Attraverso una descrizione stilistica approfondita, Giovanni Rimondini riporta in vita le tracce della "grande mente" e del "famosissimo ingegno" che ha lasciato la sua firma sul castello.
DATI STORICI E EKPHRASIS
Mi dice Mary Ann Rossello, una mia vecchia amica un bel po’ scassacribbi, che, sì, l’autoria di Filippo Brunelleschi di Castel Sismondo storicamente è fondata, ci sono i documenti e non si discutono; i riministi pataca fanno finta che non ci siano, ma per accettare in modo saldo l’autoria manca ancora un’ekphrasis autorevole, una descrizione stilistica seria e convincente che allinei Castel Sismondo mediante un’analisi coi dettagli con la Cupola di Santa Maria del Fiore, con il portico degli Innocenti, con le basiliche fiorentine, con palazzo Pitti… Le ho risposto: non vorrai cercare nell’architettura del castello di Rimini delle colonne, dei capitelli, o delle trabeazioni? Ma no, è ovvio, ha replicato, che si tratta sì di una grandezza, di un’eccellenza stilistica nel genere dell’architettura militare, dopo tutto Sigismondo Pandolfo, impegnato il Brunelleschi poi potrebbe avere fatto tutto di testa sua o con progetti di capomastri. M’è venuta in mente una valutazione del 1437, credo, fatta alla presenza del Brunelleschi di Niccolò da Pisa, un vecchio capitano dei Fiorentini, e di Francesco Sforza, allora giovane capitano fiorentino, del modellino ligneo della fortezza di Vico Pisano – che poi non venne eseguita –. I due rerum militarum periti espressero le loro meraviglie per le novità e le loro grandi lodi per il progetto dell’architetto fiorentino.
COME I CAPITANI DEL PRIMO ‘400 ESAMINAVANO UNA FORTEZZA DI FILIPPO BRUNELLESCHI
Ce lo racconta, le dico, nella sua seconda biografia del Brunelleschi, Antonio di Tuccio Manetti, quello che nella prima breve ma succosa biografia dell’architetto, ricordi? E lei mi taglia la voce, cercando di imitare la mia pronuncia rozza bolognese-romagnola: “Fece uno castello, fortezza mirabile per lo signore Gismondo di Arimino”. Bè, continua, cosa avevano detto i due capitani?
Fammelo cercare, l’avevo qui sul tavolo. Ecco qui:
“Così si fece pensiero do forzifficare Vico Pisano con uno cassero e torri e quello che bisognassi, ed andòvi Filippo con alcuno dello Ufficio de’ Dieci della Balia che regnavano. Filippo vide ed esaminò tutto, e conferirono di poi col resto dello Ufficio el disegno e pensiero ch’egli avevano fatto, e tutti s’accordarono che il ‘suo era bellissimo pensiero e féciogliene fare modello e di terra e di legname e di quello che era necessario…”
Poi decidono di sottoporre il modello a Niccolò da Pisa e a Francesco Sforza, al loro servizio e al servizio di papa Eugenio IV, per averne il parere.
