Bolgia celeste: i Cosmetic

Bolgia celeste: i Cosmetic

I Cosmetic sono il simbolo della Romagna shoegaze da più di dieci anni.

Personalmente devo dire di essere cresciuto con vostri dischi a partire da Sursum Corda, passando per Non siamo di qui e Conquiste, fino a Nomoretato e Core. Ci sono cose che cambiano profondamente, ma credo che affinché qualcosa cambi, ci sia qualcos’altro che debba rimanere immutato. Cosa è rimasto per così dire dei primi Cosmetic e cosa invece è mutato?
E’ un tema che tocca abbastanza da vicino anche noi, poiché nell’affrontare un nuovo album non ci poniamo il problema di dover cambiare qualcosa o di dover dimostrare un evoluzione. Abbiamo una sorta di speranza di fondo che sia la vita stessa, le cose che succedono, la nuova musica che scopriamo a cambiarci e a influenzarci. Un’amica letterata mi ha detto “non è necessario avere idee nuove in senso stretto, ma piuttosto…” non ricordo più e vabbè.

Avete subito svariati cambi di formazione, cosa non poi così strana per una band così longeva. Come avete vissuto queste trasformazioni all’interno del gruppo? In che cosa questi cambiamenti hanno influenzato le nuove prospettive musicali?
La parte triste di lasciare qualcuno indietro è che poi quella persona ti mancherà e che c’è la fatica di dover insegnare il repertorio da capo. Ma al tempo stesso la parte del conoscersi e di mischiare nuove esperienze nel calderone è anche e soprattutto molto stimolante. Senza voler far torti a nessuno potrei dire che il gruppo che si è formato nel tour di questo ultimo disco sia stato il migliore che si poteva sperare. Alice ha sempre cantato su alcuni brani sin dal primo disco, ma era la prima volta che veniva dal vivo. Erica ha suonato con noi anche nel 2013 e siamo amici da una vita. Straccia è stato una grande e positiva sorpresa, ci siamo coinvolti quasi per scherzo e invece dopo quasi due anni ancora continuiamo a scoprire cose in comune fra cui la più importante è comunque Around the Fur.

Continuando sul filo della domanda precedente: come componete le canzoni? Credete che il fatto di aver variato così tante volte la formazione sia un fattore positivo a livello di idee musicali?
Il primo disco Sursum Corda è stato l’unico album scritto interamente in sala prove con gli altri, dove tutto è nato dalla improvvisazione mista a sedimentazione nel tempo di riff e parti nel tempo. Poi dal 2008 in poi tendenzialmente i pezzi li ho sempre scritti io Bart, cercando già di arrangiarli su un registratore multi traccia, poi “scontrandosi” con gli altri in sala prove prendono la loro forma finale e ognuno mette del proprio. Emily mi cassa i pezzi troppo sdolcinati.

Avete fatto parte per lungo tempo de “La Tempesta dischi”, una grande etichetta discografica italiana. Core è uscito invece per “To Lose La Track”. Cosa ne avete tratto dalla precedente esperienza discografica e come spiegate l’uscita dalla Tempesta?
La Tempesta è arrivata in un momento in cui in Italia si stavano accorgendo di noi, ed è stata l’esposizione data dal collettivo che ci ha fatto fare quel salto di visibilità diciamo da 15 a 60. Poi da lì in avanti non è cresciuta molto, non si è arrivati al 100% degli altri artisti Tempesta, probabilmente anche per il basso profilo che abbiamo sempre tenuto e il nostro attaccamento alla vita lavorativa e alle nostre famiglie. Ognuno degli altri artisti Tempesta ha un suo management e intende la musica come attività principale della vita. Quindi il passaggio a “To Lose La Track” è stato sia per mettere nuovi ingredienti nella “solita” minestra e anche per trovare un ambiente a noi più consono, dove, bene o male è tutta gente che fa questo di notte per passione mentre di giorno inviano mail ai promoter nascostamente da colleghi e capi.

