L’oro di Giovanni: una mostra  piccola, grandiosa, riminese ed europea

L’oro di Giovanni: una mostra piccola, grandiosa, riminese ed europea

Giovanni da Rimini è uno dei protagonisti della grande arte europea “orientale” della fine del Duecento, che si apre nei primi decenni del Trecento alle novità giottesche. Le sue opere sono nei musei dell'Europa e degli States. Tutto quello che c'è da sapere sulla esposizione di palazzo Buonadrata. Compreso l'artefice del salvataggio del crocifisso attaccato dai tarli.

In palazzo Buonadrata la Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini ha inaugurato una mostra piccola, grandissima, riminese, ‘europea’, di quattro crocifissi su legno di Giovanni da Rimini (notizie 1292-1316), con il Crocifisso “Spina” dal nome degli ultimi proprietari, oggi di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, attribuito a un “Maestro di Montefiore”, e con un frammento di volto proveniente da un Crocifisso distrutto, attribuito a Giuliano da Rimini, anche questo di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.
A parere di Daniele Benati questa mostra integra idealmente la mostra dedicata a Giovanni da Rimini a Londra nel 2017.

OPERE DI GIOVANNI DA RIMINI, DI GIULIANO E DEL MAESTRO DI MONTEFIORE

Perché “piccola”?
Perché sono in mostra solo sei pezzi, quattro di Giovanni, uno di Giuliano e uno del c.d. Maestro di Montefiore, e sono: il Crocifisso Diotallevi, che Michelangelo Diotallevi all’inizio dell’800 ebbe insieme alla chiesa parrocchiale di Santa Croce attaccata al suo palazzo in via Tempio Malatestiano, documentato nelle visite parrocchiali dal ‘500 dapprima descritto sull’altare e poi su un muro della sagrestia, nel ‘900 donato al Comune da Adauto Diotallevi l’ultimo della casa; la Croce dipinta decurtata della Moretti Gallery di Londra – proprietà di un privato e quindi destinata a sparire dalle sale pubbliche, da vedere e memorizzare bene finché si è in tempo; lo spettacolare e sfortunato Crocifisso di Mercatello sul Metauro, che ebbe il destino di trovarsi a Firenze, in un bottegone di restauro posto a pian terreno il 4 novembre 1966; seguirono anni di restauri e quando finalmente fu rimesso nella sua chiesa venne attaccato da una famiglia di tarli che lo riempirono di gallerie e fori.

I fori provocati dai tarli nello scatto di Gilberto Urbinati.

IL SALVATAGGIO DEL CROCIFISSO DI MERCATELLO AD OPERA DI GILBERTO URBINATI

Fu salvato perché il riminese Gilberto Urbinati, che stava fotografandolo al meglio dell’arte con adeguati apparecchi, si accorse dei buchi e della segatura che i tarli facevano cadere sulle sporgenze della croce. Grazie Gilberto, ti dobbiamo la salvezza di questo miracolo dell’arte riminese ed europea, che malgrado le disavventure ci è arrivata sostanzialmente intatta compresa la datazione – 1309 o 1314 – e la firma del pittore.
Opera tarda, infine, meno elegante e di forme più ‘povere’ ma ‘robuste’, il Crocifisso custodito nella parrocchiale di Talamello.

GIOVANNI DA RIMINI UN GRANDE PITTORE RIMINESE EUROPEO DELL’EST

Perché “grandissima, riminese, europea”?
Perché Giovanni da Rimini è uno dei protagonisti della grande arte europea “orientale” della fine del Duecento, che si apre nei primi decenni del Trecento alle novità giottesche. Le sue opere sono nei musei dell’Europa e degli States.
E’ una delle eccellenze culturali della Rimini storica e artistica, ben note al grande pubblico culturale dell’Europa e degli States, ma anche del Giappone e di altri stati in cui la cultura dell’Occidente è apprezzata, per il quale Rimini non significa spiagge e movida.
Parlo dell’Europa storica, allargata alla Russia e alla Turchia in un momento culturale di grande vitalità che vedeva fiorire contemporaneamente diversi linguaggi artistici dal “rinnovamento classico macedone” dell’impero bizantino dei Paleologi, che si manifestò nella capitale dell’impero, in Grecia, in Serbia, nell’Italia meridionale normanna, in Toscana, e da noi sulle coste orientali dell’Adriatico. Nel Duecento nell’Europa occidentale il classicismo di origine romanica si era svolto rapidamente già da un secolo nel gotico delle cattedrali francesi, tedesche, inglesi, e in Italia nelle fioriture ancora più classiche del romanico toscano, nelle sculture dell’Emilia e della Romagna. Ma contemporaneamente nell’Europa dell’est, una rinascita bizantina da Costantinopoli si protendeva nella Serbia e nell’Adriatico a Venezia a Rimini in Romagna; nell’Italia meridionale normanna e nei mosaici e nelle pitture toscane e oltre, in aree meridionali francesi. Componenti affini ma non uguali di classicismo animavano le diverse aree culturali europee. Sul classicismo del gotico delle cattedrali europee lo storico dell’arte bolognese Cesare Gnudi (1910-1981), ai cui scritti – L’arte gotica in Francia e in Italia Einaudi, Torino 1982 – mi attengo fedelmente, ha condotto indagini con originalità critica, analizzando la prospettiva di vitalità artistica plurima convergente, che fiorì alla fine del ‘200 e nei primi del ‘300 in Italia, aprendo le strade verso il grande Rinascimento del secolo XV.