“Ed esaminato al cosa l’uno e l’altro tritamente” vuol dire nei dettagli. Grazie prof. Il primo ad esprimersi è Nicolò da Pisa: “el quale si meravigliò assai di tanto ingegno e di tanta industria e di sì trita essamina quant’egli vi vide drento, e molto la commendò, e confortocci che la si mettessi in essecuzione innanzi a ogni altra cosa che si potessi avere, dicendo: – E per difendere sé e per offendere chi vi si ponessi intorno con qualunque macchina ed offesa, io non so pensare per me, che di queste cose ho vedute assai, che altro si potessi pensare. El conte [Francesco Sforza] confermò in ogni sua parte e non si poteva saziare di lodarlo quello che aveva detto Niccolò”. Poi Niccolò riprende la parola: “Io non vidi mai di simile cosa insino qui di questa qualità e spesa e di molta maggiore cosa, che più mi soddisfacessi in tutte le parti. Benedetti sieno gli spiriti Fiorentini! -; rivolgendosi a lui dicendo: – Maestro Filippo, io non sono di natura adulatore, e non lo seppi mai fare: sallo Dio e chi m’ha pratico; ma in questo caso io non sono sofficiente a lodarvi quante voi meriteresti e non mi posso tenere di dirvelo alla presenza. Voi meritate grandissima commendazione, e tutta la vostra Repubblica v’è molto obrigata ed ha una grandissima ventura d’avere uno homo della qualità vostra; e chi ha cotanta industria a esaminare tante difese, sarebbe anche atto a qualunque quasi inespugnabie sapere e luoghi e ‘l come ella si potessi abattere e spianare, se mezzo vi fossi -. Filippo arrossì e ringraziollo della cortesia e grate parole…” (1)
I TRE DISEGNI CHE L’ARCHITETTO DEVE FARE PER MARCO VUTRUVIO POLLIONE
Mary Ann, sempre un po’ invadente, commenta: allora per Castel Sismondo per cominciare ad abbozzare un’ekphrasis devi fare come Niccolò e Francesco, cercare anzitutto la novità rispetto alle fortificazioni coeve, ossia “il bellissimo pensiero”, e bello significa efficace ma anche bello in senso estetico, poi cercare se è rimasto qualcosa del disegno e del modello ligneo, immagino che non ci sia più niente. Peccato che i due capitani non abbiano elencato i dettagli di difesa e offesa.
Certamente il modellino, visto ancora nel 1503 dal castellano veneziano Vincenzo Valier, non esiste più, ma sui disegni, cara Mary Ann, si può ipotizzare che qualcosa sia rimasto, non gli originali, ma almeno tre immagini che poi ti faccio vedere di quello che Vitruvio, l’architetto di Cesare e di Augusto, considera il terzo disegno o disegno scenografico o anche prospettico, e dalla pianta concreta del nucleo o cassero del castello riminese si può ricostruire il primo disegno.
Ossia il disegno della pianta, come vedrai. Intanto Vitruvio nel De Architectura libri X, testo che Filippo Brunelleschi vedeva, scrive:
“La dispositio [disposizione: è l’operazione complessiva della creazione] invece consiste nella conveniente collocazione degli elementi e nell’elegante realizzazione dell’opera nelle sue varie componenti dal punto di vista della qualità…Queste sono le forme della dispositio … icnografia, ortografia, scenografia. L’icnografia richiede il il giusto uso del compasso e della riga e non è altro che la descrizione in pianta delle forme architettoniche. L’ortografia è la rappresentazione in verticale della facciata dell’edificio che si dovrà costruire, disegnata nel rispetto delle proporzioni. La scenografia è il tracciato della facciata e dei lati che sembrano allontanarsi in prospettiva, con la convergenza di tutte le linee al centro del compasso. Queste forme nascono dall’idea di progettazione (cogitatio) e dalla capacità inventiva (inventio)” (2).
LA PIANTA DI CASTEL SISMONDO AD CIRCULUM ET AD QUADRATUM
Dino Palloni mi disegnò al pc il quadrato sotteso alle mura segmentate, in omaggio a un consiglio di Vegezio, e il cerchio concentrico che individuava la posizione delle torri del cassero o rocca di mezzo per il mio articolo sull’Arco del 2004. Vitruvio nel testo citato continua con l’eurythmia ossia “quel bello e armonico aspetto che ci viene offerto dalle varie parti nel loro insieme…Come nel corpo umano” (3).
Vitruvio era conosciuto a Firenze prima della ‘scoperta’ del testo nel 1410 di Poggio Bracciolini nell’abbazia di San Gallo e la sua trascrizione. Filippo Brunelleschi non conosceva il latino ma si sarà fatto tradurre chissà quante volte l’opera da un amico umanista.
