“Non credo che Fellini amasse Rimini, di certo non voleva farsi strumentalizzare a fini turistici”

“Non credo che Fellini amasse Rimini, di certo non voleva farsi strumentalizzare a fini turistici”

Parla Edda Tonini Montemaggi, corrispondente per "La Stampa" da Rimini dal 1960 all'89

Ha svelato in anteprima personaggi e contenuti di "Amarcord", provocando l'ira di Federico Fellini. Anche perché nella intervista che fece vuotare il sacco all'avvocato Luigi Benzi sulla attesa pellicola, Titta non era stato tenero col Maestro ("Federico è un complessato"). Ma qui la giornalista parla anche dei rapporti fra il "geniale bugiardo" e la città: "Rimini e i personaggi della sua adolescenza gli servivano solo come fonte di ispirazione per i suoi film".

Lo scoop su “Amarcord” è stato il suo. Uscì sulla Stampa il 9 giugno 1973. “Fu molto apprezzato da Arrigo Levi che mi fece trasmettere i suoi complimenti”. Levi era all’epoca il direttore del quotidiano torinese, fra l’altro fresco di nomina. L’autrice, Edda Tonini Montemaggi, lo ricorda bene quell’articolo, anche se di anni ne sono trascorsi parecchi.
“In quel 1973 a Rimini si parlava molto di Fellini e di “Amarcord” (il film uscì proprio nel dicembre di quell’anno, ndr) e si cercavano collegamenti fra i personaggi felliniani ed i corrispondenti tipi riminesi. Avevo scritto un primo articolo, pubblicato il 26 aprile del 1973, su Gradisca. Poi ebbi l’occasione di incontrare l’avvocato Benzi, amico di mio marito, che raccontò di essere stato a Roma da Federico il quale gli aveva chiesto di interpretare la parte del padre di Titta. Gli chiesi allora un’intervista che mi accordò il 3 maggio”. Il marito è un altro nome noto del giornalismo riminese, Amedeo Montemaggi, a lungo a capo della redazione locale del Resto del Carlino. E così Edda Montemaggi (collaboratrice della Stampa dal 1960, corrispondente dal 1970 e fino al 1989, spaziando dalla cronaca della Romagna, di San Marino e di parte delle Marche) fece il colpaccio.

In questa foto degli anni ’70, Edda Montemaggi con Bruno Marchiaro, caposervizio delle cronache italiane della Stampa di Torino

“Amarcord di Fellini sono io”: l’intervista a Luigi Benzi comparve con questo titolo e con un occhiello di richiamo: “Parla l’amico che ha ispirato il soggetto del film”. Spiegava anche la sua decisione di non prendere parte al film: “Non mi fido di Federico. E’ un genio, ma non voglio capitare nelle sue mani”. Il film era ancora avvolto dal mistero e quindi Benzi ruppe le uova nel paniere.
Raccontava l’avvocato: “Senti, Grosso – mi ha detto Federico – recita con me. Se vuoi sono disposto a cambiare anche il nome di Titta. Vieni a Roma. Ti darò la parte di tuo padre Ferruccio. Ho provato Nereo Rocco, ma non andava. Vieni tu, a interpretare tuo padre. La tua faccia diventerà la più famosa del mondo. Che cosa stai a fare a Rimini? Perché perdi il tempo a difendere quattro ladri di galline? Che soddisfazioni hai, anche se ti sei fatto una villa a Covignano?”.
Ma Benzi non si fece conquistare e rispose al Maestro: “No, Federico. Ti conosco troppo bene e non mi freghi”.

Fra i due l’amicizia è stata grande. “A volte sento suonare il telefono, verso le 2 o le 3 di notte, mi sveglio, smoccolo, poi afferro il ricevitore e sento quella voce fessa: Dormi, Grosso?”. E’ Fellini che butta giù dal letto Titta Benzi. E lui: “Dormivo, pataca. M’hai svegliato adesso. Dove sei?”. E Federico: “Sono solo, a Bologna, alla stazione. Ho voglia di fare quattro chiacchiere con te. Ti aspetto”. E l’amico da Rimini saliva sull’auto e andava a Bologna. Agli appuntamenti notturni ci è sempre andato, ma di diventare un personaggio dei suoi film non ne ha mai voluto sapere. Perché mai?, gli chiese Edda Montemaggi? “Federico è un complessato. Da ragazzo aveva il complesso della magrezza. Noi lo chiamavamo Gandhi e lui non si metteva mai in costume. Aveva il complesso del sesso, come me d’altronde, e quando passava la Gradisca sul Corso d’Augusto noi stavamo incollati alle vetrine e pensavamo che quello era il “sesso” (quando dico a Federico che lui è ancora prigioniero di quelle inibizioni sessuali si arrabbia, ma è vero). Oggi lui ha il complesso di sfottere il mondo e soprattutto le persone importanti, magari capi di governo, principi della Chiesa, grandi attori e pseudo intellettuali… E talvolta non s’accorge di spingere troppo sull’acceleratore. E non perché sia cattivo, ma perché non sa resistere a se stesso. Ed io non voglio capitare nelle sue mani. So benissimo che quando “Amarcord” sarà proiettato a Rimini, dovrò andarmene dalla città, almeno per una quindicina di giorni, con tutta la mia famiglia, aspettando che le acque si decantino”. Uno tosto Luigi Benzi, molto libero nei giudizi, anche davanti al mostro sacro del cinema. L’intervista fu una bomba anche per questo, ma soprattutto perché Titta aveva già letto la sceneggiatura di Amarcord e svelò particolari inediti. “Gli episodi del film, che Federico estrae dalla sua memoria, sono episodi accaduti a noi due. Io e Federico siamo stati amici inseparabili alle elementari, al ginnasio, al liceo. I personaggi sono nostri amici e conoscenze. La vicenda si svolgerà fra una decina di persone (e Benzi fece nomi e cognomi, ndr) nella Rimini dell’inverno 1928-29. I nomi delle strade sono quelli dei nostri compagni di scuola”.