UNA VIA SENZA SBOCCO: GRECI CONTRO LATINI

Ma Giotto non aveva mutato lo stile della pittura da “greco” in “latino”?
Lo dicono i Toscani Cennino Cennini (1370-1427) e Giorgio Vasari (1511-1574) con l’intento di marcarne la novità, ma questa dicotomia rigida che poi finisce per significare “greco” o bizantino astratto e morto e “latino” vivo, o anche ‘astratto’ il primo, contro la novità giottesca ‘realistica’, la sola viva. Dicotomie manichee false e ristrette che hanno chiuso Giotto dentro uno sgabuzzino, evitando di farci pensare a quanta vitalità d’arte stava fiorendo in Europa contemporaneamente a Giotto. Giotto era stato a Rimini – Vasari dice incontrato da Malatesta da Verucchio a Roma nell’anno santo – a dipingere per i Francescani e per i Domenicani – purtroppo la chiesa di questi ultimi è scomparsa –. Aveva trovato qui una famiglia di pittori, i “de pictoribus”, come ha scoperto Oreste Delucca: tre fratelli Giovanni, Giuliano e Zangolo, e un grande notaio miniatore, Neri. Certamente i Riminesi lo studiano, lo ammirano, cercano di assimilarlo, ma…almeno Giovanni, il più vecchio, ha già una formazione e una tradizione pittorica alla quale rimane fedele.

COSA HA IMPARATO GIOTTO A RIMINI

C’è di più, Giotto era come poi sarà Raffaello, fortemente interessato ai linguaggi pittorici che incontrava e desideroso di assimilarli; con la sua ben organizzata bottega di maestri ausiliari, a Rimini proprio per quest’incontro prepara un cambiamento di stile. I dettagli? Per esempio adotta negli affreschi di Padova l’abito delle donne della nuovissima corte dei Malatesta, un abito adriatico, di moda bizantina, presente anche a Venezia: nella veste la cintura stringe sotto il seno, che viene messo in bella vista, le donne sembrano tutte incinte ma anche eleganti come le antiche Ateniesi. E medita soprattutto sui colori di Giovanni e anche sui mosaici di Rimini e di Ravenna del V e del VI secolo – a Rimini in San Gregorio, ma forse anche qualcosa era rimasto della basilica di S. Stefano, nella cattedrale e forse in San Lorenzo sul Covignano -, poi procede avanti con le sue novità prerinascimentali spaziali, realistiche.
Ma la prima manifestazione del suo cambiamento è proprio nel Crocifisso che ha lasciato nella chiesa di San Francesco poi Tempio Malatestiano, oggi ahimè appeso in alto nel coro dove nessuno può più vederlo. Potrebbe essere persino una foto gigantesca, e l’originale venduto ai Cinesi, chi se ne accorgerebbe?
Paragonatelo con il primo dipinto di Giotto per la chiesa domenicana di Santa Maria Novella ispirato da una scultura di Giovanni Pisano; il dipinto di Rimini piuttosto sembra ispirarsi ad un crocifisso abbastanza simile a quello dipinto da Pietro Cavallini (1250-1280) in San Domenico Maggiore di Napoli.

GIOVANNI HA VISTO LE PITTURE ROMANE DI CAVALLINI

Giovanni de pictoribus conosceva il Cavallini, lo dicono certi dettagli, proprio nel volto del Cristo Pantocratore di Mercatello: certi baffetti spioventi, la piccola bocca e gli occhi richiamano subito alla mente il volto del Redentore dipinto da Pietro Cavallini, il maestro romano del Giudizio Universale del monastero femminile di Trastevere.

