Rimini capitale della cultura? «Nel 2028 e partendo dal basso»: parla Davide Frisoni

Rimini capitale della cultura? «Nel 2028 e partendo dal basso»: parla Davide Frisoni

«Rimini non è ancora pronta per questa scommessa. Con un progetto affrettato si sta mettendo a rischio l'obiettivo anche per il futuro». È il pensiero del quotato artista che in passato ha ricoperto anche il ruolo di presidente della Commissione Cultura. «La Rimini odierna paga le conseguenze di una gestione statalista della cultura. Bisogna ripartire dalla vivacità che la città esprime». C'è spazio anche per riflettere su Astoria, Part, teatro Novelli. E su due eventi passati, emblematici: "Gradisca" e la biennale d'arte "Contemplazioni".

Il pittore riminese Davide Frisoni (nella foto) è stato presidente della Commissione Cultura, Turismo, Cooperazione e Sviluppo, Politiche Comunitarie, nella seconda giunta Gnassi, dal 2016 fino alle proprie dimissioni del 2020 per insanabili contrasti con il sindaco. Lo incontro nel suo atelier per un quadro. Non a me, ma al contesto in cui naviga la candidatura di Rimini a Capitale italiana della Cultura 2026. Ne scaturisce un ritratto dalle pennellate decise e dalle tinte piuttosto accese, come molti dei suoi dipinti.

Quando e come nasce l’idea di candidare Rimini?
«La prima volta che l’ex sindaco Andrea Gnassi propose il tema Rimini Capitale della Cultura, se ne parlò durante una seduta di maggioranza nel dicembre 2019. Era il momento in cui si stava decidendo sul museo Fellini, sul Part (Palazzi Arte Rimini; ndr) e su altri progetti che in quel momento erano tutti sul tavolo. Io intervengo così: “sono contento che Rimini punti a diventare capitale della cultura, ma c’è un percorso da fare, difficile e di lungo termine. Non basta realizzare il museo o i musei, perché noi stiamo passando da un museo che non funziona, a quattro o cinque che non sappiamo se poi daranno risultati”. Mi viene risposto che i musei devono funzionare a prescindere. Nel 2021 Rimini provò a candidarsi per il 2024 senza riuscirci… come volevasi dimostrare!».

Quando affermava “non funziona”, si riferiva al Museo della Città?
«Sì, e ne avevamo un altro che era chiuso da anni, il Museo degli Sguardi. Funzionava poco, quando si chiamava Dinz Rialto, ospitato in Castel Sismondo. Dopo il 2000 viene trasferito presso villa Alvarado (già museo missionario delle Grazie). Vengono unificate due collezioni storicamente molto importanti con la nuova denominazione di Museo degli Sguardi, ma sostanzialmente abbandonate a se stesse, relegate lontano da potenziali flussi di visitatori. Questo, all’epoca lo faccio presente a significare che prima di una candidatura così prestigiosa dobbiamo capire esattamente cosa serva veramente. Visto che a farne lavorare anche solo uno, abbiamo molte difficoltà, pensare di allestirne uno per ogni dito di una mano, come minimo richiede cautela e molto studio preventivo. Il punto non è avere molte sale museali, ma capire cosa devono proporre e se funzionano. Se invece non funzionano, indagare cosa cambiare per avere buone possibilità di attirare un numero interessante di visitatori. Se non si hanno le idee chiare in merito, credo sia un tentativo assai velleitario e molto costoso».

Cinque anni per costruire un percorso insieme alla città. «Se fissiamo l’obiettivo al 2028 e con un metodo adeguato, allora ce la giochiamo».