Cosa accadde dopo la pubblicazione delle rivelazioni di Titta Benzi? “Avere messo in pagina la trama del film, che come al solito era segreta, provocò l’ira di Fellini verso Benzi e verso il giornale, che incaricò subito il critico cinematografico Stefano Reggiani di fare una controintervista”, risponde Edda Montemaggi. Quando uscì? “Il 24 giugno 1973, col titolo “Il Bel Paese secondo Fellini”. Fu in quella intervista che Fellini, geniale bugiardo, arrivò provocatoriamente a dire di non essere neppure romagnolo!”

Ma lei ha mai incontrato Fellini? “Sì, ad una cena al Grand Hotel, il 16 marzo 1968 in occasione della presentazione del libro “La mia Rimini” edito da Cappelli nel 1967. Gli feci alcune domande su “Giulietta degli Spiriti” e le figure femminili del film. Mi rispose con dolcezza e mi fece una simpatica dedica sul menù. Era con Leopoldo Trieste, seduto vicino a me a cena, il quale mi raccontò che Fellini l’aveva portato con sé per avere compagnia in macchina. Una seconda volta lo vidi sempre al Grand Hotel nel 1973 quando cercava doppiatori riminesi per “Amarcord”. Anche in quel caso ad una cena, non ricordo se del Lyons o del Rotary, in cui il relatore era Gianni Castellano, capo-province e critico cinematografico del Carlino. Al momento dell’aperitivo nella hall apparve Fellini. Nell’indifferenza dei presenti l’unico ad avvicinarlo ed a parlargli fu Castellano. Questo fu l’atteggiamento dei riminesi nei confronti di Fellini per diversi anni, credo ricambiato dal regista”.

Cosa pensa del controverso rapporto fra la città di Rimini e Fellini? Lei scrive in un articolo dell’11 luglio 1973 che quella sorta di rinnegamento di un Dna riminese (“Io sono nato in Valle d’Aosta”) da parte del Maestro non fece alcuna impressione agli amici di Fellini, ma molti rimasero feriti. “Non credo che Fellini amasse Rimini e si sentisse “riminese”, ma soprattutto non voleva essere strumentalizzato e diventare un semplice testimonial turistico. Per questo in quegli anni rifiutò ogni approccio delle autorità istituzionali, a volte anche in modo sprezzante. Rimini e i personaggi della sua adolescenza gli servivano solo come fonte di ispirazione per i suoi film. Solo nel periodo della famosa “casa sul porto” nel 1983 accettò le celebrazioni organizzate da Guaraldi e Arpesella al Grand Hotel. Si riavvicinò alla sua città negli ultimi anni della sua vita, che qui ebbe termine nel 1993”.

Se dovesse descrivere la città di Rimini che lei ha raccontato da corrispondente di un importante quotidiano nazionale come lo farebbe? Quali erano i tratti della Rimini di allora, e come la vede cambiata oggi? “Nel ricordare la Rimini degli anni ’60 e ’70 sono condizionata da diversi fattori: ero giovane, avevo una bella famiglia, una vita sociale intensa e vivace, c’era il boom economico, microcriminalità e droga erano molto limitate, c’era ottimismo verso il futuro, la città si espandeva anche se in modo discutibile. Ma ci fu anche il ’68 con le manifestazioni contro l’aeroporto, con il lancio di uova contro il Carlino considerato il giornale dei padroni e con il cambiamento dei costumi e dei rapporti fra generazioni”.
E la Rimini di oggi? “Non mi piace molto: la mancanza di sicurezza, di educazione e di rispetto verso il prossimo, la crisi della famiglia, la droga e l’abuso di alcol condizionano il mio giudizio di vecchia signora. L’unica cosa buona che mi sentirei di sottolineare è la fine dell’immobilismo che per troppi anni ha contraddistinto la città. Gli interventi, più o meno discutibili, hanno migliorato l’aspetto del centro ed i giardini attorno al Castello, che a me non piacciono, hanno comunque tolto le macchine dal piazzale. Aspetto di vedere il Teatro!”

Oltre a quelli su Fellini, quali servizi ai quali ha lavorato in quegli anni ricorda meglio? “Quelli sull’Isola delle Rose e due trasferte: una a Urbino per il ritrovamento di quadri rubati, ed una a Santa Sofia per intervistare un bigamo seriale; ma anche il mazzo di fiori che mi inviò un capitano dei Carabinieri perché ritardando di un giorno la pubblicazione della notizia di un’operazione in corso permisi che si concludesse con successo”.

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