Una marea di gente ha partecipato ai funerali stamattina alla parrocchia della Riconciliazione. L'omelia del vescovo ha messo in luce i tratti salienti del sacerdote. Grande commozione quando tutti hanno intonato "Signore delle cime".
Poche persone come lui hanno saputo incarnare nella propria vita la fede semplice, saldissima e nello stesso tempo lieve e serena, che aveva ricevuto fin da bambino in famiglia dai genitori, in particolare dall’adorata mamma Anna che naturalmente, appena diventato sacerdote, lo seguiva felice e con una certa trepidazione. Lui stesso raccontava che qualche volta gli mostrava affetto ma in dialetto, poco prima della messa e a proposito dell’omelia, gli diceva: ‘Nu fala tanta longa però’. Don Giuseppe è stata una persona amabile e cordiale che da giovane ha incontrato don Luigi Giussani e il movimento di Comunione e Liberazione a cui poi è stato legato per tutta la vita. Una fede testimoniata nella grande umanità e poi come prete fino all’ultimo respiro, alle 23,18 di mercoledì 13 aprile. La malattia è comparsa solo pochi giorni dopo il suo incarico, l’8 dicembre 2014, come parroco della chiesa Gesù Nostra Riconciliazione. Don Giuseppe Maioli, commentando per gli amici del movimento una stazione della Via Crucis, ha descritto se stesso meglio di chiunque altro: “Su questa croce questo cuore è salvato, l’uomo ritrova se stesso. ‘Tutto è compiuto’. E’ compiuto il disegno del Padre, la misericordia infinita che compie, realizza il cuore dell’uomo. ‘Padre nelle tue mani affido il mio spirito’, in questa potente parola accade il ritrovamento dell’io, rinasce l’io nuovo, ‘io sono Tu che mi fai’ è ritrovato”.
Una marea di amici, circa 1500, ha partecipato al funerale svoltosi questa mattina nella chiesa dov’era stato inviato come parroco e dove purtroppo c’è rimasto così poco. Presiedevano le esequie il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi e il vescovo di Urbino monsignor Giovanni Tani che è stato compagno di seminario di don Giuseppe Maioli. Poi decine e decine di sacerdoti, i più commossi e insieme fiduciosi nel buon destino cui il caro amico è andato incontro: c’erano don Claudio Parma, don Stefano Vendemini, don Mario Vannini, don Roberto Battaglia, don Giuliano Renzi, don Giorgio Pesaresi, don Enrico De Luigi, don Giorgio Zannoni, don Domenico Valgimigli, don Paolo Lelli, don Carlo Rusconi, don Marino Paesani e tanti altri. Nelle prime panche i fratelli e le sorelle con le loro famiglie. Non è stata una mesta cerimonia funebre ma una liturgia di festa. Così come aveva chiesto lui stesso, le campane hanno suonato a festa, come la domenica di Pasqua e il canto, eseguito da tutti i presenti e intonato dal coro di Cl diretto da Anastasia Gemmani, ha segnato tutti i momenti della messa.
Il vescovo Francesco Lambiasi ha detto che avrebbe voluto che l’omelia fosse più quella di don Giuseppe che la sua. “Sia che viviamo, sia che moriamo siamo tuoi: la buona novella del Vangelo – ha detto Lambiasi – non è una condanna che riceviamo ma una verità”. E si è chiesto perché il Signore non abbia ascoltato la preghiera della guarigione di don Giuseppe, affidandola all’intercessione di don Giussani e di don Oreste Benzi. Don Giuseppe che sapeva di queste preghiere era contento ma diceva: ‘Non chiediamo al Signore di fare la nostra volontà ma chiediamogli la grazia di essere umili e risoluti nel fare la Sua volontà, qualunque essa sia’. Ma non pensate che questo atteggiamento di fede, del ‘fare la volontà di Dio’, sia solo nell’ultima parte della sua vita”. Lambiasi per questo ha poi citato un brano della lettera di don Giuseppe Maioli all’allora suo vescovo Mariano De Nicolò che nel 1995 gli aveva chiesto di insediarsi come parroco a Sant’Ermete. “Confermo – scriveva – la mia disponibilità, una conferma che faccio volentieri perché ho sempre apprezzato che l’obbedienza al vescovo sia condizione necessaria al cammino verso la santità. Nello stesso tempo non posso negare una certa sofferenza nel lasciare la comunità di San Martino in cui s’è venuto a creare un ambiente cordiale. Prego il Signore che questo possa continuare indipendentemente da me”. Tutto questo don Giuseppe l’ha detto anche con il canto da lui stesso scritto e musicato ‘Se il Signore non costruisce la città’. Canzone che ha composto di getto ai tempi del seminario (verso la fine degli anni ’60). Io stesso – ha proseguito il vescovo – sono testimone di questa sua intenzione di fare la volontà di Dio quando gli dissi la prima volta: “Don Giuseppe, ho bisogno di te perché c’è una comunità che ha bisogno di te: quella della Riconciliazione”, e lui mi rispose: “Sono pronto ad andare anche per stare vicino a Don Domenico, ma mi ci mandi come cappellano e non come parroco”. Quando sono andato a trovarlo negli ultimi giorni mi diceva: “Io non ho potuto fare granché alla Riconciliazione perché mi sono insediato l’8 dicembre e il 6 gennaio il tumore era già iniziato. Eppure qualche giorno fa è stato dimesso il mio vicino di stanza, si chiama Bruno, il quale uscendo mi ha detto: ‘Era proprio destino che ti incontrassi qua, perché il Signore, attraverso di te, mi ha cambiato la vita”. E don Giuseppe commentava: “Ho capito perché è accaduto, anche se io non ho fatto quasi niente: se anche fosse stato per uno solo che ha potuto incontrato il Signore, ne valeva la pena”. Domenica scorsa, ha proseguito il Vescovo, ho celebrato la messa con lui e pochi istanti prima dell’inizio sono rimasto solo con lui e gli ho detto: ‘Lo sai don Giuseppe che questa è l’ultima messa…; come la celebriamo? E lui con un lampo negli occhi mi ha risposto: Come la prima”.
