Nonostante l'impegno non onorato, assunto nel 1969 dal Comune di Rimini, di liberare l'area archeologica dell'anfiteatro, a partire dagli anni 80 è tutto un susseguirsi di richieste di nulla osta da parte dell'asilo italo-svizzero per interventi sulle baracche. La soprintendente Giovanna Montanari Bermond sbotta e chiede ulteriori garanzie all'amministrazione comunale, che risponde: «Nel nuovo strumento urbanistico sarà anche indicata l'area prevista». Ma la creatura di Margherita Zoebeli è ancora lì. Nuovi documenti.
Abbiamo visto cosa accadde fra il 1969 e il 1970. Messa alle strette dal ministero, l’amministrazione comunale si impegnava al trasferimento dell’asilo per consentire la piena valorizzazione dell’anfiteatro romano (qui). Ma anche in seguito le promesse non mancarono. Perché il Ceis ogni tanto, quando si presentava la necessità di mettere mano ai padiglioni, tornava alla carica e chiedeva le relative autorizzazioni.
Adesso vediamo come andarono le cose a partire dagli anni 80. Nell’agosto del 1982 arriva alla Soprintendenza archeologica dell’Emilia e della Romagna (13 settembre 1982) una nuova istanza del Ceis, questa volta per la soprelevazione di un padiglione.
Il soprintendente del tempo è la prof. Giovanna Montanari Bermond e così si rivolge (13.9.1982) all’assessore all’urbanistica del Comune di Rimini: «In relazione alla richiesta di cui all’oggetto non si ritiene opportuno concedere l’autorizzazione all’esecuzione di un intervento edilizio che oggettivamente non presenta caratteristiche di provvisorietà: ciò anche in considerazione della necessità di addivenire nei tempi più brevi ad un trasferimento del Centro Educativo in area più idonea, liberando finalmente il settore dell’anfiteatro romano attualmente occupato dagli immobili in oggetto. A tale riguardo si richiedono informazioni sugli intendimenti di codesta Amministrazione».
Nel 1986 (28 maggio) è lo stesso soprintendente a rifarsi vivo, questa volta direttamente con il sindaco (all’epoca Massimo Conti): fa presente ciò che nel Comune non sembrano proprio voler capire, e cioè che tutto il terreno sul quale sorge il Ceis «per la sua rilevantissima importanza archeologica sia da ritenersi vincolato ai sensi della Legge n. 1089 dell’1/6/1939». Argomenta che il Ceis si trova ancora in quel sito, nonostante fosse sorto «con carattere di assoluta precarietà» e nonostante codesta Amministrazione aveva più volte assunto l’impegno formale di provvedere al trasferimento in altra sede dell’intero complesso». Prosegue: «E’ ovvio come tale situazione, ormai protrattasi per troppo tempo, costituisca un limite insormontabile per la piena evidenziazione e valorizzazione dei resti dell’Anfiteatro, rara e importante testimonianza dell’architettura monumentale romana nell’Italia settentrionale, alla cui cura e manutenzione la Soprintendenza Archeologica si sta dedicando ormai da anni…». E così concludeva: «Pare quindi opportuno cogliere finalmente l’occasione per elaborare nuovi strumenti di programmazione che prevedano in tempi brevi di trasferire in più idonea località il Centro Educativo Italo-Svizzero, destinando l’area in oggetto al pubblico godimento, indispensabile premessa per la futura completa evidenziazione del monumento storico e per la sua piena valorizzazione».
Ma il Ceis, anziché preparare le valigie, nel 1991 torna a chiedere alla Soprintendenza un permesso per la manutenzione ordinaria e di consolidamento strutturale per dei padiglioni scolastici, «in attesa che il trasferimento di concretizzi».
E allora è la soprintendente Anna Maria Moretti Sgubini a rispondere (5 aprile 1991) e va alla radice del problema: «Pur consapevole delle alte finalità che si pongono a presupposto della iniziativa, onde evitare il perpetuarsi di interventi episodici e di soluzioni provvisorie che, nell’arco di svariati decenni, hanno ormai consolidato una situazione di fatto che non garantisce né la valorizzazione dell’importante monumento romano, né la piena funzionalità e lo sviluppo del sovrastante edificio scolastico, la Scrivente, prima di pronunciarsi sul caso specifico, ritiene opportuno pervenire ad un organico e costruttivo confronto fra tutte le parti in causa, compresa l’Amministrazione comunale di Rimini». Ribadendo che andranno comunque tenuti fermi «gli obblighi di tutela dell’anfiteatro romano imposti dal vincolo archeologico».
Il 19 giugno 1991 il direttore dei Musei comunali si rivolge alla Soprintendenza e assicura: «Nel nuovo strumento urbanistico sarà anche indicata l’area prevista per il trasferimento del Ceis».
La Soprintendenza prende atto dell’ennesima promessa: «ciò finalmente consentirà la piena tutela e valorizzazione dei ruderi del sottostante anfiteatro romano», e concede il nulla osta. Va detto che la Soprintendenza avrebbe ormai dovuto conoscere il “trucchetto” delle rassicurazioni che arrivavano da Rimini, e comportarsi di conseguenza. Invece continua ad autorizzare.
E continuano ad arrivare richieste di autorizzazione per lavori di manutenzione. Tanto che nel 1994 il soprintendente Pietro Giovanni Guzzo, «in considerazione del futuro trasferimento del Ceis, come sancito nella stessa stesura del Prg», sgancia un altro nulla osta.
Nel 1995 perviene alla soprintendenza la richiesta di «opere di sostituzione di copertura di edifici» e via con un altro nulla osta, pur ribadendo «la necessità di addivenire quanto prima al trasferimento in più idonea area dell’Istituto, consentendo il totale recupero e la valorizzazione dell’importante monumento archeologico tuttora interrato».
Stesso copione anche nel 1998, e la soprintendente Mirella Marini Calvani autorizza con la solita postilla: «Resta inteso che i lavori non dovranno comportare alcuna escavazione in profondità, onde non pregiudicare la consistenza dei resti architettonici romani tuttora interrati, per i quali si ribadisce la necessità di addivenire in futuro a soluzioni che ne consentano la piena valorizzazione». Sembra uno scherzo.
Volete sapere come andò nel 2001 oppure è facile intuirlo? Come in precedenza.
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