Circa cinquecento persone hanno seguito la lectio di suor Gloria Riva sugli affreschi del Trecento riminese

Circa cinquecento persone hanno seguito la lectio di suor Gloria Riva sugli affreschi del Trecento riminese

Lo splendore della chiesa di Sant'Agostino raccontato con chiarezza e competenza. In apertura dell'incontro anche un riferimento alla Romagna che sta vivendo una delle sue prove più difficili, prendendo spunto da un quadro di Klimt. E Marco Ferrini ha avuto parole di riconoscenza e affetto per Don Lazzaro Raschi. Infine, un documento pressoché sconosciuto: la lettera di Alfredo Panzini, che rimase incantato davanti al "miracolo" venuto alla luce col terremoto del 1916.

Una bella sorpresa in mezzo al vicino disastro di fango, la serata nella chiesa di San Giovanni apostolo e evangelista, meglio conosciuta come sant’Agostino: con suor Maria Gloria Riva che ha offerto “sguardi sul Trecento riminese” a un uditorio di circa 500 persone. Non voglio dire che chi non c’era ha avuto torto ma certamente ha perso un’occasione unica di conoscere meglio la storia e la cultura della nostra città e di questa meravigliosa chiesa.
Ho citato il fango perché la stessa monaca, nella premessa del suo intervento, ha voluto ricordare l’alluvione. Lo ha fatto citando un quadro di Gustave Klimt “Boote in Überflutung” (barche nell’alluvione), «un autore – ha detto suor Gloria – che non mi è particolarmente caro ma che in questo caso mi commuove perché la sua sintetica interpretazione è una realtà. Lo sfondo è di un beige chiaro mentre tutto il resto è blu: sotto alberi e oggetti rovesciati che soccombono alla forza devastatrice della natura, sopra alcuni uomini remano su una canoa con le braccia tese ad abbracciare chi ha bisogno di essere salvato. Anche noi desideriamo essere queste braccia tese, non soltanto nella preghiera ma inviando pale, aspiratori d’acqua, stivali di gomma e altri strumenti per respingere l’acqua».
Forse perché monaca agostiniana, suor Gloria ha ringraziato per essere stata chiamata alla “lettura” degli affreschi della scuola giottesca riminese, tornati alla luce e scoperti dopo il terremoto del 1916. Questi erano rimasti nascosti sotto l’intonaco dell’attuale impianto dal sapore barocco dell’edificio sacro. L’inizio della sua ristrutturazione risale agli anni della Controriforma ma si concluse tra il 1720 e il 1722 su disegno di Ferdinando Bibiena. Sono di questa stessa epoca i grandi dipinti del soffitto e gli affreschi delle lunette delle pareti absidali, opere di Vittorio Maria Bigari. «Ma la storia di questa chiesa si intreccia con quella del nascente ordine Agostiniano. Infatti se già alla morte di Sant’Agostino nel 430 un folto gruppo di consacrati e consacrate seguiva la sua regola, solo otto secoli dopo nascerà un vero e proprio Ordine Agostiniano. A fianco della chiesa, c’era il convento; la presenza agostiniana a Rimini è certificata anche dal 35mo capitolo dell’Ordine, nel 1278. Anzi proprio questo evento è all’origine del ciclo di affreschi trecenteschi della scuola riminese», ha fatto notare suor Gloria, citando peraltro anche gli articoli scritti in merito per Rimini 2.0 dall’ottimo studioso di archeologia, storia, storia dell’architettura e dell’arte, Giovanni Rimondini.
Fu Malatesta da Verucchio (il Mastin Vecchio) nel 1311 che, l’anno prima di morire, volle decisamente che il Capitolo generale degli Agostiniani fosse a Rimini e per questo dispose un lascito testamentario affinché gli eredi provvedessero alle spese di accoglienza. In vista del Capitolo fissato per il 1318, già nel 1315 iniziarono le operazioni di abbellimento della chiesa e nella fattispecie, come ha spiegato suor Gloria, furono commissionati alla scuola riminese gli affreschi.
A questo punto, con cognizione di causa la “monaca artista” martedì sera ha avvinto i presenti con la lettura non solo artistica di questi affreschi, partendo dall’imponente Crocefisso di scuola giottesca. Era il tempo, verso la metà del 1200, in cui i papi non di rado avevano a che fare con un clero secolare corrotto e piuttosto leggero nei costumi. Il sorgere di comunità religiose veniva promosso e sollecitato dai Papi; meglio, i Papi si trovano a dover codificare ed accettare comunità religiose nate dalla grande fede e genialità umana dei fondatori.
Per tornare al tema, la lezione di suor Gloria è iniziata proprio dal Crocefisso, che ha un corpo longilineo che «lascia supporre la mano di uno dei tre più famosi pittori della scuola riminese del trecento: Giovanni, Giuliano e Zangolo. Proprio quest’ultimo sarebbe, secondo la tesi di Daniele Benati, il probabile autore del Crocefisso e degli affreschi della Cappella maggiore». Sta di fatto, prosegue suor Gloria, che «nel volto si intravvedono inconfondibili tratti di influenza giottesca, con occhi semichiusi e labbra leggermente dischiuse nelle quali si intuisce un accenno di sorriso, simboleggiando così la doppia caratteristica del Cristo sofferente e del Cristo glorioso. Giotto segna il discrimine tra i crocifissi più antichi “Triunphans”, regali, con occhi spalancati e i piedi inchiodati singolarmente sulla croce. Giotto si attiene invece più al “vero” e con sapore francescano porta alla contemplazione e alla pietà. Anche il perizoma trasparente che copre la nudità di Gesù (il primo a dipingerlo è stato proprio Giotto) ha ormai perduto la cintura con il nodo di Salomone dei dipinti più antichi. Il fedele del ‘300 sollevando lo sguardo incontrava quindi quell’iconostasi che rappresenta il giudizio universale (che Benati attribuisce a Giovanni da Rimini) che separava nella chiesa l’area dei fedeli da quella occupata dai religiosi. Un affresco che nel timpano vede un tripudio di angeli che ricorda la resurrezione. Crocifisso e resurrezione rappresentano un’unità iconografica capace di educare alla fede».