FEDERICO ZERI: I CONTINENTI SCOMPARSI DELLA PITTUTA EUROPEA E ITALIANA

Quelli che hanno la mia età ricordano le lezioni reiterate di Federico Zeri qui a Rimini, quando parlava dei grandi continenti scomparsi della pittura italiana ed europea, la scuola romana del ‘200, interi secoli di pittura in Inghilterra e in Germania e nei paesi riformati cancellati dalle folle inferocite e imbarbarite della Riforma. E si sforzava di dirci che nelle sintesi generali questi vuoti non vengono presi in esame come dovrebbero. Le pitture della scuola romana del ‘200 non sono state distrutte ma non vengono considerate appieno dai critici, per esempio in relazione alla ‘scuola di Rimini’, eclissata dalla presenza di Giotto. Zeri, ci diceva, aveva scritto un’opera sul trecento riminese, ma poi, per ragioni misteriose, l’aveva distrutta. Ci diceva che le figure di Giuliano de pictoribus, lungi dall’essere semplici derivazioni in tono minore delle composizioni di Giotto, e del fratello Giovanni, erano elegantissime come opere tagliate nella carta velina da un artista giapponese.

CESARE GNUDI: I PRECEDENTI EUROPEI DI GIOTTO

E poi Giotto non è una meteora che arriva luminosa dal buio profondo. Il suo classicismo, il suo realismo ha dei precedenti nelle sculture delle cattedrali francesi e tedesche; li ha cercati e trovati, fotografati e studiati Cesare Gnudi, che ha avanzato la congettura di un viaggio in Europa dei giovani Giovanni Pisano (1250-1315) e Giotto (1265 c.-1337), per spiegare quei volumi, quelle pieghe di panni, quelle espressioni patetiche dei volti dei maestri scultori delle cattedrali francesi e tedesche che anticipano ad unguem cioè fin nei dettagli, le figure di Giovanni Pisano e di Giotto. L’Europa, il nostro orizzonte culturale, l’orizzonte di Rimini.

Giovanni Carlo Federico Villa in occasione della inaugurazione della mostra allestita a palazzo Buonadrata è stato premiato dal presidente della Fondazione Carim, Mauro Ioli, con la targa in memoria di Enzo Pruccoli.

DANIELE BENATI TRA BIVIO E AMMIRAZIONE

Giovanni da Rimini è un pittore bizantino, come Ciambue, Duccio, Paolo Veneziano, i mosaicisti siciliani; sia chiaro che questi maestri non sono solo connotati dal linguaggio di fondo che hanno adottato, sono dei creatori che hanno deciso modifiche ed evoluzioni dei loro linguaggi. Per Giovanni è quello che afferma in una ricca e dettagliata indagine, il critico d’arte bolognese Daniele Benati, anche se il titolo del suo saggio Giovanni da Rimini un pittore al bivio nel catalogo della mostra L’oro di Giovanni, sembra promettere una prospettiva con una sola stradina toscana senza sbocco. Giovanni, scrive Benati, doveva avere già una sua formazione “orientale”, viva almeno dalla fine degli anni ’80 del ‘200, quando incontrò Giotto e ne adottò i volumi delle figure, le forme delle croci e del Martire, come Giotto aveva dipinto per la chiesa di San Francesco, ma non passivamente, non senza valutarne l’impatto con la cultura che possedeva:

“Sono le sue prime convinzioni a fornirgli un metro di giudizio col quale valutare la portata del linguaggio che andava via via abbracciando; ed è in questa capacità di soppesare le varie opzioni aperte dalla pittura coeva e di scegliere a ragion veduta quella che gli appariva più convincente, che risiede, in definitiva la grandezza di Giovanni…”

In parole poverissime: Giovanni è un pittore bizantino aperto alle novità giottesche che assimila senza traumi; significa che il nostro riminese partecipa di quella grande cultura dell’Europa dell’occidente ma anche dell’Europa orientale che è ben viva ai suoi tempi e vivrà ancora nei mosaici del matroneo di Santa Sofia e nel volto di Cristo del pittore russo e santo ortodosso Andrej Rublev (1360-1430), che hanno nei volti venerati la stessa piccola bocca e i baffetti spioventi del Cristo Pantocratore di Giovanni.