IL DISEGNO SCENOGRAFICO VITRUVIANIO DEL BRUNELLESCHI CI È ARRIVATO TESTIMONIATO DA TRE RAPPRESENTAZIONI COEVE DEL CASTELLO
La medaglia di Matteo de’ Pasti che ha nel rovescio la rappresentazione del castello datata 1446 – data simbolica – mostra una veduta frontale del cassero e mastio mentre il primo cortile, il promuralis e l’ingresso sono visti a volo d’uccello, stranamente senza mostrare il fossato. Perfettamente frontale il ritratto del castello nell’oculo sopra i due levrieri nell’affresco di Piero della Francesca datato 1451 con Sigismondo Pandolfo che venera San Sigismondo; e infine il castello adattato in una veduta a volo d’uccello, ma simile alla medaglia del Pasti, con il cassero in veduta frontale, nel bassorilievo di Agostino di Duccio, cappella dei Pianeti, formella del Cancro, sono tre immagini che mostrano di dipendere da un originale, un archetipo che presenta la facciata del castello con le torri in prospettiva frontale, che hanno una caratteristica comune e cioè la coincidenza delle linee estreme del mastio con le linee verticali delle due torri vicine. Questa coincidenza di linee Manfredo Tafuri la notava anche nel rovescio della medaglia di Matteo de Pasti raffigurante la facciata del Tempio Malatestiano, dove la cupola si salda con il suo diametro con le linee estreme della facciata, caratteristica che può essere interpretata come un dettaglio prospettico anamorfico (4).
LA FACCIATA DI CASTEL SISMONDO
Mary Ann muove la testa in modo un po’ ambiguo, prendo il gesto come un approvazione. Le dico: abbiamo tre testimonianze coeve della facciata del nostro castello che abbiamo sempre valorizzato, senza averne coscienza, nelle foto da quando il castello è stato fotografato, ma anche prima ci sono delle testimonianze grafiche che privilegiano questa veduta frontale.
Mi sembra che questa sia la prima scelta brunelleschiana importante su suggerimento di Vitruvio, la facciata con i suoi movimenti di torri e mura in qualche modo appiattita nella veduta frontale come uno stiacciato, che si impone con un’identità formale forte, tanto forte che quando pensiamo al castello ce l’immaginiamo “di facciata”.
L’altro elemento forte è il fossato.
Ma nelle vedute quattrocentesche, persino nelle due a volo d’uccello, il fossato non si vede. Io credo che non l’abbiano rappresentato per ragioni strategiche. Una palizzata, un rialzo del terreno e anche in un certo periodo un muro alto nascondevano ai Riminesi il grande vuoto del fossato, che visto all’improvviso doveva sicuramente mettere paura o almeno bloccare per un momento il movimento di chi vi si dirigeva. Mary come ti sembra questa prima parte?
Mary Ann, prego. Mi sembra che la piccola novità, rispetto a quanto avevi già detto e ridetto, sia proprio in questa individuazione della facciata invenzione vitruviana-brunelleschiana, come quella della pianta ad quadratum. Forse però finora c’è un po’ troppo Vitruvio e poco Brunelleschi.
Forse, ma adesso viene il fossato e poi ti faccio vedere le straordinarie immagini di Giovanni Maccioni che lo ricreano nella sua novità ossidionale e architettonica quasi piranesiana.
Come sarebbe piranesiana, ha qualcosa di settecentesco?
No, ha qualcosa di gigantesco come nelle acqueforti che rappresentano architetture romane di Giovanni Battista Piranesi. E dal punto di vista ossidionale è proprio la scarpa e controscarpa che nel ‘500 e nel ‘600 sopravvive nelle fortezze come bastione.
