L’Imago Pietatis e la scuola pittorica del Trecento riminese a Verucchio

L’Imago Pietatis e la scuola pittorica del Trecento riminese a Verucchio

Studi e documenti anche inediti, con percorsi di ricerca, offerti ai giovani studiosi.

Nella chiesa francescana di Santa Croce è venuto alla luce un vero monumento, pressoché intatto, che ricrea sotto Verucchio il luogo santo di Gerusalemme della sepoltura del Salvatore. Parte da questa meravigliosa scoperta l'articolo del prof. Rimondini, che apre a un ampio e affascinante campo d'indagine.

NUOVE FELICI SCOPERTE NELLA CHIESA DI SANTA CROCE DI VILLA VERUCCHIO

Nell’abside, dietro agli stalli del coro nella parete alla destra di chi guarda entrando nella chiesa francescana di Santa Croce a Villa Verucchio, è apparsa dentro una nicchia gotica rilevata da una cornice un’Imago Pietatis (foto sopra), l’immagine di Cristo morto dentro la tomba, che è riprodotta incorniciata da un’ogiva e sopra un sarcofago in rilievo; un vero monumento pressoché intatto che ricrea sotto Verucchio il luogo santo di Gerusalemme della sepoltura del Salvatore.
Il monumento, con l’ogiva, il fronte del sarcofago, il dipinto del corpo di Cristo, rappresenta anche alla lettera il sigillo maggiore della provincia francescana di Bologna, della quale faceva e fa parte il Convento di Villa Verucchio, il primo della provincia, come si vede rappresentato nelle Memorie storiche della Provincia dei Minori Osservanti detta di Bologna, del padre Ferdinando da Bologna, del 1717, a p.1, con la data 1216.

Sigillo maggiore della Provincia Francescana, 1216.

Nella chiesa di Villa, poco più a destra dell’Imago Pietatis monumentale emersa nel muro del presbiterio, si vede anche un resto di affresco, una figura femminile di volume e di spalle, avvolta da un mantello rosso dal profilo quasi perduto, una donna di rango seduta per terra in atto di ascoltare una predica. Tutta la chiesa, eretta poco dopo i tempi di Francesco d’Assisi, era stata affrescata con storie della vita del Santo – rappresentato “al modo antico col caputio picolo” – e di Cristo, come vedremo documentate nel secolo XVI.
Questo frammento del ‘300 riminese, richiama, a mio avviso, il grande affresco della Crocifissione nella navata, così bene studiato e individuato da Massimo Medica, mentre Alessandro Giovanardi pensa piuttosto a opere di Pietro da Rimini.

L’affresco della crocifissione nel convento francescano di Villa Verucchio.

Nell’abside di questa chiesa c’è l’enigma pittorico principe di tutto il nostro territorio, il misterioso e mutante “Crocifisso del secolo XIII” sul quale è stato scritto tutto e il contrario di tutto.
L’area verucchiese malatestiana e francescana presenta un grande interesse anche per la pittura
del ‘300 riminese, e offre non pochi monumenti pittorici, in parte scomparsi e testimoniati dai documenti, e una certa copia di documenti archivistici e bibliografici, alcuni inediti che presento in questo file ai giovani studiosi indicando percorsi di ricerca.

Luca Wadding (1588-1657), il più famoso storico di Francesco e del suo ordine, scrive negli Annales Minorum, vol.I, 1731 p. 236, che Francesco fu a Rimini nel 1215. Due anni prima nel castello di San Leo, aveva predicato alla corte dei conti di Montefeltro, in occasione di un addobbo a cavaliere di un giovane della casa. Un ospite dei conti, Orlando Catani da Chiusi nel Casentino, gli aveva donato il monte della Verna.
Lungo la via aretina, oggi Marecchiese, sotto Vergiano, in una casa contadina raggiungibile da un breve viale di cipressi, esiste ancora, per quanto abbandonata e vandalizzata, una celletta che nel 1925 era stata dipinta dal pittore riminese Gino Ravaioli, secondo la tradizione luogo di sosta del santo di Assisi – Giuseppe Pecci, San Frasncesco in val Marecchia e il leggendario rifugio di Vergiano, MCCXXVI-MCMXXVI –.

VERUCCHIO E I MALATESTA

Verucchio è nota nel mondo della cultura per essere stata la prima Ariminum, la proto città villanoviana etrusca del fiume Ariminus oggi Marecchia – ipotesi di Giovanni Colonna –, le cui necropoli hanno fornito reperti grandiosi e monumenti iconologici strepitosi, sui quali ho intenzione se avrò tempo di pubblicare in questa sede le mie ricerche.
Verucchio è altrettanto nota nel mondo della cultura e storia dell’arte come sede di chiese e conventi che hanno custodito e ancora custodiscono capolavori della scuola pittorica trecentesca di Rimini, ma non solo, come vedremo.

I Malatesta, afferma il papa avignonese Giovanni XXII nella sua bolla di fondazione del secondo convento francescano dentro il castello di Verucchio, del 1320, credevano di essere originari di Verucchio. Il cognome “da Verucchio” appartiene solo al fondatore della dinastia Malatesta il centenario – 1212-1312, attenzione non vi è la certezza storica della prima di queste due date –. In questa chiesa di Villa, i sepolcri dei Malatesta di Sogliano – documentati dal XV al XVII secolo –, sembrano confermare questa origine verrucchiese della casa come molti commentatori di Dante nella spiegazione del verso Il Mastin vecchio e il nuovo da VerucchioInferno XXVII, 46 -. Ma gli studi diligenti di Currado Curradi – Currado Curradi e le origini dei Malatesti in “romagna arte e storia”, n.48, 1996 – mostrano i primi Malatesta del secolo XII originari di Rimini, una famiglia di guerrieri e politici gravitante nell’area politica dell’arcivescovo di Ravenna.