Tutta la parete centrale dell’abside rappresenta la sintesi delle verità essenziali della fede: in alto il Cristo pantocratore tra i due Giovanni: Battista e Evangelista che, a vederlo dal basso non si direbbe, ma misura dodici metri. Dei due Giovanni, l’Evangelista si riconosce dal Battista perché tiene in mano un cartiglio con la scritta del Prologo del suo Vangelo. Nel centro la Madonna sul trono come una regina (l’immagine forse più conosciuta della chiesa, che anche il nuovo vescovo di Rimini Nicolò Anselmi, ha scelto nel ricordino del suo inizio pastorale nella diocesi). Una Madonna vestita di blu scuro con uno sguardo dolcemente e teneramente materno verso il Figlioletto. Gesù è in braccio a lei, o meglio, è in piedi sulle sue ginocchia con un abito rosso, il colore del sangue che avrebbe versato per noi sulla croce. La sua piccola mano s’infila nell’abito della madre, quasi per cercare protezione o come avesse fame. Sotto, un po’ nascosto dall’altare maggiore coi suoi alti candelabri, c’è la rappresentazione dell’incontro di Maria Maddalena col Cristo risorto. Quel “Noli me tangere”, (“non mi toccare”) che sembra una scortesia verso colei che per prima s’era mossa, ancora al buio e sfidando le guardie di Erode, per andare a cercarlo. Quella che a noi sembra, come dire, una sorta di sgarbo è spiegato da sant’Agostino che dice, commentando proprio questo episodio, che non «si può andare a Cristo camminando ma credendo. Dunque non toccarmi con le mani ma con l’adesione del cuore». Le mani di Maddalena non sono tese verso il Signore ma unite verso il basso, quasi fossero ammanettate. Certo in questo modo è impossibile toccare, né tantomeno abbracciare il Maestro. La tunica di Cristo invece è rossa con un manto bianco trasparente che indica la sua vittoria sul dolore e sulla morte. Insomma, si tratta di una vera e propria predica che ai fedeli veniva fatta non a voce ma con il dipinto.
Suor Gloria ha poi continuato a “leggere” i dipinti dei lati e i loro particolari con l’ausilio di un proiettore su un grande schermo, utilizzando le fotografie di Gilberto Urbinati, che ha ringraziato di cuore insieme agli autori del libro “Il Trecento riscoperto”, pubblicato da Silvana Editoriale nel 2019. Oltre alle foto di Urbinati, il prezioso volume a cura di Daniele Benati contiene saggi dello stesso Benati e di Alessandro Giovanardi, e l’introduzione di Antonio Paolucci; purtroppo il libro è esaurito da tempo. Gilberto Urbinati ha utilizzato per realizzare questi scatti una particolare attrezzatura che permetteva di avvicinare la fotocamera a meno di un metro dal soggetto. Con ciò si nota e studia meglio l’opera che normalmente può essere vista solo da diversi metri di distanza. Mi piacerebbe qui continuare estesamente a riportare l’intervento e i commenti di suor Gloria ma in verità mi limito a consigliare vivamente una visita nella chiesa, per persone di fede e anche no e tuttavia amanti del bello. Sono certo che lo stupore della vostra curiosità si potrà presto trasformare anche in preghiera.
Da ultimo voglio solo riportare l’intervento di presentazione di Marco Ferrini che per gli organizzatori (Centro internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa, la parrocchia Sant’Agostino col suo parroco don Vittorio Metalli e il cinema teatro Tiberio) ha ringraziato in primis suor Maria Gloria Riva, tutti coloro che in qualche modo hanno reso tecnicamente possibile la serata e tutti i partecipanti. Ma ha anche rilanciato una proposta che purtroppo non ha avuto la risposta che meritava. A suo tempo, i lettori di Rimini 2.0 lo sanno, si propose di ricordare degnamente don Lazzaro Raschi, già parroco di Sant’Agostino dal 1985 fino al 2003 e scomparso il 12 marzo dello scorso anno. Ferrini lanciò l’idea agli amministratori di premiare col Sigismondo d’oro questo sacerdote. Ma non se ne fece nulla. Don Lazzaro “ereditò” questo edificio nel 1985, chiesa già gravemente compromessa da un grave incendio, accaduto nel giugno 1965. Ha detto Marco Ferrini: «Tenacia e passione animarono questo prete, uomo umile e mite che incominciò il lavoro che ha salvato questo patrimonio culturale e religioso cittadino dal degrado. L’opera di questo uomo è avvenuta nel nascondimento totale e senza alcun riscontro e clamore mediatico. Noi comunque lo ricordiamo con grande riconoscenza ed affetto».