LA NOVITÀ OSSIDIONALE NOTATA DA ROBERTO VALTURIO: IL FOSSATO, TRE DESCRIZIONI E DUE METAFORE
Nel De re militari Valturio, l’umanista nel consiglio di guerra di Sigismondo Pandolfo, – lo leggo nel testo dell’edizione del De re militari di Guaraldi carte 19-20 – descrive l’“arx nobilis sive maius castellom tui nominis, eo astu militari et arte bellica praecellens ut eius pulcritudo, situs atque dispositio, non civium modo sed omnes oculos intuentium in semet haud immerite allitiat atque perstringat…” [la nobile rocca ossia il maggior castello di tuo nome, eccellentissimo per astuzia militare e arte della guerra, affinché la sua bellezza, il suo sito e il suo pensiero nutra e attiri meritatamente a sé gli occhi non solo dei riminesi ma di tutti quelli che guardano]. Prima descrizione del fosso o meglio della sua scarpa:
“Primo versus urbem ambitu Emicicli formam habens promuralis eius vix credibilis relatu profunditasque pyrhamidum instar proclivis a fundamentis errigitur Amplisima latitudine ad summitatem altitudinem pedum quinquaginta phenestris centum sexaginta supra terram, totidem infra…” [Verso la città, nella prima parte che ha la forma di un semicerchio, si erge dai fondamenti il suo promurale (primo muro basso della falsabraga) a stento credibile da riferire di amplissima lunghezza e con l’altezza somma della parte in pendio (della scarpa) di cinquanta piedi romani di altezza (14,82 metri) con 160 bombardiere sopra terra e altrettante sotto…]
Seconda descrizione del fosso nella parte interna con la sorgente per riempirlo d’acqua al bisogno:
“Fossa prima interiorque quam perennis fontis aqua interfluit centum pedum latitudine quinque et triginta eoque amplius altitudine.” [La prima fossa dentro le mura si allaga con una sorgente di 100 piedi di lunghezza e 35 di larghezza (qui ci deve essere un errore di misure, dalla sorgente, che si apriva nella controscarpa orientale sotto il palazzo Pellicioni, 100 piedi romani equivalgono a metri 29,64 forse doveva essere 1000 piedi metri 296,4?).
La terza descrizione contiene la seconda metafora degli argini di un fiume:
“Altera extrisecus late patens instar similiter amnis irriga circumfluit fossa magnae mentis et praecellentis ingenii OPUS.” [L’altra fossa, che si apre all’esterno delle mura che somiglia all’argine di un fiume gira intorno piena d’acqua OPERA di una grande mente e di un famosissimo ingegno].
LA FIRMA UMANISTICA DELL’AUTORE DELL’OPUS
Nella descrizione Roberto Valturio ha per due volte affermato che Sigismondo Pandolfo è l’auctor del castello, sappiamo che auctor come ha notato Angelo Turchini significa in latino committente. E poi segue la firma umanistica del Brunelleschi, il cui none e cognome non poteva essere messo insieme a quello di Sigismondo Pandolfo per non sminuire il signore, ma viene presentato proprio come in un dipinto, per esempio Petri de Burgo opus, qui si dice che l’opus è di una mente grande e di un ingegno famosissimo. A Rimini tutti sapevano chi era la grande mente e il famosissimo ingegno per averlo visto cavalcare con il giovane signore in settembre ottobre del 1438 a Rimini e nelle città e terre malatestiane.
LA CHIUSURA DEL FOSSATO NEL 1820 CON LE MACERIE DI SANTA COLOMBA
Certo, Mary Ann, il fossato che nella frase vale quanto una metonimia – parte per il tutto – è stato ben sfortunato: primo i contemporanei non lo mostrano, poi viene adibito esclusivamente a fossato acqueo con muri divisori per mantenere l’acqua alta nel caso che i nemici avessero cercato di farla defluire. Poi negli anni ’20 dell’800 il fossato venne riempito principalmente con le macerie della cattedrale di Santa Colomba del VI al XIII secolo, l’unica cattedrale distrutta con l’avvento dei Francesi, perché i giacobini riminesi, all’insaputa di Napoleone, per fare un dispetto al vescovo codino Francesco Ferretti, l’avevano trasformata in caserma e poi era stata venduta a Francesco Romagnoli imprenditore forlivese. Il Romagnoli l’aveva demolita per ricavarne mattoni e con i marmi fare calce e fatto gettare le macerie nel fossato del castello.