A Pennabilli, l’altro presunto luogo di origine, nel secolo XII esisteva una famiglia Malatesta “de strata” che non pare avesse rapporti con i Malatesta di Rimini; e al tempo di Sigismondo Pandolfo Malatesta cominciano i documenti della famiglia pennese Mastini che portano nello stemma un mezzo mastino rampante nel capo dell’arma malatestiana delle tre bande a scacchi, evidente citazione del verso dantesco.
Ma, a voler essere generosi, entrambe le località potrebbero essere state il luogo primitivo di origine della famiglia in secoli precedenti l’attuale documentazione archivistica.
Anche i Malatesta, come i loro parenti nemici Montefeltro, amavano i Francescani, tanto da insediarsi nei loro conventi dove tenevano gli archivi, i sepolcri di famiglia e le biblioteche. La più famosa biblioteca malatestiana per miracolo arrivataci intatta con tutti i suoi codici miniati è quella che Malatesta Novello, fratello di Sigismondo Pandolfo Malatesta, fece erigere da Matteo Nuti da Fano nel convento francescano di Cesena nel 1454.

Mi sono occupato degli argomenti storici ed artistici di Verucchio in diverse occasioni e in particolare in una pubblicazione relativa alla Collegiata di Verucchio per l’editore verucchiese Piero Pazzini nel 2005. Rimangono da percorrere promettenti piste di ricerca, per ottenere nuove informazioni sui dipinti che ci interessano, che alla fine indicherò, offrendoli, come già promesso, alle iniziative dei giovani ricercatori.
Riorganizzo il materiale vecchio e nuovo in un elenco dei dipinti – Crocifisso della Pieve di Verucchio, Crocifisso della Collegiata di Verucchio, Crocifisso della Chiesa di Villa, affresco della Crocefissione e dossali Corvisieri – per chiese: Pieve, Chiesa Collegiata, Chiesa di Santa Croce, per terminare con l’elenco dei problemi e l’indicazione degli archivi da esplorare.

DIGRESSIONE SULLE SOPPRESSIONI DI MONASTERI, CONVENTI E COLLEGIATE.
RELIGIONE E DENARO: LA STORIA DALLA PROSPETTIVA DI DIO

I documenti che useremo per i nostri fini sono inventari e descrizioni dovuti in gran parte a tre soppressioni dei due conventi francescani e della Collegiata di Verucchio; due napoleoniche del 1798 e del 1805 e una nazionale nel 1866. Queste soppressioni con incameramenti dei beni delle istituzioni religiose soppresse ripetono un vicino fenomeno politico rivoluzionario francese: la Costituzione Civile del Clero del 24 luglio 1790 decretata dall’Assemblea Nazionale Francese, che aveva stravolto il tradizionale assetto della chiesa francese, abolendo il clero regolare: monaci, frati, monache, suore e canonici e incamerandone i cospicui beni. La cosa aveva contribuito a risolvere il problema del deficit del bilancio dello stato.

Il padre Guardiano Sebastiano Menghi, nella sua puntigliosa ricerca Il Convento della Villa Verucchio nell’Ottocento del 1900 pubblicata da Piero Pazzini nel 2004, di cui ci serviremo, insulta i responsabili delle soppressioni, ladri e Massoni nemici della Chiesa. Cerca un nemico vicino, non si sforza di mettersi nella prospettiva della storia di lungo periodo, nella prospettiva di Dio.
Perché il fenomeno storico della soppressione del clero regolare è secolare e ricorrente nella storia dell’Europa cristiana.

Gaetano Salvemini (1873-1957) nel suo libro sulla Rivoluzione Francese spiega la rivoluzionaria Costituzione Civile del Clero come il collaudato espediente dei sovrani di antico regime e dello stesso pontefice per risolvere i problemi finanziari del pubblico erario. Il clero negli stati cristiani gode ovunque di privilegi politici, sociali e finanziari, e accumula redditi nei secoli bloccati, come si dice, con “mano morta”; sono immense ricchezze, certamente in parte destinate a fini assistenziali e scolastici, ma in gran parte tesaurizzate. Quando Napoleone si impadronì del tesoro del Santuario mariano di Loreto avrà pensato di essere entrato nella caverna di Alì Baba. Aveva trovato il denaro per finanziare la sua carriera bellica e imperiale. Ma anche le chiese di minore importanza, come ho potuto vedere in diversi inventari di soppressione, possedevano grandi quantità di metalli preziosi e gemme, in forma di sacre suppellettili, candelieri, adornamenti di statue – corone, collane, anelli –, bronzi di campane per non paralare dei terreni e degli edifici.

Filippo il Bello re di Francia, che aveva bisogno di soldi per fare la guerra, abolisce nel 1307 l’Ordine dei monaci cavalieri e banchieri del Tempio, incamerandone le cospicue ricchezze ed elimina crudelmente il gran maestro Jacques Molay e tutti i monaci cavalieri che si erano opposti al provvedimento accusati di idolatria, eresia, sodomia e riti satanici. L’ordine sparì in tutta l’Europa; ne approfittarono anche gli altri sovrani e l’Ordine dei monaci cavalieri di S. Giovanni che ereditò terre, chiese e conventi. Il pontefice Clemente V, ‘prigioniero’ ad Avignone del re di Francia, protestò blandamente e in sostanza accettò il fatto compiuto.
Con la Riforma protestante del secolo XVI, diversi principi tedeschi, i regni del Nord – Danimarca, Svezia e Norvegia, l’Olanda e la scismatica Inghilterra di Enrico VIII – soppressero il clero regolare e ne incamerarono i beni.

