I saggi di scavo abusivi nell’area dell’Anfiteatro e la sentenza che mise le cose in chiaro

I saggi di scavo abusivi nell’area dell’Anfiteatro e la sentenza che mise le cose in chiaro

Autorizzati dal Comune, che difese l'operato della Società Case Popolari, ma segnalati all'autorità giudiziaria dal Soprintendente Aurigemma, i lavori che prevedevano una più vasta lottizzazione, furono bloccati. Non prima però che venissero praticate grosse buche della profondità di metri 4,50. Accadeva un secolo fa. Ma i vincoli di legge vigevano e vigono ancora, insieme all'assoluto divieto di “costruzioni di sorta”.

Nel nostro precedente articolo riguardante una parte dell’annosa storia dell’Anfiteatro Romano cittadino (qui), abbiamo raccontato vari episodi susseguitisi nel periodo in cui la Società Cooperativa Anonima Case Popolari, diede corso alla lottizzazione di quell’area; ma anche della probabile genesi della leggenda, narrante che al di sotto dell’area attualmente occupata dal CEIS non vi sia nulla.
Abbiamo anche anticipato che in nome della stessa, il suo legale rappresentante Cav. Riccardo Ravegnani subì, per ciò che ci consta, due processi. A tal proposito presso l’Archivio di Stato di Rimini nel fondo “Archivio Comunale”, è conservata copia della sentenza di secondo grado – o d’appello – del 14 settembre 1929, in cui si ricostruisce minuziosamente la complessa vicenda e si chiariscono alcuni aspetti poco noti prima.

I FATTI
Il piano regolatore del quartiere nord-est della Città di Rimini, venne approvato con Regio Decreto del 24 febbraio 1910 nel quale fu prevista “la delimitazione di una zona di rispetto nei terreni del lato est, ove trovasi sepolto da ben 18 secoli l’anfiteatro romano, nel senso che in questa zona non dovessero farsi costruzioni di sorta e che lungo il perimetro, a forma ellittica, in essa zona dovesse costruirsi una strada, pure a tracciamento ellittico, per mettere in comunicazione le aree fabbricabili circostanti”.

La Società incaricata dell’esecuzione del piano urbanistico iniziò la sua attività nella quale, in base ad una convenzione con il Comune, era anche previsto di rimettere in luce il sepolto monumento. In precedenza l’area dell’anfiteatro era di proprietà di alcuni privati e della Congregazione di Carità dai quali il Ravegnani le aveva acquistate.
L’impresa iniziò quindi gli scavi, ma il 28 ottobre 1925 il Soprintendente Salvatore Aurigemma ordinò di sospendere gli stessi “per essergli risultato che i medesimi erano stati fatti in modo incompleto ai fini archeologici e che con essi la società tendeva soltanto a dimostrare la scarsità dei ruderi e a svalutare l’interesse archeologico”. Insomma, un primo sospetto circa la probabile “leggenda” che nel sottosuolo della parte ancora interrata non ci sia il resto dell’Anfiteatro.
In questa fase risalta anche l’atteggiamento dell’Amministrazione comunale di allora: “Per taluni di questi scavi o raggi [saggi] il Cav. Ravegnani si accordò col Sindaco del tempo …, il quale li approvò, li autorizzò, e li fece pure vigilare dall’Ufficio Tecnico del Comune …”; ma non finì qui. Sempre sul sedime del monumento, fece anche costruire uno stradello in rilevato di terra battuta che collegava linearmente le vie Vezia e Sabinia apponendovi due cancelli ai lati, opere che fu costretto a rimuovere solo nel 1928 a seguito di ben due decreti del Ministero della Pubblica Istruzione. Fu per questo comunque denunciato dal Soprintendente, e ne seguì il primo processo.

Interrogato il Ravegnani si difese e, accampando anche altre motivazioni, affermò che, a proposito degli scavi, aveva agito “al solo e unico intento di poter determinare la curva perimetrale esterna dell’Anfiteatro” oltre la zona di rispetto e la relativa strada. Assicurava inoltre di essere stato corretto nel suo operato, “sotto la direzione di persona tecnica” (?) e controllo della Soprintendenza, e che durante tale operazione non aveva né trovato nulla di interesse archeologico, né di conseguenza arrecato danno alcuno. Quanto allo stradello era stata una necessaria conseguenza al divieto del Soprintendente di eseguire il raccordo stradale previsto dal piano regolatore.
Al contrario il professor Aurigemma confermò quanto in precedenza, che cioè “i saggi non furono fatti sotto il controllo diretto della Sovrintendenza, ma anzi contro il suo divieto e all’unico scopo di dimostrare che i ruderi erano scarsi…” quindi in violazione della legge.
Anche l’Ispettore Onorario Dott. Alessandro Tosi riferì “che la Società aveva eseguito gli assaggi nel solo suo esclusivo interesse”, ed il teste Vittorio Rolli asserì che “…il Ravegnani … eseguì saggi e costruì lo stradello senza autorizzazione”. Non bastando, anche il custode Antonio Collina confermò di “avere diffidato il Cav. Ravegnani a non fare altri saggi”.
A questo punto il quadro della violazione delle leggi era completo.