MAURIZIO BONICATTI E I LONGHIANI BOLOGNESI

Con questa definizione bizantina ‘viva’ e non astratta o defunta è resa giustizia anche al romano Maurizio Bonicatti (1931), storico dell’arte medievale, psicoanalista e professore di critica psicoanalitica alla Sapienza, che nel 1963 ha pubblicato Trecentisti riminesi. Sulla formazione della pittura riminese del trecento. Con una strampalata tesi di laurea su uno studioso bizantino francese dell’800 Charles Dihel, che giustamente aveva irritato Ezio Raimondi, ma il mio relatore Luciano Anceschi lasciava fare ai suoi allievi quello che volevano a loro rischio e pericolo, stimolato dai commenti di Francesco Arcangeli sul libro di Carlo Volpe La pittura riminese del ‘300 appena uscito nel 1965, che mi aveva detto meraviglie sul colore come di pesche, albicocche e susine dei pittori di Rimini, mezzo secolo fa sono approdato qui per una cattedra di storia e filosofia al Liceo Serpieri, con dopolavoro di storico dell’architettura, con futuri successi portoghesi, e fatalmente col presente di un invadente ‘riminista’, vidi in una bancarella il libro di Bonicatti che mi colpì perché aveva trovato i precedenti iconografici bizantini della Madonna col Bambino di Faenza paragonandola alla Vzigranie il bambino che accarezza la madre, conservata all’Hermitage di Leningrado come allora si chiamava San Pietroburgo. Carlo Volpe, una gioia leggere e studiare il suo libro, non aveva però l’apertura europea di Cesaree Gnudi, ma nemmeno leggeva le opere riminesi come fossero le creature del dottor Frankenstein: giottesco vivo / bizantino morto. Le generazioni di longhiani – Roberto Longhi (1890-1970) aveva insegnato a Bologna nel 1935-1937; non amava il Duecento, ma su Giovanni da Rimini aveva espresso un giudizio appassionato:

“Qualche cosa di arcano, di esoterico, di gravemente liturgico nei gesti, che si richiama invincibilmente alla tradizione dei solenni mosaici bizantini” della vicina Ravenna, una tradizione “che non esclude, anzi stimola, la vibrazione profonda del colore…”

I longhiani hanno tenuto fin quasi ad oggi la Sovrintendenza alle Gallerie e le cattedre universitarie di Bologna, con differenze di capacità critica.
Tra gli ultimi longhiani bolognesi, Daniele Benati, che ha curato la grande mostra della pittura riminese del Trecento a Rimini nel 1995 e ha altri contributi, ha curato la mostra L’oro di Giovanni.

LA PRESENTAZIONE DEL PRESIDENTE MAURO IOLI

Il saggio del Benati è preceduto dai saggi di Natalino Valentini, di Andrea Giovanardi e dalla presentazione del Presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio di Rimini Mauro Ioli a garanzia della continuità dell’impegno di molti decenni della Fondazione per la conservazione e la valorizzazione del Patrimonio culturale della nostra città.

NATALINO VALENTINI E L’OPERA DI PAVEL FLORENSKIJ

Apre il testo un saggio di Natalino Valentini, Lo sguardo ad Oriente tra iconografia e liturgia, che ha introdotto da noi l’opera di Pavel Florenskij (1888-1937), sacerdote e filosofo russo che vede nell’icona la porta per uscire dalla realtà fenomenica ed entrare nel mondo della luce. L’oro, la luce di Dio, che appare nell’Apocalisse quando gli angeli arrotolano come un tappeto l’apparenza fenomenica del mondo, ha dato il titolo alla mostra – l’oro di Giovanni -. La chiave per comprendere la realtà, oggi come al tempo di Giovanni, del Dio che si incarna e dell’uomo che mediante l’Eucarestia s’indìa – per usare una parola di Dante -, è per Natalino, come per Alessandro, il grande fine della storia. L’accostarsi ai Crocifissi di Giovanni ha un valore creativo intrecciato a un’esperienza religiosa. A un quasi agnostico come chi scrive, dovrà bastare la creatività estetica. Vorrei raccomandare a Natalino di non trascurare i Domenicani. Da qualche parte nella mia memoria dev’essersi conservata la citazione di un testo del padre domenicano Venturino Alce (1919-1989) – forse la sua tesi di laurea -, che citava un pensiero di Tommaso D’Aquino sulla necessità di raffigurarsi Cristo sulla croce non solo contratto dalla sofferenza, ma perché la sua natura divina sapeva di stare compiendo il sacrificio di Redenzione, il suo volto era anche sereno. Sulla base di questa riflessione teologica si sarebbe attuato il passaggio dal Cristo patiens al Cristo dal volto composto nei tratti di Giotto e dei Riminesi.

