Sant’Antonio e Rimini: ecco la Confraternita «de Canepini, Linaroli ed altri»

Sant’Antonio e Rimini: ecco la Confraternita «de Canepini, Linaroli ed altri»

Era la Compagnia che aveva in custodia il Tempietto e che disponeva anche di poderi a Coriano e Mulazzano. Sostenne un contenzioso sulla proprietà della "Cappellina". Notizie pressoché sconosciute, che escono dai documenti storici contenuti negli "Inventari delle Compagnie della città dal 1600 al 1790”.

Come ormai è noto, quest’anno è la ricorrenza del passaggio di Sant’Antonio da Padova, avvenuto 800 anni or sono, e dei miracoli da lui compiuti in quell’occasione. In una città distratta in questo, ma impegnata ad inventarsi quale capitale della cultura non trovando – forse – nulla di felliniano in ciò, la circostanza non ha suscitato interesse; ne abbiamo già parlato su Rimini 2.0 (qui).
Per fortuna ci ha pensato un comitato appositamente costituito, che organizzando una serie di eventi ha degnamente sopperito alla grave mancanza, a cui poi qualcuno si è comodamente accodato. Ma ancor più grave è stato assistere all’inesorabile degrado del tempietto dedicato al Santo ed al miracolo della mula, peraltro di proprietà della comunità, oltraggiato dalla stessa “considerazione” al pari di quella che godono altri monumenti cittadini. Ma anche qui, per fortuna, grazie ad un illuminato mecenate imprenditore locale, ora è avviato a certo restauro che lo restituirà al suo dovuto splendore.

Dedicato a Sant’Antonio da Padova, edificato tra il 1518 e il 1531 a Rimini, nell’omonima Piazza di Sant’Antonio, oggi Tre Martiri, ricadeva sotto la Parrocchia di Santa Innocenza. L’edificio venne seriamente danneggiato durante il terremoto del 1672, per essere poi ricostruito nel 1683 rispettando per quanto possibile l’essenzialità della originaria struttura ottagonale, i cui fini rilievi in pietra d’Istria hanno localmente generato la non suffragabile opinione di una possibile autorialità dovuta a Donato Bramante.

Acquasantiera in marmo rosso Verona. Bella, discreta e defilata. Posta a destra dell’ingresso, non balza all’occhio ma pregevole seppure anch’essa ridotta in stato di degrado.

Ma a parte il breve accenno alla storiografia locale ormai nota, era conosciuto che in passato legata a tale gioiello architettonico, vi era una Confraternita religiosa? È tutto spiegato nella raccolta “INVENTARI DELLE COMPAGNIE DELLA CITTÀ dal 1600 al 1790”, conservato presso l’Archivio Diocesano di Rimini. In effetti la cappelletta era sotto la tutela della “Compagnia di S. Antonio di Padova – de Canepini, Linaroli ed altri”, che in un inventario del 22 gennaio 1726 ne descriveva lo stato.
Riguardo la stessa così quel documento narrava, potendola quindi ammirare come era in passato: “Una Cappella di marmi al di fuori coperta di piombo con campanelle e due campane, con tre cartelle di legno dorate nella cornice. Un quadro che rappresenta S. Antonio in atto di ricevere Gesù Bambino con cornice di legno indorata”.
Poi: “Altri due quadri latterali, uno rappresentante il miracolo della mula, l’altro il miracolo dè pesci con sua cornice gialla ed oro. Due tavole latterali con diversi vasi d’argento, con una corona ed un cuore d’argento sopra l’immagine del Santo”. Poi arriviamo alla narrazione dell’altare, descritto in pietra “con scalinata e tabernacolo di legno indorato, ornato con sei candelieri di legno della stessa finitura superficiale, poi altri quattro analoghi ed ancora quattro da mensa”. Inoltre un sigillo indorato, un paglio di scagliola con pradella di noce, due “cardenzini [credenzini] di legno ed una lampada d’ottone”. Nella Cappella vi erano ancora quattro panche. Come si può notare visitando oggi la Cappella, oltre ad essere in pessimo stato, la stessa risulta completamente diversa e scarna rispetto a ciò che vi era allora.