Quel ‘centuplo’ qui su questa terra, promesso da Gesù nel Vangelo a chi lo segue, don Giuseppe l’aveva sperimentato: era innamorato della vita e della bellezza, degli amici, adorava la montagna, la musica, l’arte; sapeva affascinare, nelle notti stellate e non inquinate da fonti artificiali di luce, chiamando per nome una ad una le costellazioni con le loro stelle; insegnava e spiegava i canti di montagna con passione contagiosa e chissà che gran sorriso ha fatto, quando al termine delle esequie, mentre alcuni confratelli sacerdoti, lo portavano con la bara sulle spalle, è stato cantato “Dio del cielo, Signore delle Cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna. Ti preghiamo: su nel Paradiso lascialo andare, per le tue montagne”. Come a tanti suoi amici, l’aveva insegnata anche a me e con lui l’avevo cantata tante volte ma questa volta, la commozione ha preso il sopravvento e non sono riuscita a concluderla.
Serafino Drudi
Giuseppe Maioli è nato il 19 febbraio 1947, è stato ordinato sacerdote il 19 marzo 1971, per i primi anni fu coadiutore a San Lorenzino poi a San Martino Montelabbate, quindi dal 1996 al 2014 parroco a Sant’Ermete, dal dicembre 2014 all’aprile 2016 parroco a Rimini nella chiesa di Gesù Nostra Riconciliazione. La sua vita è stata segnata dall’incontro col movimento di Comunione e Liberazione che ha incontrato conoscendo il suo fondatore, don Luigi Giussani e a Rimini don Giancarlo Ugolini. In chiesa è stato citato il cordiale saluto di monsignor Luigi Negri arcivescovo di Ferrara e Comacchio e Manlio Gessaroli ha portato il saluto della comunità di Rimini, mentre una telefonata è arrivata l’altro giorno da don Julian Carron, successore di don Giussani alla guida della Fraternità di Comunione e Liberazione, che ha detto: “La questione decisiva della nostra vita è immedesimarci con lui, per avvicinarci anche noi al traguardo: siamo amici solo per questo”. E lo stesso don Giuseppe ha commentato: “Questa immedesimazione con Cristo è quello di cui abbiamo più bisogno in questo momento storico”. Oggi il quotidiano Avvenire ha pubblicato una lettera di mons. Lambiasi al direttore per ricordare don Giuseppe Maioli. E L’omelia pronunciata dal vescovo riprende diversi passaggi della lettera. Di seguito alcuni punti salienti: “Da due anni don Giuseppe ha dovuto fare i conti con una grave malattia, un tumore che non lasciava scampo. E lui l’ha vissuto in piena, consapevole attesa: come l’offertorio della Messa, come la consacrazione che sigilla una intera esistenza. Di don Giuseppe quando ho detto prete, ho detto tutto. No, non era un clericale: era proprio un prete-prete. Lo era con tutto se stesso: mite, tenace, trasparente e innamorato, forte e tenerissimo. Aveva capito che per amare le persone, bisogna imparare a perdere. Per questo voleva bene a tutti, senza mai legare nessuno a sé. Ed era contento. Spesso diceva: “Non saprei immaginarmi diverso da quello che sono”. Che miracolo, un prete contento! Domenica scorsa ho concelebrato la Messa con lui. Prima di cominciare siamo rimasti da soli per un minuto. Gli ho chiesto: “Lo sai, vero, che per te questa è l’ultima Messa? Come la vuoi celebrare?”. Mi ha risposto con un lampo negli occhi: “Come la prima”. Dopo il vangelo – era quello della triplice domanda di Gesù a Simone di Giovanni: “Mi ami?” – quando gli ho spalmato le palme delle mani con l’olio degli infermi, mi sono sentito investito da ondate di profumo che venivano dal crisma della sua ordinazione. Alla fine ci ha lasciato il suo testamento: “Ogni volta che ho celebrato la Messa – era arrivato al suo 45.mo di ministero – mi sono sempre fermato sulle parole centrali: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. E calcando l’aggettivo “mio”, mi è sembrato volesse dire: In questo momento – non perché io sia bravo, ma perché il Signore mi ha scelto e amato – io sono tutt’uno con lui. Ho qui tra le mie mani la sua vita che diventa la mia, e la mia che diventa la sua”. L’Eucaristia fa della vita del prete un corpo donato, che continua a perdere sangue…
In molti avevamo chiesto la grazia della sua guarigione, affidandola alla preghiera di don Giussani e del nostro don Benzi, ma lui rispondeva: “Non chiediamo al Signore di fare la nostra volontà. Chiediamogli la grazia di essere umili e disponibili a fare la sua”. Comunque, il miracolo c’è stato, eccome. Il miracolo di non aver vissuto la morte come una disgrazia, uno scacco matto, un brutto incidente di percorso, ma come un incontro, un appuntamento atteso e sorprendente, come l’inizio di una festa senza fine. Un giorno mi ha voluto confidare la sua preghiera. L’aveva imparata da una parrocchiana, tutta paralizzata: “Gesù, io sono tuo”. Ed era felice quando gli chiedevamo di farcela ripetere”.
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