Ma gli stessi pontefici nel corso dei secoli avevano sfruttato le ricchezze dei grandi monasteri benedettini istituendo gli abati commendatari per arricchire o stipendiare i loro funzionari e parenti, e avevano abolito anche numerosi piccoli conventi. A pochi anni dalla Costituzione Civile del Clero, il primo papa romagnolo, il francescano santarcangiolese Clemente XIV, il 29 gennaio 1767 con la bolla Dominus ac Redemptor abolisce, su pressioni delle corti francese, spagnola e portoghese, i Gesuiti, l’ordine di gran lunga più colto, più socialmente e politicamente importante dell’intero clero regolare cattolico, che aveva missioni in tutto l’orbe terracqueo, da Pechino, dove i Gesuiti mandarini erano astronomi dell’imperatore, alle foreste delle tribù guerriere irochesi del Canada e alle immense foreste dell’America latina, dove “i Padri” avevano organizzato uno stato indigeno. In Gambalunga ci sono le lettere al fratello di un missionario gesuita riminese, il padre Carlo Gervasoni, che il Muratori impiegò nel suo libro sulle missioni gesuitiche in Paraguay.
E avevano cristianizzato nei secoli XVI e XVII in parte anche il Giappone, puntando però sul partito che sarebbe risultato perdente nella lotta per il controllo dello shogunato e per questo i missionari erano stati massacrati insieme ai convertiti cristiani giapponesi. Nella loro chiesa di Rimini – detta del Suffragio in piazza Ferrari, ma dedicata a San Francesco Saverio il santo gesuita missionario dell’India e del Giappone – c’è un bel dipinto di Guido Cagnacci che rappresenta il martirio di tre padri Gesuiti, crocifissi e con i corpi attraversati da lance.

IL CROCIFISSO DIPINTO PARTE DEL CORREDO PITTORICO DELLA PIEVE DI SAN MARTINO DI VERUCCHIO – GIÀ PIEVE DI S. GIOVANNI BATTISTA IN BULGARIA – DOCUMENTATO NEL 1755, NEL 1753 E NEL 1788

Rimando agli scritti di Giuseppe Pecci e di Currado Curradi per la storia della Pieve di Verucchio documentata dal X secolo. La prendo in considerazione per prima per il suo Crocifisso dipinto che potrebbe essere quello attualmente esposto nella Collegiata. In questo caso, come nei seguenti, negli inventari che trascrivo seleziono solo i dipinti che appaiono sicuramente medievali.
Il corredo pittorico della Pieve di San Martino di Verucchio è descritto a partire dal ‘700 in una scheda di Giuseppe Garampi (1725-1792), archivista vaticano e poi cardinale, probabilmente redatta in una escursione di studio, forse col maestro Giovanni Bianchi, Jano Planco, prima di partire per Roma nel 1746, e comunque prima della pubblicazione del libro sulla beata Chiara da Rimini del 1755 dove la notizia è citata.
Ecco dalle Schede Garampi sc-ms 200, nella n.° 628 della Biblioteca Gambalunga, la descrizione dei dipinti della Pieve di San Martino di Verucchio:

“1300 [ ] S(an).Gio(vanni). Batt(ist)a. [ ] Cristo in Croce con la B(eata). V(ergine). S(an). Gio(vanni) e Madd(alena) [ ] S(an) Martino a cavallo con staffa /
Al nome di Dio amen e adì primo di Giugnio MCCC. /
Io Laorenço de Martino da Virucchie o fato dipigniere /
questa Anch(o) / gna p(er) remedio de l’anima mia e de miei pasati io magistro /
domenicho de Nicholo da Fire(n)ce in VINEGIA a staçone / in suchanto / di Bancheria e a chasa io o depi(n)to la detta Anchona Deo Graçias.
L’inscrizione suddetta di caratteri gotici sotto un quadro della Pieve di Verucchio.”

Sono quattro dipinti: dopo la data 1300, che è relativa all’ultimo dipinto, una immagine di S. Giovanni Battista, titolare della prima dedicazione della pieve; il Crocifisso con la Vergine, San Giovanni e S. Maria Maddalena; Il San Martino a cavallo opera di Giovan Francesco Nagli detto il Centino che vediamo trasferito in Collegiata; l’ancona dipinta su commissione di Lorenzo di Martino da Verucchio dal pittore fiorentino Domenico di Niccolò, residente a Venezia, della quale non si ha altra notizia, ma che rende meglio articolato il panorama della pittura in territorio riminese nell’anno 1300.

Currado Curradi (1920-1991), nella sua opera Le pievi del territorio riminese, 1984, trascrive il verbale di una visita pastorale della Pieve del 1757 dove la presenza del Crocifisso dipinto è documentata nella controfacciata:

“Nel fondo della Chiesa […] verso il Confessionale grande vi è un Crocifisso antico, con Croce di abeto Vecchia.”
Nel recente restauro della Croce dipinta della Collegiata, eseguito da Marisa Caprara, il materiale della Croce è risultato di “pioppo bianco, traversato di abete” (comunicazione orale).

Giuseppe Pecci (1891-1969) ne La Collegiata di Verucchio, opera del 1930 descrive un inventario della Pieve del 1788, conservato nell’Archivio della Collegiata. Trascrivo solo i dipinti che ci interessano: all’altar maggiore il dipinto di San Martino. All’altare della Beata Vergine Addolorata “un Anchona grande di legno dipinta ed indorata” forse, scrive Giuseppe Pecci, è quella del fiorentino Domenico di Niccolò descritta dal Garampi.
“Nel detto inventario è anche menzionata, ma senza accennarne le dimensioni e il pregio “una Croce di legno col Crocifisso dipinto.”

