La storia dei musei comunali e le distruzioni dei beni culturali

La storia dei musei comunali e le distruzioni dei beni culturali

Le ipotesi si affacciarono sin dal primo dopoguerra. Prima previsto nell'ex Convento di San Francesco, poi nel complesso dei Teatini, ma sempre con un nulla di fatto. Mario Zuffa denunciò “il sistematico uso della procedura di demolizione per pubblica incolumità di edifici monumentali, e il depauperamento del nostro patrimonio artistico (bene pubblico, si badi!)”. Bisognerà attendere il 1990 perché entrasse in funzione l'attuale Museo Tonini. Ma tanto andò perso.

Durante le mie amatoriali ricerche per cercare di capire il perché oggi Rimini sia diventata ciò che è, mi sono imbattuto in un grande personaggio che dal dopoguerra agli anni ’70 si spese con animo, passione, dedizione e caparbietà per la salvaguardia dei nostri beni culturali: Mario Zuffa (qui). Una sorta di supereroe, limitato però e, a volte, avvilito dalla kryptonite materializzata dalla burocrazia e dal potere politico di quell’epoca, ma anche oggi, il passato non avendo insegnato poi tanto, altre personalità analoghe, di cui la città dovrebbe onorarsi, non hanno miglior destino.
Allora Rimini, distrutta in buona parte dagli eventi bellici, non possedette amministratori sensibili ad una ricostruzione virtuosa come avvenne in altre città italiane che condivisero la stessa sorte; ma ebbe la fortuna di avere un grande personaggio che avrebbe potuto ammendare, consigliare e guidare la città verso scelte diverse circa la ricostruzione se non la salvaguardia di palazzi storici e monumenti superstiti. Direi quindi una figura di altissimo profilo sprecata per un paesone sordo a certi valori, e che nel tempo, salvo in rari casi, ha sempre confermato quella caratteristica.
Fatta questa doverosa premessa, racconteremo ciò che accadde nel dopoguerra a proposito del ripristino del museo cittadino e, per converso, il tentativo di ricostruire la sua antica sede ovvero l’ex Convento di S. Francesco limitrofo al Tempio Malatestiano, ed altre ipotesi in campo. È una storia molto complessa e che si snoda in un lungo arco temporale, ricca di documentazione specifica, ma cercheremo di sintetizzarla; e lo faremo grazie ai documenti custoditi presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini.

LA SITUAZIONE INIZIALE

In una lettera del maggio 1958 indirizzata al Direttore Generale per le Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, Mario Zuffa descrive quello che era, ed era stato, l’Istituto culturale prima della guerra. Esso era diviso in tre sezioni:
1. Pinacoteca Comunale;
2. Museo Medievale;
3. Museo Archeologico.
Il luogo, come è noto, era situato all’interno dell’ex Convento S. Francesco “per vecchio diritto enfiteutico e parti in locali ceduti in affitto al Comune dall’Ente proprietario…”, in sostanza il Capitolo del Duomo. Narrava inoltre che la guerra aveva distrutto l’immobile e parte delle collezioni, e quel che era rimasto – “il grosso” – si trovava fra i ruderi, e nel Palazzo Gambalunga sede della Biblioteca. Ma in quest’ultima si denunciava una certa precarietà e provvisorietà, dati “i lavori murari in corso e le esigenze della Biblioteca (terribili!)”.
I danni provocati dai bombardamenti, e la spesa per la ricostruzione della sede museale, erano stati stimati dall’Ufficio Tecnico comunale in una richiesta del 22 settembre 1953 rivolta al Genio Civile per l’ottenimento dei danni di guerra. Il totale tra le parti irreparabilmente danneggiate e quelle distrutte, ammontava a Lire 100.000.000 pari agli odierni Euro 1.700.000 circa.