Chiudiamo definitivamente i libri?
«Non direi, ma avanzo la proposta di puntare al 2028. Da oggi a quella data avremo la possibilità di valutare se conviene farlo oppure no. Aggiungo un tema. Le vere capitali della cultura non sono quelle che vengono elette, ma sono i luoghi che ben conosciamo, che vivono di cultura e sulla cultura, come Roma, Firenze, Torino, Venezia e altre. Ne abbiamo a bizzeffe. Quindi, quando puntiamo a quel risultato, significa che siamo pronti ad accogliere non solo l’evento in sé, ma anche le persone che verranno da quel momento in poi. E che tipo di gente verrà? Quello culturale non è la nostra tipologia di turismo odierna. Chi gira per cultura, di norma è esigente e cerca hotel di un certo livello, non necessariamente tutti cinque stelle, ma dal tre stelle superiore in su. Questo perché il viaggiatore culturale generalmente può ed è disposto a spendere; per l’hotel, per mangiare, per entrare nei musei. Quindi, se deve comperare un biglietto d’ingresso al museo da venti euro, non prende paura. È proprio un altro tipo di pubblico. Siamo pronti per accoglierlo? Abbiamo le infrastrutture per farlo? Possono arrivare con un treno ad alta velocità o in aereo a Rimini? E con la barca o una nave turistica importante? Tutte queste domande, fatte nel 2020 hanno un’unica risposta ed è “no”.
E finora non è cambiato nulla. Per cui, se fissiamo l’obiettivo al 2028 e creiamo un percorso adeguato, allora già nel 2025 possiamo iniziare a dire che ce la giochiamo, altrimenti, purtroppo sarà un bagno di sangue».

Perché un bagno di sangue?
«Perché se nel 2026 non si ottiene l’investitura, la città che in qualche modo ha aiutato le istituzioni locali a costruire il progetto, le varie associazioni che hanno partecipato e contribuito e gli imprenditori che ora sono disposti a fornire del capitale, saranno disposti a rimetterci impegno e denari? È molto difficile, se non quasi impossibile, soprattutto per una città lenta nelle risposte, come la nostra. Inoltre, come appoggio politico, Rimini non è più così forte come quando ha presentato il progetto. Oggi, a mio modo di vedere, la più papabile sembra essere L’Aquila, molto più centrata di Rimini a livello politico nazionale. Dato che quattro anni fa il capoluogo abruzzese fu bocciato perché non presentò tutta la documentazione richiesta, se oggi si propone al meglio, forte anche di quell’esperienza negativa è più carica e motivata che mai e con vento politico favorevole in poppa, ha ottime possibilità. Invece, noi si arranca».

Inoltre, non sarà secondario il fattore di rinascita dopo il terribile terremoto del 2009.
«Certamente. Ci sono di mezzo vari buoni motivi perché vinca: i soldi messi dallo Stato per la ricostruzione; L’Aquila rinasce e diventa immediatamente Capitale della Cultura; rappresenta un importantissimo progetto di resurrezione morale e materiale. Cosa che quel popolo si meriterebbe pienamente per come è stato trattato in àmbito di tempi di ricostruzione post terremoto».

Patrimoni d’arte. «Arco di luce» di Davide Frisoni.

In pratica, il pronostico è a favore de L’Aquila?
«A prescindere da chi otterrà l’ambìto scettro, credo che Rimini non sia ancora veramente pronta per questa scommessa. Tanto è vero che tutte le settimane o quasi, c’è un articolo del sindaco o di un assessore che si appellano alla partecipazione della città, un chiaro comportamento di chi è con l’acqua alla gola.
Il diavoletto che ho sulla spalla sinistra mi fa dire che “vi sta bene perché presuntuosamente pensate di essere più bravi, intelligenti e acuti degli altri, non ascoltate chi ne sa più di voi anche se lo fa di mestiere, procedete come gli schiacciasassi e poi succede che le cose vengono fatte male”. Se invece ascolto l’angioletto che ho su quella destra è ovvio che mi piacerebbe che Rimini fosse eletta Capitale della Cultura, però è evidente che siamo troppo acerbi. I nostri musei non hanno un numero sufficiente di visitatori. Il PART che attualmente è chiuso per lavori di restauro, come progetto non ha mai portato a risultati apprezzabili perché Gnassi lo ha voluto a tutti i costi in un certo modo. Ma andava sviluppato “con” San Patrignano non “a favore” di San Patrignano. Sono concetti molto diversi. “Con” significava coinvolgere loro nella gestione, sarebbe stata una scuola di vita per i ragazzi di Sampa che avrebbero imparato a fare le guide, a stare in biglietteria, a rapportarsi con un certo pubblico. In poche parole il PART avrebbe fatto bene alla comunità di recupero. Invece ha giovato solo al suo patrimonio. Alle opere musealizzate di proprietà della fondazione, significa dare un valore economico superiore a quello che avevano fino a quel momento».