Di questi dipinti nominati identificabile con certezza è rimasto sull’altare maggiore della Collegiata di Verucchio il quadro di San Martino attribuito da Francesco Arcangeli al pittore Giovan Francesco Nagli detto il Centino (1615-1675) passato in Collegiata con tutti gli arredi delle quattro parrocchie di Verucchio – la Pieve di San Martino, le parrocchie dei SS. Pietro e Niccolò, dei SS. Andrea e Biagio, e di S. Tommaso – soppresse per la creazione della Collegiata il 28 agosto 1795 da papa Pio VI. Seguo il racconto di Giuseppe Pecci.

LA COLLEGIATA NELLE SOPRESSIONI NAPOLEONICHE 1798 e 1805 E NELLA RESTAURAZIONE, DAL 1815 ALLE NUOVE SOPPRESSIONI UNITARIE DEL 1866

La Collegiata ebbe inizialmente come sede religiosa la ex parrocchia di S. Pietro e Niccolò, in attesa della costruzione di una nuova monumentale chiesa collegiale. Con decreto della Repubblica Cisalpina il 4 agosto 1797 la Collegiata fu soppressa.
Lo stesso anno i Francescani Conventuali di Verucchio, e quelli Osservanti di Villa Verucchio dovettero abbandonare il loro convento e chiesa. Il 25 aprile 1799 i canonici della Collegiata pure soppressi, ma di certo considerati in qualche modo clero secolare gestori di una parrocchia, presero possesso della chiesa francescana abbandonata.
Così il Pecci. Ma forse dovette trattarsi dell’impegno di acquisto di un bene demaniale, il convento e la chiesa di San Francesco, da parte di uno dei canonici con funzioni di parroco; si dovranno trovare gli atti di vendita ad annum forse nell’archivio notarile di Verucchio conservato nell’Archivio di Stato di Forlì. O forse no, sarà stato una sorta di tacito permesso, visto che la chiesa francescana fu subito lasciata dagli ex canonici per la chiesa del Suffragio nell’ottobre dello stesso anno.

Mentre Napoleone era bloccato in Egitto, gli Austriaci, nel luglio del 1800, sconfissero le truppe francesi e ripresero possesso della Romagna; i Francescani tornarono nel loro convento e chiesa. Vi rimasero fino al 1805.
Napoleone aveva di nuovo sconfitto gli Austriaci e cinto la corona imperiale francese e quella regia italiana. I Francescani se ne andarono di nuovo, la loro chiesa fu venduta al Comune di Verucchio che la vendette a sua volta alla nuova unitaria parrocchia di Verucchio. La nuova chiesa parrocchiale fu aperta nel 1811.
Iniziò la Restaurazione – 1815-1860 -; la Collegiata fu riconosciuta di nuovo ufficialmente coi suoi beni invenduti – che poi erano i beni delle quattro cessate parrocchie –. Nel 1829 i Francescani Conventuali ripristinati in tutto lo Stato pontificio chiesero di riavere la loro chiesa e convento di Verucchio, senza ottenerli. Andò meglio, come vedremo, ai loro fratelli Osservanti alla Villa.

LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA COLLEGIATA DI VERUCCHIO 1856-1874

Nel settembre del 1856, sempre seguendo la narrazione di Giuseppe Pecci, una commissione di canonici della Collegiata decise la costruzione della nuova chiesa. Il 2 dicembre del 1858 la progettazione del nuovo edificio sacro fu affidata ad Antonio Tondini (1802-1884), coadiuvato dall’ingegnere Filippo Morolli, perché il Tondini era “privo di patente” – Lisetta Bernardi, Antonio Tondini: Verucchio nell’Ottocento, Pazzini Verucchio, 2002 –.
L’11 maggio 1865 fu posta la prima pietra. Un anno dopo però il governo nazionale, dominato dai liberali Massoni anticlericali, soppresse di nuovo i conventi e la Collegiata, decurtandone i beni.
Tuttavia per l’impegno del Comune e della Parrocchia di Verucchio il 18 ottobre 1874 l’edificio terminato della nuova Collegiata fu solennemente inaugurato.

Tutta questa intricata vicenda – ma aspettate a conoscere quella del convento di Villa – fa da sfondo al passaggio dei beni – tra i quali i dipinti – dalla Pieve, dalle altre parrocchie e dalla chiesa conventuale francescana, alla nuova chiesa Collegiata.
Il mio attento lettore ha già capito che c’è una Croce dipinta in più nei documenti e quindi una in meno nella realtà. Nel patrimonio della Collegiata dovevano esserci due Croci, la Croce dipinta della Pieve e quella dei Francescani di Verucchio, sempre che quest’ultima non fosse stata venduta dal Demanio cisalpino o napoleonico. In particolare la tela San Martino del Centino della Pieve era finita in Collegiata, e ci si può aspettare che fosse entrata a far parte degli arredi della nuova Collegiata anche la Croce dipinta. Mentre dell’ancona di Domenico di Niccolò fiorentino residente a Venezia dopo la scheda del Garampi non si hanno documenti. Tuttavia questa ancona fiorentina proveniente da Venezia, è la prima testimonianza dell’importazione già nel ‘300 di opere d’arte dalla città della laguna, e a Verucchio fa compagnia al bellissimo Crocifisso dipinto del cavaliere veneziano Nicola del Paradiso, datato 1404, proveniente dalla chiesa di S. Agostino e ora in Collegiata.

LA CHIESA DI SAN FRANCESCO NEL CASTELLO DI VERUCCHIO 1320-1798-1805

Il papa avignonese Giovanni XXII (pontificato 1316-1334) come sappiamo, nel 1320 concesse ai Malatesta una bolla di fondazione della chiesa e del convento dei Francescani dentro il castello di Verucchio. Erano al governo di Rimini Pandolfo I, l’ultimo figlio di Malatesta da Verucchio, e Ferrantino figlio di Malatestino che gli succederà, con i Malatesta discendenti da Giovanni “ciotto”, da Paolo e da Giovanni da Sogliano. Per i loro modi da “tiranni”, e perché avevano usurpato una delle saline di Cervia di proprietà pontificia, i Malatesta non erano particolarmente amati dal rettore di Romagna Americo di Castel Lucio. Di lì a poco sarebbero cominciate le lotte intrafamiliari tra i nipoti di Malatesta da Verucchio con le aggressioni e le uccisioni che avrebbero portato all’estinzione violenta di tutti gli eredi di Malatestino.