LA SITUAZIONE DELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA
Il 1946 vedeva, tra le altre distruzioni, anche quella della sede museale riminese sita in una parte dei fabbricati dell’ex Convento S. Francesco. Mentre ovunque in Italia la parola d’ordine era “ricostruire”, a Rimini la stessa era affiancata da un’altra: “demolire”. Sì, perché in nome della pubblica incolumità, quel che rimaneva in piedi non era soggetto al trattamento di opere provvisionali ma veniva sistematicamente demolito.
Ad una parte di quel fabbricato provvide il Genio Civile, ad opera della Cooperativa Muratori e Cementisti di Rimini. L’operazione iniziata il 21 novembre 1946 fu ultimata il 19 febbraio 1947 con un costo di Lire 1.018.837,57. Nel corso dei lavori la Soprintendenza ricordava, con lettera del 27 novembre 1946, le intese, ovvero “…si limiteranno [le demolizioni] al piano superiore, lasciando però intatto lo scalone di cui restano molte tracce architettoniche per un suo restauro…”, ma raccomandava anche la cura per il famoso affresco dell’Ultima Cena, della parte scampata del refettorio conventuale, soggetto a quel contesto; il piano terra rimase (quasi) ma lo scalone scomparve.

Uno schizzo propedeutico alla stima delle parti soggette a demolizione dell’ex Convento S. Francesco; al centro lo scalone. Fonte Archivio di Stato di Rimini.

Una veduta aerea anteguerra dell’area dell’ex Convento S. Francesco; al centro il vano contenente lo scalone e le parti poi demolite. Si noti di fronte il complesso della Chiesa dei Teatini, distrutta, ma i corpi di fabbrica residui avrebbero dovuto ospitare il museo in altra ipotesi successiva. Fonte Biblioteca Gambalunga.

Intanto in un articolo del Resto del Carlino del 24 dicembre 1957 dedicato al problema dei Musei emiliani, il professor Mansuelli, Sovrintendente alle antichità per l’Emilia Romagna, così relazionava riguardo a quello di Rimini:
“Resta il Museo di Rimini il quale si trova in una situazione veramente disastrosa a causa delle gravi distruzioni inferte dalla guerra, anche se sembra che ora, finalmente, si approssimi una soluzione che permetta di ricostruire la sede adatta perduta per eventi bellici”. Ma non fu così. Vi è da dire che in altra corrispondenza, si affermava essere quello di Rimini “il secondo complesso museale della Romagna”.

Pure la rivista la Regione Emilia Romagna (n. 6 del 1958), conteneva un articolo riguardante i Musei della Regione, tra i quali risultava quello di Rimini considerato di una certa importanza. Si dichiarava, tra le altre osservazioni, che era “uno dei più antichi della Regione” e costituiva il “problema più increscioso della Romagna” data la sua distruzione e la mancata riedificazione. Poi concludeva rilevando che Rimini “è la più antica città romana del nord, una delle più importanti e vitali dell’impero romano…”, e che la soluzione del problema – riedificazione – non era più rimandabile. In sostanza il tema dell’Istituto culturale riminese era divenuto fondamentale non solo per la città, ma per la cultura regionale.

I TENTATIVI DI RICOSTRUZIONE
Erano anni che si parlava della ricostruzione di un Museo cittadino. Continuando a leggere la relazione contenuta nella già citata lettera del maggio 1958, emergono difficoltà date da “mille cavilli giuridici”, che andavano dalla non reperibilità dell’atto di concessione dell’enfiteusi del 1840, alla ricostruzione che era regolata da due leggi diverse (trattandosi di situazione mista tra pubblico e privato, quale era la Curia) ed altre difficoltà tipiche di un quadro complesso. Ma anche la successiva progettazione dell’architetto Belgioioso e C. si era svolta in un clima di incertezza.
A proposito del citato atto, nonostante le alacri ricerche non si trovava, fu lo stesso Zuffa a reperirlo dopo laborioso impegno come comunicava al Sindaco ed agli Assessori competenti in data 25 giugno 1959, così esordendo e trascrivendo quel documento:
“Sono lieto di comunicare che, a seguito di fortunate ricerche nell’Archivio storico Comunale presso questa Biblioteca, sono riuscito a rintracciare l’originale del contratto di enfiteusi dei locali ex S. Francesco…”, con ben due allegati planimetrici mostranti le superfici inerenti.