Quindi, quale è stato il ritorno emerso dall’iniziativa?
«Ho avuto litigate furiose con l’ex sindaco. Per lui era solo un’operazione di immagine. Lui era l’uomo della cultura. Voleva fare il pari con quelli di Firenze, di Venezia, tutti appartenenti al suo partito con la differenza che gli altri si muovevano su città in cui la cultura è fondamentale, mentre qui ci si muove in un territorio in cui della cultura interessa relativamente. Non è che aprendo musei e “contenitori” diventi un personaggio che sa fare cultura. Il modo per farla è dal basso, imparando a leggere nella realtà i dati che ti aiuteranno ad avere un progetto credibile e funzionale allo scopo. È inutile che ci raccontiamo la favola che gli artisti sono i visionari, che sanno anticipare cosa accadrà nel futuro, se poi a questi non dai credito. Se hai degli artisti e non intendo solo pittori, ma poeti, letterati, musicisti, insomma artisti di tutte le discipline che ti stanno dicendo che ci sono cose e aspetti che vanno sviluppati affinché la città, il cui obiettivo ultimo è di fare di questa realtà una vera Capitale nello spirito più alto, devi ascoltarli. È un movimento che nasce dal basso. Tutto questo a Rimini non c’è stato, tutto è stato fatto al contrario. Sono state messe cose dentro scatole di cui nessuno ha capito il valore, a partire da chi le ha volute, per cui i riminesi di cultura, coloro che avrebbero voluto dare il loro fondamentale apporto, a un certo punto si sono arresi alla prepotenza e hanno abbandonato il comandante al suo destino. Per una certa idea legata all’allora ministro della cultura Dario Franceschini, turismo e cultura si aiutano a vicenda. “Realizzo progetti culturali per avere più turismo”. Non è così. Fai cultura e falla bene. Quando in virtù di questo iniziano ad arrivare più turisti, allora fai progetti di sviluppo culturale che portino fino alla creazione di un nuovo museo. Questa però non deve essere la prima tappa bensì quella finale, il traguardo delle attività che metti in campo grazie a una città che ti sta spingendo e ti sostiene. Il percorso di Rimini Capitale della Cultura incarna l’esatto contrario di ciò che andava fatto».