Croce della Collegiata di Verucchio. Proviene dalla chiesa francescana o dalla Pieve?

IL CROCIFISSO SU TAVOLA DELLA CHIESA DI SAN FRANCESCO DENTRO IL CASTELLO DI VERUCCHIO

Nella chiesa di San Francesco di Verucchio, sul trave dell’iconostasi che limitava l’accesso al presbiterio e all’altare, c’era una Croce dipinta, almeno fino al tempo della Controriforma quando i cori davanti all’altare maggiore, chiusi da una specie di iconostasi, furono aboliti e demoliti.
Non sarà impossibile trovare i documenti che attestino le vicende del Crocifisso della chiesa francescana dentro Verucchio. A noi interessa la sua presenza nella chiesa, segnalata dal Pecci, il 7 giugno 1805, l’anno della seconda soppressione napoleonica. Il notaio che scrisse l’inventario della chiesa nuovamente demanializzata, fu il verucchiese Giuseppe Miliani, i cui atti sono conservati nell’Archivio di Stato di Forlì. Al numero 100 dell’inventario scrive:

“Un Crocifisso antico dipinto su legno.”

Aveva passato incolume le vendite del 1798. D’altra parte non c’era ancora un vero e proprio mercato dei “fondi oro” come ci sarà nella seconda metà del secolo e la cultura e i gusti di preti e frati non erano certo propensi ad accettare e valorizzare le opere d’arte medievali, a meno che non avessero un valore come oggetti di venerazione popolare.
Giuseppe Pecci identifica senza problemi questo Crocifisso del 1805 col Crocifisso attualmente sulla parete che vediamo a sinistra nel presbiterio della Collegiata: “un grande Crocifisso dipinto su tavola alto m.2,93 x 2,33 di bella proporzione, con le estremità stellate.”

Tuttavia un problema c’è. Nel patrimonio della Collegiata e unica parrocchia di Verucchio che aveva ereditato i dipinti della Pieve c’era già un Crocifisso dipinto, quello della Pieve appunto; mentre il Crocifisso descritto nella chiesa di San Francesco prima nel 1798 e poi nel 1805 era entrato a far parte dei beni demaniali destinati ad essere venduti. Certamente dopo quella data qualcuno poteva averlo acquistato per darlo alla parrocchia-Collegiata. Come vedremo più sotto non sarà impossibile trovare gli atti delle vendite dei Beni Nazionali, ma nel caso che quello che vediamo sia il Crocifisso dei Francescani, come vuole il Pecci, si apre il problema di sapere dove è finito il Crocifisso della Pieve. Nel caso si dimostri che il Crocifisso della Collegiata sia quello della Pieve, allora bisognerà cercare quale è stato il destino del Crocifisso dei Francescani di Verucchio.
Vero è che il Crocifisso della Collegiata di quasi 3 metri di altezza forse non starebbe agevolmente nella piccola chiesa della Pieve, anche se la chiesa dei Francescani non doveva poi essere molto più alta. Non abbiamo le misure del Crocifisso della Pieve che può anche essere immaginato di dimensioni ridotte, come quello della chiesa di S. Agostino oggi nella Collegiata di Verucchio.

Lo splendido portale del convento di Santa Croce.

GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI SANTA CROCE DI VILLA VERUCCHIO

La recente scoperta dell’Imago Pietais e del frammento di affresco della parete a destra di chi guarda il presbiterio della chiesa di Santa Croce di Villa, conferma una testimonianza del francescano padre Malazappi che nel 1579 aveva visitato il Convento e la Chiesa di Santa Croce della Villa descrivendolo nella sua Cronaca della Provincia di Bologna dei Frati Minori Osservanti MDLXXX, conservata manoscritta nel Convento di S. Antonio di Bologna:

“…uno dei più antichi conventi della Religione Francescana perché in quello abitò San Francesco l’imagine del quale è dipinta in diversi luoghi della Chiesa di esso Convento al modo antico col caputio piccolo…”

Troviamo queste pitture anche nel libro del padre Flaminio da Parma Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei Frati Minori dell’Osservante riformata Provincia di Bologna del 1761:

“Era la Chiesa nei giorni del più volte citato Malazappi quasi in ogni parte ornata d’antiche pitture, ma assai più di quelle sarà forse piacciuto ad alcuno Guardiano un bianco disgregante. Sicché nel muro laterale di prospetto alle Cappelle, appare ora conservarsi un’antica immagine del Redentore nostro Cristo Gesù. Né può verificarsi, che da questa Immagine Gesù Cristo sensibilmente parlasse, come si persuasero molti, al Padre San Francesco, essendo questa una Immagine dipinta sul muro della Chiesa, che nei giorni del Santo Padre non era edificata.”

IL RINNOVO DELL’INTERNO DELLA CHIESA FRANCESCANA DI VILLA OPERA DI ANTONIO TONDINI 1842-1858

Il padre Sebastiano Menghi, Guardiano del Convento di Villa, è stato un cronista diligentissimo nell’esplorare l’archivio conventuale e nel comporre un manoscritto con le informazioni sulla Chiesa e Convento, visto e utilizzato, come vedremo, da Massimo Medica per i dossali di Giovanni Baronzio, poi pubblicato da Piero Pazzini nel 2004 col titolo Il Convento della Villa Verucchio nell’Ottocento.
Da questo libro si traggono le informazioni sulle varie fasi del rinnovo dell’interno della Chiesa.

