“Occhio ai traffici illegali nei gruppi islamici «privati»”

“Occhio ai traffici illegali nei gruppi islamici «privati»”

La parola a Sergio Bianchi, direttore di Agenfor International, esperto italiano del team europeo di anti-radicalizzazione.

Sono le mafie etniche a destare preoccupazione per la sicurezza a Rimini: il crimine organizzato, sia nazionale che di provenienza africana o dell’estremo Oriente, è “penetrato in profondità nel tessuto sociale”. Lo spiega Sergio Bianchi, direttore di Agenfor International, in questo colloquio dove si fa il punto sul radicamento di gruppi islamici in città e in provincia, alla luce anche dell’indagine che ha portato agli arresti degli ultimi giorni. Secondo lo studioso di lingua e cultura araba di origine riminese, le maggiori insidie non vengono dall’Isis, vanno invece messi sotto la lente i gruppi di preghiera privati “che vivono di traffici illegali”. Bianchi si occupa da anni di Medio Oriente e Mediterraneo in chiave geopolitica e di sicurezza: fra l’altro lavora per il Ministero di Giustizia italiano – DAP-Triveneto, ed è l’esperto italiano della rete europea RAN (Radicalisation Awareness Network) che ha il compito di prevenire la radicalizzazione in Europa.

La “moschea” di via Popilia è un luogo frequentando il quale ci si può radicalizzare?
“Ci si può radicalizzare ovunque, ma la radicalizzazione non è un grande problema, al contrario di quanto si pensa normalmente. Le moschee sono i luoghi meno adatti dove radicalizzarsi, perché sono piene di informatori della DIGOS e dell’Intelligence (AISI) e gli imam o i locali notabili delle moschee hanno rapporti continui con le istituzioni. Forse vale la pena di ricordare che alcuni dei recenti attentatori europei erano stati allontanati proprio dalle moschee, incluso il suicida di Manchester, Salman Abady e anche il marocchino che ha colpito Londra due giorni fa. Quando escono dalle moschee può insorgere il problema. Gli imam delle maggiori moschee riminesi hanno fatto ripetute segnalazioni, soprattutto informali, sia sui cosiddetti «predicatori viaggianti», che sui loro fedeli che manifestavano idee un po’ strane. Vi sono indagini da oltre cinque anni su persone transitate da Rimini e Ravenna che poi sono finite in Siria e altre su macedoni che sono implicati in mille traffici. I rapporti fra i notabili delle moschee e le forze dell’ordine, soprattutto la DIGOS, sono in generale buoni. Le moschee sono sempre state molto collaborative su questo e la DIGOS sa come fare”.

Ci sono indizi o evidenze che nel territorio riminese agiscano fiancheggiatori dell’Isis, o che siano stati reclutati terroristi?
“L’ISIS non è un problema né a Rimini né in Italia. La stampa sta facendo grandi danni nella lotta al terrorismo, aiutando gruppi come ISIS a spargere terrore senza fare niente. Li state aiutando nel loro scopo, mentre le loro capacità tecniche sono ridotte al lumicino. Il problema non è ISIS, bensì sono le molte migliaia di sbandati privi di documenti, prospettive e futuro, che possono essere reclutati da una delle tante mafie etniche presenti in Italia o che possono commettere crimini di ogni tipo per mille motivi. Prima o poi uno che commette un crimine grave e magari urla «Allah Akbar» ci sarà anche in Italia, e allora ti puoi immaginare quante stupidaggini sentiremo sull’ISIS. L’ISIS è un’insorgenza sunnita di alcune aree e tribù dell’Africa e del Vicino Oriente. Il terrorismo homegrown (coltivato in casa, ndr) è invece un fenomeno interno all’Europa: è sempre esistito e continuerà ad esistere con o senza ISIS, con o senza tutte queste sciocchezze sull’Islam. Se l’Italia non trova il modo di gestire l’integrazione di queste molte migliaia di immigrati, questa situazione prima o poi esploderà, creando una spirale di odio e polarizzazioni che darà vita a forme di violenza diffusa. Il tracollo della coesione sociale è il problema, che riguarda le forze dell’ordine solo marginalmente”.