A Rimini ci sono persone che si sono spese per farla decollare nell’àmbito di cui si sta parlando. Mi viene in mente il prestigio internazionale della rassegna “Città Spazio Cultura” ideata da Giancarlo Valentini (decano dei grafici riminesi) dal 1973 al 1980. Poi, tutto sembra arenarsi.
«Certo. Qui abbiamo una lunga tradizione di buoni pensatori, di gente che ha avuto iniziative importanti, con colpi di genialità unici, dal primo dopoguerra fino a qualche tempo fa. Penso a Filiberto Dasi con il “Pio Manzù”, il “Meeting per l’amicizia fra i popoli” o alla comunità terapeutica di “San Patrignano” nata dalla pervicacia di Vincenzo Muccioli. In un centro piccolo come Rimini, di cultura delle arti, della persona, dell’accoglienza, di tutti generi, se ne è fatta a iosa. Tutte iniziative nate da persone, ma che la politica locale non ha mai saputo mettere a sistema. È mancata una visione della politica perché la nostra, di forma mentis è fondamentalmente statalista. Esiste un tema di eredità che non viene quasi mai preso in considerazione. Dirò di più: le manifestazioni appena nominate, quanto hanno dovuto soffrire per rimanere nonostante gli ostacoli della politica riminese? Tanto è vero che alcune di esse sono state osteggiate e in qualche caso costrette a pensare di trasferirsi altrove con il rischio di scomparire dall’orizzonte del prestigio e dai benefici economici dovuti alla loro presenza nella nostra città. Dico questo e non senza rammarico, perché anche oggi mettiamo a rischio una futura eredità con l’idea di una Capitale della Cultura che eufemisticamente mi permetto di definire un po’ tirata via. Se si bruciano i rapporti con gli imprenditori locali, con il tessuto culturale e associazionistico, rimane solo cenere. A Rimini abbiamo sempre avuto il difetto di non essere del tutto consapevoli del patrimonio di cui disponiamo e quindi di non sapere che farcene».

Cultura un corno! «Cogliamo l’occasione per ripensarci a 360 gradi».

E pensare che lo slogan ideato per la candidatura di Rimini è di così raffinata eleganza…
«Il pensiero ideologico/culturale dietro la presentazione della candidatura di Rimini è stato chiarissimo. L’idea di Rimini come città dell’accoglienza di tutti e di tutto indiscriminatamente, senza un approfondimento, senza entrare in un vero dialogo, è talmente nebulosa da non avere sostanza. Non crea vere circostanze di relazioni. Lo vedo quasi come in contrasto con il Meeting dell’amicizia fra i popoli che questo tema lo ha invece sempre avuto in primo piano. Non già quello dell’accoglienza nebulosa, ma della relazione umana. E quindi anche scontri o interventi con giudizi difficili e profondi. Ricordo quando al Meeting venivano papa Ratzinger o Balthasar e anche Papa Giovanni Paolo II. Delle approfondite e intense lezioni che vertevano sull’idea di identità (della persona, dei popoli) talmente alte e raffinate che nella cultura odierna sarebbero travisate ed usate per accusarti di qualsiasi cosa. Oggi, purtroppo abbiamo perso la libertà di pensiero e soprattutto di parola a causa di una falsa idea di cultura dell’accoglienza per cui dobbiamo pensarla tutti allo stesso modo, il famigerato pensiero unico. Dunque, il tentativo dovrebbe essere di arrivare alla verità delle cose. Quando Dasi creò un’occasione di dialogo con le istituzioni e la cultura araba, gli diedero del matto. Era impensabile creare relazioni con quel mondo, in tutti i sensi, tanto era lontano da noi. Ma all’epoca, ripeto, ci furono autentici visionari. Se vogliamo, anche il riminese lo è. Lo stesso Fellini era un tipico visionario “della costa”. Ma di tutto questo abbiamo fatto terra bruciata. Per non rischiare troppo. Dunque, bene se abbiamo l’ambizioso obiettivo di portare Rimini a diventare Capitale della cultura, male se pretendiamo di raggiungerlo in soli due anni e in maniera facilona».

Ci si può tirare indietro?
«L’unica cosa che so è che se non si è eletti, per i successivi due anni non è consentito ricandidarsi. Quanto al ritiro, onestamente, non ho idea se sia possibile. Un’altra certezza è che se si vuol fare bene un lavoro il termine non deve essere quello del mandato del sindaco. Nemmeno se questi ne ha due, di mandati.
Sulla strada di Rimini Capitale della Cultura c’è un’altra traccia invisibile, non menzionata. Quale sarà il destino del teatro Novelli? Quando ero presidente della commissione Cultura, feci presente come le due strutture comunali, una volta terminato il teatro Galli, non potessero coesistere perciò per il Novelli andava trovata una nuova strada e dato in gestione ad una associazione. All’epoca ce n’era una che lo avrebbe preso volentieri per destinarlo a scuola di danza e musica. Al piano superiore ci sono stanze utilizzabili come uffici, sede delle scuole. La struttura non fu concessa perché le porte di sicurezza non erano a norma».