Anche il letterato Alfredo Panzini s'incantò davanti agli affreschi di Sant'Agostino: Tra le cose più belle che l'Italia possegga
Era il luglio 1918 quando Alfredo Panzini arrivò a Rimini (città in cui abitò con la famiglia da bambino) da Bellaria, dove in estate abitava nella Casa Rossa sulla ferrovia. «S’incantò davanti agli affreschi giotteschi del ‘300, ne scrisse subito a Corrado Ricci, direttore delle Belle Arti». Così narrava l’episodio Pietro Pancrazi sul Corriere della Sera nel novembre del 1950, pubblicando anche la lettera che Panzini inviò a Ricci: «Preg.mo Sig. Comm. Ricci, oggi il caso mi ha condotto a visitare quegli affreschi del secolo XIII che il terremoto permise di scoprire nella chiesa settecentesca di Sant’Agostino. Ne ho subito un’impressione di stupore e religione. Io non sono intendente, ma mi dissero ch’Ella pure li trovò tra le cose più belle che l’Italia possegga. Davanti a quel Cristo e a quella Madonna – umanità veramente deificata e terribile – ho pregato per i nostri morti e per i nostri vivi. Io la prego con la sua autorità di provvedere perché simili miracoli rimangano conservati. Mi scusi la libertà che mi prendo, ma l’amore e la dottrina sua mi giustificano presso di Lei». E Pancrazi concludeva: «L’ultima guerra che devastò tanto Rimini, risparmiò però Sant’Agostino e gli affreschi. E quel Cristo e quella Madonna di sì terribile deità possono essere pregati anche da noi, per altri morti e per altri vivi».

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