La Chiesa era coperta nell’interno da una volta lignea a carena, una specie di barca rovesciata, come la chiesa francescana delle Grazie sul Covignano a Rimini. Il Menghi non ama la parte rinnovata della chiesa e ne dà la colpa al Tondini, ma l’architetto verucchiese avrà fatto quello che chi poteva decidere la sorte della chiesa gli aveva ordinato.
Nel 1842 iniziò il rinnovamento del coro – più sotto riprenderemo l’argomento perché il Menghi descrive una situazione ben strana –. I lavori nel presbiterio continuarono l’anno seguente.
Dal 1851 al 1858 i lavori continuarono nel soffitto e nel corpo centrale della chiesa.

Sotto le pareti intonacate e cementate della nuova costruzione, nell’abside e nella parete in cornu Evangelii cioè a sinistra dal punto di vista del fedele che in chiesa assiste alle funzioni, essendo stata la parete di destra, in cornu Epistulae, eliminata per la costruzione delle cappelle, imbiancati prima del ‘500 sappiamo esistono gli affreschi con la vita di Francesco e di Cristo di cui è rimasta la grande Crocifissone.

LE VICENDE NEL CONVENTO E CHIESA DI VILLA VERUCCHIO NELL’OTTOCENTO

Seguendo le informazioni di Sebastiano Menghi, il convento e la chiesa di Villa Verucchio vennero acquistati dal Demanio cisalpino da Alessandro Guiccioli di Ravenna. Nel 1824 vennero acquistai per i Francescani, che vi contribuirono con 500 scudi, per 2540 scudi dalla famiglia Zanni della Villa. Il convento fu riaperto e la chiesa ufficiata.
Non si capisce bene nello scritto del Menghi se i Francescani rientrarono formalmente del tutto in possesso degli edifici, perché al momento della soppressione del 1866 e del nuovo incameramento sono gli Zanni ad opporsi in quanto proprietari.
Il 28 marzo 1868, lo Stato unitario riconobbe la proprietà Zanni. I frati in un primo momento dispersi, ritornarono ad abitare nel convento, dopo tutto non erano stati aboliti gli ordini religiosi.
Nel 1874 i frati acquistarono il convento dagli Zanni per 9 mila lire dichiarate e 6 mila in nero. Una parte del convento venne adattata a noviziato.

INVENTARI E DESCRIZIONI DEI DIPINTI DEL CONVENTO DELLA VILLA NELL’800

Come già affermato, descrivo da inventari e descrizioni solo le voci che riguardano opere medievali, probabili resti dei primitivi favolosi allestimenti.
Non ho trovato gli inventari del 1798; esistono nell’Archivio di Stato di Forlì, gli Atti del notaio verucchiese Giuseppe Miliarini sotto la data 3 agosto 1805 con l’inventario del convento e della chiesa di Villa. Nel coro sono notati i “libri addetti al servigio del Coro medesimo £.18”, e “Un Cristo grande sulla Croce £ 1,0”.
Sull’altar maggiore “Un’incona grande all’antica contornata con filetti d’oro, con quadro rappresentante San Francesco incoronato dalla Beata Vergine d’inferiore pennello, con due statue laterali sopra le Porte del Coro rappresentanti i Santi Ludovico Padre e Figlio £ 70”.
Non si deve far caso ai giudizi critici dei notai o del robivecchi che lo assisteva e anche l’identificazione delle statue è del tutto immaginaria, se si esclude un probabile Ludovico d’Angiò francescano vescovo di Tolosa. Tuttavia le valutazioni suggeriscono l’andamento del mercato.
Nella Cappella di S. Antonio abate: “Un’incona di legno antico dipinta”. Nella cappella della Concezione “Un’incona grande con sue Colonne in parte d’orata (sic), rappresentante la santissima Concezione, con Nicchio entro il quale trovasi la statua non molto grande di detta Concezione £ 56”.
Nell’altare contiguo “Un’incona di legno con quadro rappresentante S. Sebastiano, S. Rocco e San Diego £ 3,20”.

Nella soppressione del 1866 sono nominati tre inventari, da me non rintracciati: uno di “un cero Puelli” del 3 novembre 1866; uno del 1 gennaio 1867. Il 21 dicembre il sindaco di Verucchio Giuseppe Nicolini accompagnato dai Carabinieri fece sloggiare i frati; venne redatto un nuovo inventario; i libri della biblioteca furono trasferiti nella Biblioteca Comunale di Verucchio, i libri corali nella Biblioteca Gambalunga di Rimini.
Il Menghi ci dice che i frati avevano nascosto i due dossali con le storie della Passione, ma una spiata li aveva costretti a riportarli in chiesa. Inizia così la storia dei dossali che saranno attribuiti a Giovanni Baronzio. Non descritti nell’inventario del 1805, forse per le stesse ragioni di occultamento del 1866, probabilmente all’inizio del secolo poteva predominare il loro valore di Biblia Pauperum quasi fossero stati popolari come illustrazioni delle scene della Passione. Ma nel 1866 contavano già le ragioni di mercato. Gli Zanni, scrive il Menghi, se li fecero restituire dallo Stato e li vendettero per 2000 lire.