Sono troppo banale se penso che bastasse regolarizzarle?
«Certo che no, ma l’idea fu comunque scartata. Però, una possibilità, anzi una buona opportunità, per evitare problemi enormi per la costruzione sotterranea del parcheggio in luogo della rotonda del Grand Hotel è di utilizzare proprio l’area del Novelli. Oltre che visionari, bisogna essere anche realisti. Ed eviteremmo anche inutile traffico sul lungomare».

I posti auto sarebbero equivalenti, rispetto all’altro progetto?
«L’area occupata dall’ex teatro potrebbe essere adoperata sia sotto, ritengo con meno problemi di infiltrazioni d’acqua e relative spese al riguardo, rispetto alla rotonda Fellini, ma anche in superficie.
Si potrebbe costruire una struttura a piani interrati e fuori terra utilizzando tutto il piazzale a disposizione.
Alla fine i posti sarebbero equivalenti, credo».

Anche se i parcheggi dovessero essere in numero un po’ inferiore, mi accontenterei che la rotonda più famosa di Rimini tornasse ad essere il luogo piacevole, la vista elegante e colorata di un tempo. Oggi è una squallida circonferenza brulla e senz’anima. Hanno deciso di farla diventare un chiassoso centro di eventi, spesso cafoni, che invece si potrebbero tenere altrove, lontano dal Grand Hotel. E infine, sarebbe doveroso il restauro dell’icona più fotografata, la Ferrania Condor II.
«A proposito di immagini, c’è un altro grande tema da prendere in esame. L’Astoria. Quanti soldi abbiamo già messo, dentro un progetto che ancora non decolla? Nel 2020, 300.000 euro per rifare il tetto, “perché adesso deve ripartire” dicevano. E le due sale cinematografiche? Nulla di fatto. Morale: “Ritorno all’Astoria”, finora ha avuto un costo non indifferente, ma non esiste nessuna valida soluzione all’orizzonte. E dato che siamo in argomento, sopra al teatro Galli ci sono due saloni enormi e bellissimi, tutti rivestiti di legno, secondo le idee di Gnassi dovevano servire per una scuola di danza, per le prove di musica. Peccato che non sia possibile adoperarli. Quando uno parla e non sa cosa stia dicendo, le cose se le inventa. E la gente a dirgli “che bello, che bravo”. Solo che non si può fare. I saloni vengono utilizzati unicamente per accogliere il proiettore puntato sul castello malatestiano».

«Tempio» di Davide Frisoni. «Rimini potrà diventare Capitale solo se della Cultura ne farà il suo Patrimonio da lasciare in eredità».