La Compagnia inoltre disponeva di una camera al piano terra dell’attigua Chiesa intitolata al Santo, ad uso oratorio, che conteneva altri arredi religiosi come tre armadi, un “cassabanco”, e due inginocchiatoi dipinti. Vi era anche un altare di legno con un soprastante quadro raffigurante S. Antonio con cornice dorata, sei candelieri dorati e quattro cappette dorate e quattro rami di fiori finti con “sue cartelle e cornici dorate”. Tre Crocefissi ed altri oggetti sacri, ma in particolare due sargentine “una dell’E~mo Ottoboni, e l’altro dell’E~mo Albani”. Come in ogni confraternita esistevano i libri con l’elenco dei confratelli, e della regola.
Nella disponibilità della Compagnia si annoveravano due poderi; il primo in Coriano “semina due stara” compreso in un solo appezzamento, ed il secondo in Mulazzano “semina tre stara” composto da vari appezzamenti coltivati a vigneto ed arativo, per un totale di Tornature 24:91:89.
Mentre la “possessione” di Coriano fruttava al netto come da estratto di un decennio Scudi 43:68, quella di Mulazzano rendeva Scudi 18:12. Aggiungendo poi altri introiti quali elemosine ed altro, le entrate della Compagnia ascendevano in quell’anno a Scudi 91:80. Togliendo infine le spese e tasse pari a Scudi 81:80, restava un attivo di Scudi 10:=.
Ma in fondo al resoconto si legge la seguente nota: “Col quale avanzo pensar si deve dalla Compagnia al riattamento della Chiesetta, e de piombi sopra la medesima, come pure delle due case rurali”. Allora il piccolo capolavoro era evidentemente tutelato ed oggetto di cura; cambiano i tempi, la proprietà… ma anche il modo di tutelarlo o meno da parte del possessore del momento.
In quest’inventario è annoverato un contenzioso (lite) esistente tra la Compagnia e la famiglia Ricciardelli. Essa, in virtù del fatto che il noto storico riminese Clementini sostenesse che la “detta Cappellina” fosse fin dal 1530 stata edificata da certo Pietro Ricciardelli, ne sosteneva la proprietà.
A suffragio di tesi inversa, la Compagnia sosteneva che già dal 1569 la Comunità riminese con le elemosine di “pie Persone” fece costruire la Cappella per poi donarla alla Compagnia da allora in pacifico possesso e tutela.
Dal 1614 i Confratelli trasferirono l’amministrazione e governo del bene, ai Padri Minimi di S. Francesco di Paola, con rogito del notaio Pompeo a Forte (?) del 16 marzo 1615.
In seguito da lascito testamentale di Andrea Rossi rogato dal notaio Mario Bentivegni il 17 luglio 1653, la Compagnia entrò in proprietà di una casa e due “possessioni”, con l’impegno di far celebrare in perpetuo una messa la settimana in onore del defunto. Infine dopo varie peripezie la Compagnia ottenne l’autorizzazione ecclesiastica per vendere la casa ereditata, al fine di restaurare la Cappelletta.
Nella “Perizie dei danni causati alla Città di Rimino dal Tremuoto nella notte dello 24 Decembre dell’Anno MDCCLXXXVI” redatta da Giuseppe Valadier su incarico del papa Pio VI e conservata presso l’Archivio di Stato di Rimini AP619, a proposito del Tempietto, a pagina 115: “Chiesa o Cappella di S. Antonio in piazza grande, offiziata da una Confraternita… Questa Chiesa isolata di marmo con un solo Altare avrà bisogno che se le levino varie pietre e colonne nell’esterno quali si vedono molto sconnesse, e vi anderanno poste varie chiavi, e fatti altri trattamenti…”. Stimando un danno di Scudi 53:=
Nel quadro sinottico allegato in fondo alla suddetta perizia generale, il Valadier riportava inoltre che, al momento, la Confraternita constava di 77 fratelli.

Infine nel catasto Gregoriano, il Tempietto distinto al N°586 risultava declassato, come si legge nei relativi Brogliardi, quale di proprietà della “Comunità di Rimini, Chiesa non aperta al Culto sotto il titolo della Cappella di S. Antonio”, mentre rimaneva aperta al culto la chiesa intitolata a S. Francesco di Paola distinta al N°598, pur essendo di proprietà del regio Demanio e per esso il Ministero del Culto.
Una grande storia come tante altre negate a Rimini, occasioni perse come le ricorrenze legate al grande Sigismondo Malatesta passate pressoché in sordina. Una città in cui recenti amministratori parlano di cultura senza tenere conto che non c’è bisogno di inventare nulla ma che sarebbe sufficiente dare un senso e un valore a quel tanto – troppo direi – che abbiamo ereditato e astenersi dal continuare ad ignorarlo o, alla peggio, a banalizzarlo. Perché visti gli esempi in vere città d’arte italiane, una città di cultura non si crea con quatto cartelli e qualche dozzinale festicciola serale con musiche e negozi aperti, ma solo con la sostanza che, purtroppo, è totalmente assente.

Immagine d’apertura © Biblioteca Gambalunga

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