I DOSSALI DI GIOVANNI BARONZIO E ALTRI DIPINTI NELLE CARTE FORLIVESI DI ARIODANTE MARIANI E NEL TESTO DI SEBASTIANO MENGHI

Ariodante Mariani (1838-1900) è un protagonista della storia di Verucchio dell’800, storico, epigrafista, biografo, segretario comunale e bibliotecario di Verucchio, lasciò Verucchio per Roma dove dovrebbero esservi altre sue pubblicazioni. Quanto segue proviene da un nutrito numero di scritti del Marianni depositati nelle Carte Romagna della sezione Piancastelli della Biblioteca Comunale di Forlì. Vi prego di non far caso ai giudizi critici del Mariani, per altro non sempre strampalati.
Tra le carte comprese sotto la segnatura CR 273/61, un biglietto riguarda i due dosali – “12 specchietti” – :

“Dipinto in tavola di maniera greca, d’ignoto autore, composto di 12 specchietti, ne’ quali vedesi figurata la Passione di Cristo, Non havvi troppa unità nelle movenze, ed è poco squisito il gusto nei panneggiamenti. Tuttavolta se poi vi fosse stata maggior diligenza nella parte anatomica la suddetta tavola sarebbesi giudicata di moltissimo pregio e di prezzo inestimabile. Sarà stata dipinta sul declinare del secolo XIV. 21 dicembre 1866 A. Mariani.”

L’anno dopo il Mariani quale rappresentante di una “Commissione di Modena per la conservazione dei lavori pregevoli di Belle Arti” – collegata col Ministero delle Finanze? – si impegna a descrivere “gli oggetti artistici che trovansi negli edifizi delle soppresse famiglie religiose”:

“Nel Convento de Minori Riformati di San Francesco esiste una tavola alta circa un metro e lunga metri uno e centimetri cinquanta dipinta da ignoto Autore, credesi del declinare del secolo XIII, Il dipinto di maniera greca è dipinto in dodici quadri, nei quali scorgesi figura la Passione di Gesù Cristo. Non avvi troppa verità nelle movenze nelle movenze e quantunque siavi grande slancio, pur non è troppo squisito il gusto nel panneggiamento. Tuttavia se si fosse adoperata maggior diligenza nella parte anatomica, il suddetto lavoro sarebbe giudicato accreditatissimo, e inestimabile di prezzo. È conservato in ottimo stato.”

“Nel Coro esistono n.° Cinque Cantorini ovvero Libri corali in grossi volumi di pergamena ed otto in carta da pisto di Seta. Sono dettati in lingua latina scritti con carattere gotico, altri con carattere romano […] cotal libro ha la data di Firenze 1441 Fr. Maximianus fecit.”

“Sull’Altare maggiore è collocata una tavola rappresentante il Crocifisso. Opera credesi di Giovanni Santi, padre del divino pittore…”

A questo punto, considerata notevole per il mercato l’evocazione dei prezzi fatta dal Mariani, e non volendolo riprendere per le sue misure ad occhio, le attribuzioni strampalate e la cronologia – pure la prima datazione dei dossali non era propri sbagliata – riprendiamo il libro di Sebastiano Menghi là dove parla dei dossali, il brano riprodotto da Massimo Medica, pp.53 e ss.:

“…una tavola antichissima divisa in due parti, le quali prima del mal’inteso restauro della Chiesa, secondo quanto mi ha detto il ricordato altre volte frate Pacifico da Verucchio, erano fermate nel Santuario sopra le due portiere del Coro. A mio tempo però queste due parti non erano più divise ma erano posizionate unite assieme, entro n solo quadro con cristalli avanti e fissate in facciata avanti al muro laterale in cornu Evangelii. Questo quadro così unito doveva avere la larghezza di due metri abbondanti e l’altezza di 80 o 90 centimetri. Sembra proprio nella forma di un vero pagliotto da altare. Il detto quadro era dipinto su legno, con fondo in oro, diviso in tanti piccoli quadretti i quali rappresentavano vari atti della vita di Nostro Signore, e specialmente quelli della sua dolorosissima Passione.”

Padre Menghi descrive due momenti della presenza dei dossali in chiesa: prima del 1842 separati sulle porte ai lati dell’altare e dopo quella data circa nel 1858 quando i due dossali ricoperti di cristalli furono inseriti nella parete vista a sinistra del presbiterio ristrutturato. Descrive anche il tentativo di sottrarre i dossali alla requisizione del 1866 e poi, dopo il 1868 la loro vendita da parte della famiglia Zanni.
Ma le cose si complicano perché prima del 1842, stando ai ricordi di frate Pacifico da Verucchio, sopra l’altare c’era “una Tribuna di legno” una specie di iconostasi che arrivava fino al soffitto e fin quasi a toccare i lati delle pareti del presbiterio.
Su questa tribuna, sopra le porte laterali dovevano essere stati collocati i due dossali e in altro momento le statue dei santi francescani, ma ancora visibile nel 1877 anche un’altra tavola medievale, interessantissima, che viene descritta dal Mariani.

ARIIODANTE MARIANI “OGGETTI D’ARTE IN VERUCCHIO 1877″

Nella descrizione degli oggetti d’arte della chiesa di Villa stesa da Ariodante Mariani nel 1877, quando ormai i dossali se ne erano andati, si rimane colpiti da quello che descrive sull’altare maggiore:

“All’altare maggiore una tavola rappresentante il Redentore Crocifisso alla destra la divin Madre, al manco lato San Giovanni. In alto il titolo in caratteri greci e il fondo della tavola con disegno a forma di meandri nelle due bande laterali del mezzo di essa tavola. Potrebbe giudicarsi opera di Simone da Bologna, detto comunemente da Crocifissi perocchè in queste sacre immagini prevalse; e mi pare si possa a lui attribuire la tavola su descritta non veggendo trascurato il nudo e trovando pietosissimo il viso del Redentore: doti speciali del Simone che appartiene alla scuola greco-toscana […] destinare del secolo di Giotto lo stile secco e pel colorito, così per gli ornamenti e per le cose accessorie…”

Siamo di fronte quasi certamente alla parte centrale dei due dossali indovinata da Carlo Volpe nella sua strepitosa opera del 1965 La pittura riminese del Trecento, p. 63, nn.80 e 81.
Da dove salta fuori? È la tavola già descritta e attribuita a Giovanni Santi? Certo che la chiesa e il convento di Villa dovevano nascondere tesori mai inventariati. Dobbiamo allora prendere tutti gli inventari sopra elencati con molta prudenza.

