della venuta di S.Antonio da Lisbona -. Ma si tratta di un corso d’arte artificiale costruito dai Romani, come si è imparato scavando il bel ponte romano augusteo in grandi blocchi di pietra d’Istria squadrati là dove la Fossa Patara attraversa il Corso, dove una volta c’era la Liberia Ugolini, l’unica al tempo di Rimini, e il Corso comincia a salire verso l’Arco di Augusto.
Due grandi cloache scaricavano le acque pluviali e di scarico al tempo dei Romani e anche dopo. Oltre alla Fossa Patara c’era un Rivolo della Fontana in via Gambalunga. Fate caso a dove si dirigono le acque pluviali quando piove a “bomba d’acqua”, l’antico sistema di scarico diventa visibile.
VENUS CLOACINA
Il CERVESARIUM sfrutta anche lo spazio del ricetto della Fossa Patara per farne uno spazio estivo praticabile. Si vede che è pronta una struttura per accogliere una cementata – niente da fare, a Rimini il cemento va ancora alla grande, non c’è modo che venga sostituito da strutture meno invadenti e più intelligenti e da sostanze più sane -. Meno male che non hanno messo le fontanelle gnassiane con acqua riciclata come tante se ne vedono dopo il temporale amministrativo.
E poi non si può ignorare che la situazione del sito “sbocco della Fossa Patara” è migliorata. Prima c’erano delle basse baracche addossate.
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