Poco fa mi ha accennato che due anni prima della dispendiosa mostra organizzata da Marco Goldin, insieme con Alberto Agazzani (1967-2015), Mauro Moscatelli e Marco Ferrini, grazie alla Fondazione Carim, avete realizzato a Castel Sismondo la biennale d’arte che titolaste “Contemplazioni”.
«Sì, lo racconto per dimostrare che la cultura non è solo questione di soldi come spesso ci viene raccontato, ma di progetto, di coinvolgimento, di relazioni e convinzione. Con grande fatica, alla fine abbiamo trovato l’equivalente di 185.000 euro di sponsor tecnici. L’unica pubblicità fatta, costata 2.000 euro, consisteva in un prospetto pieghevole distribuito in tutti gli alberghi di Rimini con l’invito a visitare il centro storico. Allora, in centro di sera, nel 2009 non ci veniva anima viva o quasi. Esisteva una sola gelateria aperta. Nel pieghevole avevamo messo le foto dei monumenti e l’itinerario attraverso il parco della Resistenza che con le sculture di Elio Morri (1913-1992; ndr) era già parte di un percorso d’arte. Solo in ultima pagina compariva la pubblicità della mostra aperta dalle 18,00 alle 24,00. Se d’estate vuoi gente alle mostre, devi essere aperto quando questa non è al mare. Sorprendentemente, i visitatori sono stati 20.000 (veri, con tanto di tagliandino, a ingresso libero). Esiste dunque un altro modo per fare le cose che provengono dal basso. L’ho sperimentato direttamente. Il fatto è che se non c’è un “motus” che nasca direttamente dalla città, è difficile scommettere sulla cultura, altrimenti vendi solo rischiosa aria fritta. L’anno dopo abbiamo istituito il “Premio Rimini”. Dieci poeti, capitanati da Davide Rondoni, hanno scelto dieci artisti all’interno della mostra “Contemplazioni” con i quali per un anno hanno lavorato insieme, nelle modalità che ritenevano più opportune e sono sfociati, l’anno successivo, nel “Premio Rimini”. Sempre nel castello, la mostra consisteva nelle opere scelte dai poeti. A fianco di ogni opera, la poesia e il poeta che durante l’inaugurazione la declamava. Nell’ala Isotta e nell’ultimo piano, dieci artisti e le loro piccole mostre personali, 5 o 6 opere di ogni artista. Poi, invece, l’amministrazione comunale optò per Goldin, contribuendo con somme importanti. A mio parere le ricadute sulla città non ci furono (vedi i pullman che scaricavano e ricaricavano turisti i appena uscivano dalla sua mostra per portarli a mangiare altrove). Noi avevamo chiesto 500 euro di contributo al comune, negato. Alla Regione Emilia Romagna, idem. Alla Provincia, come sopra. Zero contributi per avere portato 20.000 persone che hanno iniziato a ravvivare il centro storico, fermandosi a cena nei pochi ristoranti aperti. Abbiamo iniziato il percorso di rinascita del centro storico. E non è poco!».

Se domani mattina venisse incaricato di farlo, come ricomincerebbe un nuovo percorso culturale?
«Da dove l’ho lasciato. Da quello che poi interruppe Gnassi nel suo primo mandato, che è quello dove la città poteva ancora esprimersi e che per una certa forma mentis politica è stato cancellato. Faccio un esempio. La “Gradisca”, festa di pescatori e bagnini che saluta l’arrivo dell’estate con tavolate in spiaggia e sul lungomare, una kermesse con grigliate, balli e lazzi, attesa da tutti. Irrompe “la notte Rosa”. E ancora, una volta c’era “Squisito” di Andrea Muccioli, altra manifestazione sugli scudi. Basta. Ora si fa “Al meni”. Mi sono spiegato? Qualcosa di buono che viene dalla città e che funziona, lo dobbiamo fare noi dell’Amministrazione. Magari cambiano solo il nome, ma se ne appropriano. Questi comportamenti derivano da un’idea completamente statalista della gestione di Rimini. Tutto deve derivare da chi, dall’alto, gestisce la torre di controllo. Per fortuna la città è ancora viva. Sono contento che alcune iniziative tipo “Rimini for Mutoko” (progetto umanitario per sostenere un ospedale nello Zimbabwe; ndr) non siano state ancora totalmente assorbite dal comune. Ma il rischio è sempre in agguato. La vivacità che c’è nella città va accolta e sostenuta. Ripartirei da questo fermento. Non lo dico nostalgicamente, ma solo perché penso che ci sia più autenticità. Chi viene a Rimini se ne accorge. Intanto, il riminese stesso si sente più coinvolto. E un cittadino che sta bene, fa stare bene anche gli altri, anche chi è in visita o vorrebbe venire ad abitare qui. Vorrei chiudere con un rilancio, dicendo che Rimini potrà diventare Capitale solo se della Cultura ne farà il suo Patrimonio da lasciare in eredità. Cogliamo l’occasione per ripensarci a 360 gradi».

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