 

IL CROCIFISSO DELLA CHIESA DI VILLA DEL ‘200

Il già citato testo sulla situazione di Chiesa e Convento di Villa Verucchio nel 1579 del padre Malazappi continua:

“Et nel Refettorio è uno Crocifisso dipinto alla greca conficato con quattro chiodi, di molto divoto, quale anco er nel detto Convento nel tempo di San Francesco…”

E il padre Flaminio da Parma ci informa:

“Conservasi bensì nel prospetto del Refettorio un Crocifisso assai antico in Croce di legno, per cui certamente si eccita negli spettatori vera devozione; e nel confessarne l’antichità di più Secoli non oso però francamente affermare, che da questa Santa Immagine sensibilmente parlasse il Signore nostro Gesù al Serafico S. Francesco.”

E chi scrive, “francamente”, non si sente di illustrare nemmeno a grandi linee la più schizofrenica storia di un’opera d’arte che conosca. Su questo Crocifisso, esistente poco visibile nell’abside della chiesa di Santa Croce di Villa Verucchio, è stato scritto tutto e il contrario di tutto.
Anni fa il padre Guardiano Mauro Galesini ebbe la cortesia di farmi leggere un breve ma denso studio di Daniele Leoni, a quanto ne so inedito, e una “Scheda di indagini diagnostiche” a cura dell’Opificio delle pietre dure e laboratorio di restauro di Firenze del 29 maggio 2006.
Autorevoli soggetti hanno avanzato l’ipotesi di un’indagine risolutiva da attuarsi in questa occasione di restauri.

L’AFFRESCO DELLA CROCIFISSIONE

Un’altra opera d’arte del Trecento riminese, fortunatamente ancora esistente sul muro a sinistra di chi guarda entrando nella chiesa, è stata oggetto di pareri discordi dei critici, ed è la grande Crocifissione. Bella o brutta, tarda o dei primi tempi, riminese o giottesca, giottesca e riminese.
A mio avviso, Massimo Medica – L’insediamento francescano di Villa Verucchio, note sulla provenienza del dossale Corvisieri e su un modello giottesco per la Romagna, 2008 – ha avanzato ipotesi critiche e cronologiche convincenti, individuando la fonte di ispirazione della composizione in una Crocifissione di Giotto nella chiesa del Santo a Padova. Sembra accettabile che si tratti di un’opera dei primi tempi della scuola riminese, vicina al momento della presenza del grande maestro fiorentino a Rimini e in Romagna.

LA VISITA NELLA CHIESA DI VILLA DI GIOVANNI BATTISTA CAVALCASELLE E DI JOSEPH ARCHER CROWE NELLA CHIESA DI VILLA VERUCCHIO NEL 1885

Il Cavalcaselle e il suo amico inglese vennero a Rimini e abbozzarono la storia e la geografia della scuola pittorica riminese del ‘300 mettendo insieme tutti i dipinti con lo stesso linguaggio da Treviso a Tolentino partendo dall’abbazia di Pomposa. Furono anche a verucchio e a Villa nel loro A new History of Painting in Italy from the second to the sixteenth Century troviamo anche una descrizione articolata della Crocifissione affrescata della chiesa di Villa.
La grande critica nazionale e internazionale si era impossessata della pittura riminese del ‘300 e presto i nostri fondi oro sarebbero finiti nelle collezioni private e nei musei di tutto il mondo.

L’AFFRESCO NELLA LUNETTA DEL PORTALE DELLA CHIESA DI VILLA VERUCCHIO

“Un affresco rappresentante frate Francesco con frate Keine. La porta è di stile gotico, e le colonne e l’arco sono condotti con tale precisione e bontà di linee che è una maraviglia. L’affresco è nello spazio dell’Arco chiuso dall’architrave Da un gran chiarore di viva luce apparisce al Serafico il Redentore per una Croce bianco aerea. Il Santo assorto com’è nel divino amore. Col ginocchio a terra e aperte le braccia, riceve le stimmate. A sinistra è frate Leone con le mani giunte, il quale medita e ammira l’enfatico Padre. Ben disposa la prospettiva del Cenobio, intonato il Monte col campo dell’aria, Bella composizione. L’iscrizione a destra del risguardante suìice che Gianfrancesco Guerrier da Fossombrone, quegli che superò Michelangelo da Caravaggio e pinse più attenendosi allo stile del Guercino, ch’alcuna volta felicemente emulò, fece quell’affresco nel 1634”
A. Marianni, 273/59, p.19. Giuseppe Pecci in Cenni cit. descrive questo affresco nel 1926 come illeggibile.

UN AMPIO CAMPO D’INDAGINE DA ESPLORARE

Nel 1825 il governo pontificio creò la Commissione centrale delle Legazioni, detta “dei residui”,
con sede a Bologna, in cui furono concentrate le funzioni e gli archivi dei precedenti istituti che si
occupavano dei beni nazionali; tali archivi sono attualmente conservati nell’Archivio di Stato di
Bologna, Amministrazione Demaniale dei Beni Nazionali (1798-1877), Agenzia dei Beni Nazionali
e Sub-economato (1798-1815) poi Direzione del Demanio e diritti uniti (1805-1814), poi
Amministrazione dei Beni ecclesiastici e camerali (1815-1825). A noi interessano gli atti del
Dipartimento del Rubicone e della successiva provincia forlivese. E rimangono da esplorare gli
archivi centrali di Milano e di Roma. Buon lavoro.

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