Attualmente a Rimini e provincia, quanti centri islamici ci sono e quanti “fedeli praticanti” si possono stimare?
“I centri ufficiali fra Rimini e Riccione sono cinque, alcuni su basi etniche, altri nati per rivalità interne. Il livello culturale è basso, in generale, e le competenze sull’Islam ancora peggio. Poi ve ne sono altri minori nella periferia. Ma vi sono vari gruppi, soprattutto dell’Est Europa, che non sanno quasi nulla di Islam, shari’ah o fiqh, che si ritrovano in appartamenti privati, sia a Rimini che a Riccione. Si tratta di gruppi di preghiera e «da’wah», o predicazione, molto più fluidi, che vivono di traffici illegali. Lì si può nascondere il pericolo di qualcuno che impazzisce e vuole emulare gli altri. La capacità di penetrazione di questi gruppi è più bassa e le tecniche d’investigazione speciale non sono sempre utilizzabili in questi contesti «minori»”.

La predicazione è sotto controllo, oppure ci sono elementi che soffiano sul fuoco?
“La predicazione è assolutamente sotto controllo. Anzi, forse c’è troppo dispendio di energie su questo fronte rispetto a minacce molto più gravi e di maggiore impatto quali quelle del crimine organizzato. Il caso di Rimini non è legato al terrorismo, per quanto capisco e per le informazioni che ho. Bisogna guardare nella direzione dei nuovi modelli di crimine organizzato che si chiamano CaaS (sta per Crime-as-a-Service, ndr), cioè modelli parassitari che mescolano vari tipi di reati, con grande fluidità. Un settore poco osservato, per esempio, è quello della mafia dei nigeriani, così come attorno al mondo dell’estremo oriente vi sono poche risorse. Rimini ha un serio problema di crimine organizzato, non di terrorismo, anche se questo fa più notizia. Crimine organizzato nazionale ed internazionale, che è penetrato in profondità nel tessuto sociale. Il baricentro delle indagini deve sempre più andare in direzione delle competenze della Guardia di Finanza come organo di polizia giudiziaria, più che della DIGOS. Sarebbe anzi utile che le procure territoriali e la GdF lavorassero a maggior contatto con i JIT (sta per Joint Investigation Team, ndr) di Europol e Eurojust su questi casi, facendo un uso maggiore dei sistemi informativi europei per tracciare alcuni aspetti dei fenomeni in atto sulla Riviera”.

Le chiedo una valutazione più generale: da che cosa dipende il fatto che l’Italia sia stata finora risparmiata dagli atti terroristici, rispetto agli altri paesi europei?
“L’Italia, al contrario di molto paesi Nord Europei e dell’Inghilterra, ha un’architettura istituzionale molto equilibrata, basata sulla divisione di ruoli e giurisdizioni fra forze di polizia, intelligence e magistratura, sia inquirente che giudicante. Questo garantisce un equilibrio nelle pratiche investigative, sia nell’espletamento delle misure di sicurezza e prevenzione, quando necessarie ed urgenti, sia nel rispetto dei diritti delle fasce vulnerabili, che impropriamente vengono scambiate per lassismo. Senza bisogno d’inventarsi nuovi modelli di polizia, come hanno fatto nel Nord Europa con l’intelligence-led police o con la community police, l’Italia sa da sempre come far stare le forze di polizia sul territorio e mettere insieme «bastone e carota». L’esperienza del terrorismo degli anni ’70 e della mafia è stata una scuola gigantesca per i nostri apparati di sicurezza. Poi la nostra intelligence estera, l’AISE, ha una grande capacità di mediazione, così come la politica equilibrata dei governi Renzi e Gentiloni in politica estera, e le scelte di uomini come l’Ammiraglio Carandino, per la missione Frontex, o il generale Serra, per EUSMIL, sono polizze assicurative sulla vita per tutti noi, al pari del grande lavoro di aiuto che fanno le ONG, soprattutto quelle cattoliche. Questo mix è da sempre un elemento di protezione per l’Italia. La Libia docet”.

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