ALESSANDRO GIOVANARDI: LITURGIA, TEOLOGIA E ARTE

Non si può riassumere il testo di Alessandro Giovanardi, così minuzioso e coerente sull’uso liturgico dell’arte, sulle giustificazioni teologiche di quest’uso, che certamente ricreano fin nei minuti dettagli la mentalità dei pittori medievali, del loro pubblico e della loro committenza. Ci sono delle verità simboliche certamente da considerarsi dettagli concreti storici illuminanti, come la spiegazione sua del tappeto che appare dietro al corpo di Cristo nei tabelloni dei Crocifissi come la riproduzione del velo del Tempio che copriva l’ingresso del sancta sanctorum che si lacerò al momento della morte di Cristo. Ma questa sua umanità cristiana non sarà troppo perfetta? Mi vengono in mente i noti versi di Dante, Purgatorio XI vv. 94-99 – ma anche tutto l’Inferno -:

Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno al l’altro Guido
la gloria de la lingua, e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.

Certo questi ‘narcisismi’ sono “la vana gloria de l’umane posse”, e quella metafora militare “tener lo campo” è inquietante, ma quest’umanità imperfetta mi sembra più vicina alla mia.

I SAGGI DI TOMMASO CASTALDI E DI FABIO MASSACCESI

Il primo, La Croce di Giovanni da Rimini a Mercatello sul Metauro: una storia di difficile conservazione, ripercorre la ben avventurata storia dei traumi e dei restauri e il secondo, Dall’Europa a Rimini, per uno sguardo su alcune funzioni spaziali nelle Croci dipinte, riguarda ben di più di quello che promette il titolo, un’indagine sulle posizioni delle Croci nelle chiese, è una interessante e nuova indagine di storia dell’architettura, molto interessante per Rimini.

INCONTRI RAVVICINATI

Nella mostra c’è un servizio di visite guidate. Ma se volete un incontro ravvicinato con Giovanni de
pictoribus
e siete credenti, allora vi consiglio di leggere attentamente gli scritti di Natalino Valentini
e di Alessandro Giovanardi, mettetevi davanti al Crocifisso di Mercatello e iniziate l’incontro per
attraversare la Porta. Se siete un agnostico come chi scrive ma vi interessa un’esperienza di
creatività estetica non disgiunta dalla storia e dalle credenze religiose, e se volete che il vostro
immaginario e simbolico si incontrino con quelli di Giovanni, allora, quando non c’è calca o non
disturbano altre interferenze, scegliete per cominciare un dettaglio significativo che vi ha colpito,
per esempio gli occhi un poco tristi del Cristo Pantocratore in cima al Crocefisso, immaginate che
siano quelli di Giovanni detto anche “Zagnono” Giovannone in dialetto, che vi guardano e nello
stesso tempo gli occhi di Dio nel suo aspetto umano come lui poteva immaginarlo – capisco che se
siete di fede islamica la cosa vi turbi – tuttavia questa è pur sempre la raffigurazione antropomorfa
dell’essere di cui nulla di più grande si può pensare e rappresentare per un pittore medievale e forse
ancora per noi – in senso mentale o trascendentale -. Giovanni aveva dei modelli dei contemporanei
e della tradizione dell’arte, se avete delle conoscenze pittoriche ve ne accorgete, li trovate, ma è pur
sempre un inizio…Se ritornate dopo avere letto il catalogo, magari avete un elenco dei dettagli così
bene isolati e descritti da Benati da ripercorrere.

Per visitare la mostra e seguire le conferenze

Sede mostra: Palazzo Buonadrata, Corso d’Augusto 62 Rimini
Periodo: dal 18 settembre al 7 novembre 2021
Orario: tutti i giorni dalle 10.30 alle 18.30
Ingresso gratuito previa esibizione del Green Pass
Visite guidate: gratuite, massimo 15 persone, ogni giorno alle 16.00 e alle 17.00. Nei giorni festivi visite guidate alle 11.00, alle 16.00 e alle 17.00 previa prenotazione (www.artecultura-fondcarim.it – 0541.351611).
Posti disponibili fino ad esaurimento nel rispetto delle normative anti Covid.
Nella sede di mostra sarà consentita la presenza massima di 30 persone.
Bookshop: catalogo in vendita al prezzo ‘speciale mostra’ di 25 euro.
Disponibili anche le pubblicazioni realizzate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini sul Trecento e il Rinascimento a Rimini.
Anche un ciclo di conferenze affianca la mostra. Dopo la prima, che si è tenuta oggi, che ha visto il Prof. Daniele Benati soffermarsi su “Giovanni da Rimini: un pittore al bivio”, la prossima è in programma venerdì 22 ottobre: Alessandro Giovanardi, curatore della mostra con Daniele Benati, interviene su “A Oriente di Rimini. Giovanni e la pittura bizantina”. Venerdì 29 ottobre nel salone di Palazzo Buonadrata si potrà infine ascoltare Flavio Cuniberto, dell’Università di Perugia: “La Croce e la Gloria. Francescanesimo e pittura del Trecento”.

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