Di diverso avviso era invece l’Amministrazione Comunale, o chi per essa intervenuti. Il Sindaco confermò di avere autorizzato i primi due scavi, il Segretario Comunale approvò “in linea politica” l’opera del Ravegnani definendola “benefica e utile”; forse per il fatto che il Ravegnani asserì pure di avere operato quanto in oggetto per dare lavoro agli operai. Il geometra Ruffi dichiarò che gli scavi furono autorizzati, l’avvocato Palloni affermò che il famigerato stradello aveva carattere provvisorio, circostanza anche confermata dal Cavalier Francesco Piazza.
Nonostante ciò il Ravegnani fu portato in giudizio e nella sentenza del 13 giugno 1928 fu assolto per quanto ascrittogli “perché il fatto non costituisce reato”. Tralasceremo però la lunga e complessa motivazione.
Ma non era finita. Il Pubblico Ministero presentò rituale appello che fu accolto. Tra i motivi si considerò che il Ravegnani, in fase di acquisto dei terreni facenti parte dell’area archeologica, conosceva già i vincoli a cui essi erano sottoposti poiché ancor prima già notificati agli antecedenti proprietari venditori. Poi i successivi punti del ricorso provavano, fatti concreti e alla mano, che la Società Case Popolari e segnatamente il suo presidente, erano perfettamente al corrente che l’area acquistata fosse di natura, carattere e tutela archeologica, e che su di essa era fatto assoluto divieto di “costruzioni di sorta”. Poi si citava una lettera del 28 ottobre 1925, con la quale la Soprintendenza comunicava al presidente della Società Case Popolari l’esistenza “dell’area di uno dei più nobili edifici dell’Ariminun Romana” e “di importante interesse per lo Stato”.
Emerge anche un altro aspetto importante che in seguito porterà a considerazioni, ma proseguiamo. “Bensì dovrà il Cav. Ravegnani essere tenuto responsabile del reato … di cui in atti si ha larga documentazione… . Il Cav. Ravegnani continuò a scavare e compì delle grosse buche della profondità di metri 4,50 dalla dimensione di metri 3,50 per 4,75, e a detta del Genio Civile, della lunghezza di circa metri 10”. Queste buche non si localizzano, ma essendo state non indicate e nemmeno dirette dalla Soprintendenza nella loro individuazione, unico Ente riconosciuto e titolato per indicare questi sondaggi, si può ragionevolmente supporre che essi senza alcuna conoscenza fossero stati eseguiti o nella cavea, o in area inerte.
Il Ravegnani fu ripetutamente diffidato dal proseguire quegli scavi, ma continuò nel suo intento lacerando i rapporti con le Autorità peraltro già compromessi, con l’aggravante – si legge – che “… assunse apertamente un contegno di disubbidienza e anzi di ribellione”.
Tutte queste motivazioni, ed altre che ometteremo per brevità (la sentenza consta di ben 21 pagine), furono accolte e il Ravegnani fu condannato in base a vari articoli del Codice Penale e di Procedura Penale, oltreché in base alla legge 20 giugno 1909 n. 364. E questo è tutto ciò che emerge dai documenti in nostro possesso, non sapendo allo stato delle ricerche se vi fu in seguito un ricorso in Cassazione da parte del condannato.

ALCUNE CONSIDERAZIONI
Come abbiamo visto, in maniera più o meno simile, ma di contenuto univoco, sono le affermazioni che gli scavi abusivi furono eseguiti arbitrariamente con il fine principale di dimostrare che nel sottosuolo i resti dell’Anfiteatro non esistevano: “fatti in modo incompleto ai fini archeologici e che con essi la società tendeva soltanto a dimostrare la scarsità dei ruderi e a svalutare l’interesse archeologico”, oppure “i saggi non furono fatti sotto il controllo diretto della Sovrintendenza, ma anzi contro il suo divieto e all’unico scopo di dimostrare che i ruderi erano scarsi, …”. Ma si ribadisce anche che ciò che fu materialmente compiuto, avvenne in zona in cui era fatto assoluto divieto di “costruzioni di sorta”. Questi presupposti potrebbero essere stati l’origine della leggenda che nel sottosuolo dell’attuale area occupata dal CEIS non vi sia alcuna struttura “di uno dei più nobili edifici dell’Ariminun Romana” e “di importante interesse per lo Stato”; sparito quindi, anzi volatilizzatosi.
Il Ravegnani fu condannato in base a precise leggi dello Stato, tuttora in vigore, per avere “semplicemente” fatto scavare buche anche fino a profondità di m. 4,50 – chissà dove -, e realizzare uno stradello in rilevato sopra il piano di campagna di allora, non arrecando danno alcuno alle strutture murarie del monumento; perché oltre alla sua affermazione, non esiste traccia o asserzione di sorta del contrario.

Arriviamo infine al 1946 quando nell’area non scavata dell’Anfiteatro avviene un fatto importante. Nel fondo documentale Genio Civile conservato presso l’Archivio di Stato di Rimini, relativo alle opere dipendenti da danni di guerra, nella cartella dal titolo “Progetto di sistemazione di un asilo con baracche donate dal soccorso Svizzero in Rimini” ovvero perizia del 29 gennaio 1946, sono documentati i lavori eseguiti.
Dal Libretto delle misure e Registro di contabilità risulta che nel sito furono eseguiti vari scavi per il piazzamento delle baracche, di profondità variabile tra i metri 0,30 e 1,00 circa a seconda del caso, successivamente colmati con conglomerato cementizio; in alcune limitate circostanze, per l’alloggiamento delle fosse biologiche, gli sterri giunsero fino a metri 1,70 circa. Oltre a qualche opera in muratura all’interno delle baracche.
Pur essendo la stessa area soggetta a ben due vincoli di tutela archeologica dello Stato, nel 1929 il presidente della Società Case Popolari venne condannato per fatti, se vogliamo, più lievi sebbene riconosciuti contrari alla legge. Diversamente avvenne nel 1946 ed in seguito fino ad oggi, e i due episodi, seppure diversi tra loro per fine e scopo, hanno comunque un comune denominatore: che su quell’area vigeva e vige ancora assoluto divieto di “costruzioni di sorta”. Che dire? Il resto per ciò che avvenne in seguito è storia recente.

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