Ora il fossato giace sotto la cementata del cessato sindaco Gnassi, che non sa chi sia il Brunelleschi e sa qualcosa, ma pochissimo, del solo Fellini a cui ha sacrificato il centro storico e che ha decretato che nel fossato non c’è niente e che il castello è solo cenere e ruderi.
Come ti pare fin qui questa ekphrasis cara Mary… Mary Ann? Bè non è proprio breve ed essenziale come mi avevi detto. E poi a decretarne la fortuna dovrebbero essere gli studiosi autorevoli nazionali e internazionali e mi sa che tu… pur essendo un accademico portoghese, sei in braghe di tela.
E poi questo fossato è proprio un fantasma, come hai detto fin dall’inizio…
E’ qui che ti voglio, mia cara, adesso ti faccio vedere come il castellologo e ben attrezzato grafico reggino Giovanni Maccioni ha fatto il miracolo di ripristinare le vedute del castello e del fossato al tempo di Sigismondo Pandolfo. Le faccio vedere il file con le immagini digitali di Giovanni Maccioni, che aveva già prodotto delle immagini per la sala didattica del castello dell’ingegnere Dino Palloni ripubblicate non tanto tempo fa su Rimini 2.0.
Giovanni con maggiore precisione critica ha rivisto le pur belle immagini precedenti, facendo attenzione soprattutto al fossato, utilizzando le misure del Valturio, i disegni dell’ingegnere Andrea Zoli del 1825 e le sezioni della controscarpa orientale dell’ingegnere Pacifico Barilari, tutti misurati in metri e quindi attendibili. I lettori di Rimini 2.0 le potranno vedere pubblicate a brevissimo.
Ha usato i colori della veduta di Piero della Francesca mostrandoci il castello e il fossato com’era ‘nuovo’ appena costruito e intonacato ai tempi belli di Sigismondo Pandolfo. I castelli erano intonacati coi colori araldici dei padroni; quelli dei Malatesta e dei loro parenti Gonzaga ed Este erano i colori del partito guelfo: il bianco rappresenta la Fede, il rosso la Carità e il verde la Speranza. Il palazzo di Federico di Montefeltro presenta decorazioni in oro e azzurro lapislazzulo che rappresenta il nero sono i colori del suo stemma ghibellino giallo-oro e nero-azzurro imperiali.
Forse i castelli della volpe di Urbino erano colorati di giallo e avevano una torre nera.
Bibliografia
1) Antonio Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, a cura di Carlachiara Perrone, Saleron editrice, Roma 1992, pp. 126-128. La prima vita, con Castel Sismondo “fortezza mirabile”, in Antonio Manetti, Uomini singolari in Firenze dal MCCCC innanzi, pubblicato in Operette storiche ed inedite di Antonio Manetti, raccolte per la prima volta e al suo vero autore restituite da Gaetano Milanesi, Succ. Le Monier, Firenze 1887, p.162.
2) Marco Vitruvio Pollione, De Architectura Libri X, a cura di Luciano Ligiotto, traduttore, Edizioni Studio Tesi, Pordenine 1990, pp. 20-21.
3) Ivi. Il disegno di Dino Palloni nel mio primo testo sul castello: Frammenti di cultura prospettica brunelleschiana nel castello e nella Rimini di Sigismondo Pandolfo Malatesta in Angelo Turchini (a cura di) Castel Sismondo, Sigismondo Pandolfo Malatesta e l’arte militare del primo Rinascimento. Atti del Convegno, Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 2003, p.p.273; Id., Filippo Brunelleschi e i Malatesti a Pesaro e a Rimini. Fortuna e sfortuna storiografica di una presenza, “L’Arco”. Annuale di cultura della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, 2013, p.57.
4) Si veda Giovanni Rimondini, Il castello dimenticato e violentato, in Rimini 2.0, Forma urbis 14 IX 2020 on line.
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