IL PRIMO PROGETTO
Il progetto detto “Capezzuoli” dal nome del Soprintendente ravennate che lo aveva promosso, fu messo in disparte come si legge nella lettera del maggio 1958 che Zuffa invia al Ministero della P.I., “per le pressioni di un certo Canonico cui non convenivano alcuni particolari di funzionalità interna”. Questo per la parte ecclesiale, dato che entrambe le strutture, Curia e Museo, facevano parte di un unico complesso.
Ma quel progetto non piaceva neppure a Zuffa che dichiarava “non era un gran che”, ma era meglio di niente; e poi c’era dell’altro.
In una cartellina “RIMINI = TEMPIO MALATESTIANO PROGETTO DI RICOSTRUZIONE EX CONVENTO DI S. FRANCESCO”, compresa in un raccoglitore degli Atti d’ufficio del 1958, custodita in Biblioteca troviamo il progetto grafico. A firma dell’architetto Renzo Strumia (qui) fu redatto su incarico della Soprintendenza, dato che nella stessa si notano il timbro e la firma del Soprintendente Capezzuoli Corrado; e da qui il nome del progetto. Come accennato in precedenza vi furono vari motivi per non accettarlo specialmente da parte della Curia.

IL SECONDO PROGETTO
Messo da parte il primo, si affidò l’incarico di redigere una nuova progettazione allo Studio di Architetti BBPR di Milano, rappresentato dall’architetto Ludovico Belgiojoso. I progettisti erano già stati scelti e nominati dal Capitolo della Cattedrale per la parte di propria spettanza, e confermati per la costruzione dell’impianto museale. Seguirono varie corrispondenze tra i tecnici e Mario Zuffa, riguardanti le notizie utili alla progettazione degli spazi museali interni; così nel 1957 il progetto in planimetrie.

Il progetto prevedeva una serie di negozi al piano terra a sinistra, un accesso comune al Museo e agli spazi del capitolo e la Sala Manzoni prospettante sulla via IV Novembre; oltre l’appartamento del custode, ed altri vani complementari. Ma mentre poi la parte del Capitolo della Cattedrale venne realizzata, seppur diversamente da come oggi la vediamo, quella museale si arrestò.
L’11 settembre 1959 la Sovrintendenza scriveva al Ministero della Pubblica Istruzione, a seguito “del continuo interessamento” di Mario Zuffa, comunicando che la vertenza in atto fra il Capitolo della Cattedrale ed il Comune era in via di risoluzione per cui nulla più ostava alla ricostruzione del Museo. Tuttavia, si diceva che il Comune era determinato a destinare ad altro scopo la propria parte in quel sito, in quanto giudicata non sufficientemente adatta ad ospitare il nuovo museo. Si pensava infatti di realizzarlo altrove possibilmente in una proprietà comunale, non ancora però individuata. Ma nonostante ciò tuttavia la parte del Comune venne abbandonata.
Ma intanto sulla stampa locale non cessava la campagna battente per chiedere la risoluzione del problema. E in questo clima lo stesso Mario Zuffa veniva, assai ingiustamente, sottesamente accusato, quale responsabile dello stallo per sua inefficienza (come da lettera di un lettore pubblicata nel Resto del Carlino del venerdì 24 aprile 1959).

IN SEGUITO
Nel Piano Regolatore del 1964 il Museo era stato previsto nel complesso dei Teatini rimasto ancora in piedi dopo i bombardamenti e le distruzioni per pubblica incolumità, proposto nella richiesta di statizzazione che affronteremo in seguito. Ma anche qui emergeva qualche problema.
In una missiva del 2 settembre 1959 Mario Zuffa ricordava all’Assessore alla P.I. di avere chiesto all’Ufficio Tecnico del Comune, “…che, inoltre, venga redatta per l’intero immobile in oggetto una completa planimetria…”, mentre per anticipare i tempi ne stava ideando una disposizione. Nel sito ipotizzava la ricostruzione della Palazzina di Isotta, la collocazione del portale della chiesa di S. Maria in Acumine, altri portali importanti recuperati e Porta Montanara.

L’area dei Teatini ancora nel 1972. Fonte Biblioteca Gambalunga.

IL TENTATIVO DI STATIZZAZIONE E L’EPILOGO
Con Atto del 1° giugno 1964 n. 225 il Consiglio Comunale “ad unanimità di voti per alzata di mano”, delibera “di richiedere al Sig. Ministro per la Pubblica Istruzione di procedere alla statizzazione del Museo Archeologico Comunale in analogia con quanto è già stato operato per istituzioni similari in altre città”. Era l’ultimo tentativo per venire a capo della situazione.
Un inciso. In seguito, dopo tale determinazione, Mario Zuffa in un certo senso ammoniva a conservare quello che rimaneva nell’area ex Teatini, e candidata a nuova sede del Museo. Lo faceva con una lettera dell’8 giugno rivolta al Sindaco inserendo il tema in un contesto più ampio, in cui le distruzioni dei monumenti residui era ricorrente e, a volte, pretesto motivo di pubblica incolumità. La missiva è interessante e riepilogativa del quadro della situazione di allora, e meritevole di essere riportata nei tratti salienti.