Parliamo di Core: in inglese significa nucleo, in napoletano cuore. Il significato non cambia poi così tanto. Cosa esprime questo titolo?
Nomoretato è stato l’album in cui volutamente ci siamo messi in discussione maggiormente, sia per esserci affidati alle mani di un produttore, sia per la quantità di colori e di gusti diversi tirati in ballo. C’era semplicemente il bisogno di rassicurare tutti e forse anche noi stessi che quello di più semplice che sappiamo fare lo possiamo ancora fare senza tanti fronzoli e invenzioni. Oltretutto in un momento in cui eravamo rimasti solo io Mone e Emily, il titolo Core e il concetto stesso è arrivato con tutta la naturalezza possibile. E ci dà modo ora di rilanciare di nuovo con dosi diverse degli ingredienti per il prossimo capitolo.

Le sonorità in Nomoretato e Core sono molto diverse. Prendo come esempio questi dischi perché sono gli ultimi due. Il suono di Nomoretato è molto lo-fi, psichedelico, grezzo, quasi flemmatico, la voce sembra sempre fuori campo come se la musica e le parole fossero su due piani diversi. Credo sia un punto di diversità molto forte nella vostra discografia. Core è molto più d’impatto, aggressivo e mi ricorda per certe cose Non siamo di qui. C’era un desiderio di ritorno a quel periodo musicale scrivendo le canzoni di Core?
Ho già risposto sopra? Comunque per il prossimo disco si intitolerà credo Plastergaze e sarà il nostro primo vero disco shoegaze.

Addentriamoci nei testi di Core. Prima traccia, Fine di un’epoca. Quale epoca finisce e cosa di conseguenza sta per iniziare? Il ritornello dice “Dobbiamo soltanto imparare ad imparare di più e a non difendere ciò che è obsoleto e vecchio”. E’ un motto progressista? A cosa fa riferimento? Il tema del vecchio, dell’obsoleto è presente anche in Tamara. Poi c’è pure Paura del Principio, “questo diventare adulti non finirà mai”. (Bart ti senti vecchio?)
Ci piace essere scaramantici e così come Conquiste era semplicemente una maniera ironica per annunciare che eravamo riusciti a fare un altro album, Fine di un’epoca stava semplicemente ammiccando al fatto che abbiamo un’età che forse dovremmo smettere di suonare, e se per caso la passione per la musica ci venisse a mancare in favore magari di quella per la pesca o per fare tanti soldi col fitness, forse dovremmo semplicemente lasciarci andare e non difendere una cosa fatta come si faceva ancora 30-40 anni fa. Voglio dire noi ci rivolgiamo ai giovani principalmente ma oggi i giovani hanno la trap, cosa se ne fanno di 4 bibliotecari conservatori che suonano strumenti identici a quelli suonati dai loro bisnonni?! Se dobbiamo diventare una band che fa del revival per cinquantenni nostalgici piuttosto cambiamo tipo di significante.

“Non mi sembra fortunato chi non ha sudato niente”. Questo dice 1986, sembra la data di nascita di qualcuno o una qualche ricorrenza speciale.  Non capisco se si faccia riferimento al luogo comune del “se non fatichi non ti godi le cose” o se invece sotto ci sia altro. Spiegate se vi va…
Il clamoroso ritorno agli anni 80 cominciato verso il 2005-2006 sembrava essere finito, e invece proprio come in quegli anni, in Italia il peggio doveva ancora venire. Tutto un immaginario effimero e faceto, sfociato nel clamoroso successo dell’immobilismo radiofonico dei The Giornalisti mi ha messo il terrore di essere ripiombati anche come circostanze culturali negli anni degli yuppy, dei raccomandati, fenomeno che in realtà non è mai finito. Ma tutti i ragazzi e le ragazze che postano foto di gruppo sorridenti con i loro occhialetti tondi da architetti wannabe e i papillon e i baffetti finti sul bastoncino, e tutti con belle dentature sane e capigliature curate, sembra che non sappiano la realtà dei fatti e lo stato in cui versa la società, o che oppure, esattamente come nel 1986, si stia mettendo un cerottino colorato su una enorme piaga putrescente.

Per finire, ditemi un disco bellissimo ed irripetibile di cui non potreste fare a meno.
Ce ne sarebbero decine ma ti direi Terraform degli Shellac – che a mio avviso, è un ascolto che l’italiano medio non riesce a sopportare per il modo provocatorio con cui si pone la band ed è concepita tutta la loro musica. Rispondendo alle tue domande è quel che mi è sembrato fosse il caso di chiamare in causa.

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