Si faceva istanza per procedere al restauro dell’edificio ex Teatini, per la parte confinante con via IV Novembre. Stigmatizzava il fatto che fino ad allora “il sistematico uso della procedura di demolizione per pubblica incolumità… di edifici monumentali, abbia salvato esclusivamente le responsabilità giuridiche ed assicurato il quieto vivere dei vari ingegneri dirigenti che le hanno energicamente promosse, ma abbia pure finito col compromettere (speriamo non definitivamente) la ricostruzione degli stessi edifici e col depauperare sensibilmente il nostro patrimonio artistico (bene pubblico, si badi!)”.
Poi citava esempi concreti come gli archi di Porta Montanara, l’ex Convento S. Francesco, “smantellato progressivamente”, e la facciata di Palazzo Lettimi “la cui presenza nell’antico nucleo cittadino si fa veramente desiderare…”. Un’analisi cruda ma tristemente reale che ancora oggi per certi versi permane in parte, specie per Palazzo Lettimi e l’ennesima occasione persa di restituire l’area ex S. Francesco alla città valorizzandone la storia.
Ma pare che anche nella nuova area scelta non mancasse qualche problema. In pari data scriveva all’amico professor Ludovico Massetti Zanini perché gli facesse conosce gli esatti termini del passaggio di quegli immobili al Comune, perché se ne era persa memoria. Inoltre per verificare presso i Padri Teatini alcuni aspetti legati alla diversa destinazione d’uso, attualmente scolastica, a museo.
Parimenti in una missiva, sempre del 8 giugno 1954 indirizzata al Presidente del Consiglio Superiore per le Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, con amarezza lo rende edotto della decisione di chiedere l’intervento dello Stato per dirimere la situazione e statizzare il Museo.
Andò male anche questo tentativo perché non sorti nulla, come spiegato nella lettera che lo stesso Zuffa inviò al Sindaco il 6 novembre 1964. La richiesta non fu accolta sia perché “non poteva che essere “formalmente” negativa per ragioni di bilancio, ma l’istanza potrà essere riesaminata” (sic!).
Nel 1965 anche una parte del complesso residuo dei Teatini venne distrutto, nonostante le precedenti raccomandazioni di Mario Zuffa perché avvenisse il contrario.

La demolizione della parte edificata del complesso dei Teatini, insistente sull’attuale giardino e confinante con via IV Novembre. Fonte Biblioteca Gambalunga.

La sorte del fabbricato ex Teatini e delle Celibate era già segnata il 26 giugno 1965 nella lettera che l’Ufficio Tecnico indirizzava a Mario Zuffa che ad un certo punto, traeva la seguente conclusione: “… questo Ufficio non ravvisa diversa esclusione del totale abbattimento dell’edificio…”. Seguita da un’ordinanza sindacale in tal senso del 15 luglio successivo.
Amare comunicazioni seguirono da parte di Zuffa a seguito della brutale demolizione, in una in particolare – del 22 luglio – stigmatizzava il fatto che, contrariamente agli accordi presi ed al capitolato dei lavori, l’impresa aveva devastato il bel portale in pietra bianca delle Celibate, non solo rovinando alcuni elementi della cornice ma anche altri risultavano mancanti poiché trasportati a discarica. E così un’altra storiaccia della squallida sorte degli edifici monumentali riminesi si era conclusa con il solito copione.

Ma nonostante le aspre imprese e la tenacia dimostrate per avere un museo, Rimini dovette attendere fino al 1990 quando fu inaugurato l’attuale Museo Tonini.
Infine. Al grande, ottimo direi, Mario Zuffa Rimini ha dedicato una strada marginale, nascosta, traversa della Via della Repubblica. La storia insegna che quel personaggio avrebbe meritato ben altro risalto e riconoscenza, alla stessa stregua di vari odierni studiosi di cultura esclusi dal riconoscimento del Sigismondo d’Oro. Perché i meriti, specie in campo culturale, dovrebbero essere riconosciuti in modo trasversale e con obiettività.

Via Mario Zuffa.

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