Piscia e sangue, ovvero nessuno tocchi il Festival di Santarcangelo

Piscia e sangue, ovvero nessuno tocchi il Festival di Santarcangelo

Rispetto allo scalpore, tutto sommato molto circoscritto e locale, che ha suscitato il danzatore Frank Willens col suo spruzzo di pipì (nella foto lo “scandaloso” Manneken-Pis di Santarcangelo), in questa estate 2015 a me sorprende molto di più la ritenzione urinaria dei nostri Chierici.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Pier Paolo Pasolini

La bravissima Silvia Bottiroli non ha bisogno di difensori d’ufficio. Né ho grandi interessi per atteggiarmi come tale. I risultati dell’edizione di quest’anno del Festival di Santarcangelo parlano da soli. Parla – e come parla! – la direttrice artistica che non ha bisogno di “scendere” in qualsiasi polemica, ma a cui basta, con compostezza, esporre una lectio magistralis su uno spicchio di storia del teatro. Rispetto allo scalpore, tutto sommato molto circoscritto e locale, che ha suscitato il danzatore Frank Willens col suo spruzzo di pipì (nella foto lo “scandaloso” Manneken-Pis di Santarcangelo), in questa estate 2015 a me sorprende molto di più la ritenzione urinaria dei nostri Chierici, meno Chierici e anti-Chierici locali su argomenti di ben più profondo interesse per il nostro territorio.
Sono stati colti da una grave forma di iscùria o la stampa non li intervista più? E se la stampa se li è dimenticati, la rete internet, così accogliente, non offre loro qualche mezzo per esprimersi? Magari anche su Rimini 2.0?

Per farmi capire dal normale lettore “chierici” è una espressione inventata dal filosofo e scrittore Julien Benda per definire gli intellettuali organici al potere, quindi, quando aggiungo a questa formulazione il meno o l’anti intendo la loro distanza (spesso a geometria variabile come vogliono le cause e le necessità della vita) dal regime dominante.
A chi mi riferisco? Il mio angelo custode mi suggerisce di guardarmi bene dal fare nomi e cognomi. I menzionati si sentirebbero provocati, gli scordati offesi.
Snocciolo quindi qualche somma categoria a casaccio e a puro titolo d’esempio, scusandomi se me ne dimentico certamente qualcuna: gli storici e storici dell’arte, sia i venerati che quelli giovani e arrembanti in cerca di cattedre, accademici di vario titolo e livello, maestri delle pr e comunicazione pubblicitaria, preti strategici, maghi del turismo e sapienti tuttologi, direttori di coscienza di principi, conti e categorie vassalle, critici, poeti e filosofi, scrittori, scribi e umoristi, editori e consiglieri, manager, albergatori illuminati ed esperti di voli transnazionali, cortigiani ed eremiti, giornalisti custodi dell’ordine e ribelli, sociologi e semiologi di prima e seconda generazione, urbanisti, pedagoghi e liberi pensatori, architetti e commercialisti, artisti e creativi, grafici di successo, tecnici e alti burocrati, portavoce del popolo, sia di quello reale che della rete… Declinate le categorie anche al femminile e fatevi la vostra lista ideale, sapendo che c’è posto per tutti.

Davvero non hanno più niente da dire sui destini della nostra città? Nulla da dire sul piano strategico? Su Rimini Holding? Nulla sulla sorte trascorsa e sugli imperscrutabili destini futuri dell’aeroporto Fellini? Nulla da dire sui progetti da tempo a mala pena iniziati e incompiuti di Murri e Novarese o sul pluridecennale buco nero dell’ex corderia di Viserba Monte? Nulla sulla caserma della Polizia di stato? Nulla da dire sulla chiusura del Balnea Museum e sulla cancellazione delle giornate su Francesca da Rimini? Nulla sulla chiusura del Ponte di Tiberio? Nessuno che ci comunichi a che punto è la pratica per l’inserimento del Tempio malatestiano nella lista del patrimonio Unesco? Più nulla da dire i “comedoveristi” sul Galli che, secondo le alate fantasticherie del nostro Sindaco, dovrebbe dialogare con un’inesistente castello “medievale”? Nessuna idea per ricordare Ezra Pound e i “Cantos malatestiani”? Nulla da dire sugli inesistenti piani gestionali del Galli e della Casa del cinema Fulgor? Nulla da dire sul Trc (con la felice eccezione di Sergio Gambini che come ex politico e perché scrive bene e con chiarezza va annoverato nella ideale lista degli intellettuali)? Piuttosto che far dialogare teatro e castello non sarebbe meglio far dialogare Andrea Gnassi e Renata Tosi (che, in effetti, ricordano uno il teatrino della politica e l’altra un bastione sventrato da barbari assedianti)? Nulla da dire sullo sgombero di Casa Madiba? Nulla su cocaina e denaro falso che incocciano pezzi della città? Nulla da dire sul fatto che i vertici finanziari e politici della nostra città siano indagati dalla magistratura come associazioni a delinquere?

Arresto il mio elenco che non può essere sicuramente esaustivo ma che offre almeno una seppur pallida idea della immensità dei problemi. Una vastità che dovrebbe suscitare ai nostri intellettuali lo stesso entusiasmo che penso provassero quand’erano in calzoncini corti, al sentire la maestra dire: “oggi tema libero”. Un’estensione che, in quest’epoca opaca dove tutto sembra congiurare per il peggioramento del nostro territorio, dovrebbe far dire loro o almeno ad alcuni: “dai, facciamo un’internazionale civica”, un po’ come quando si sono visti riuniti assieme Mazzini, Marx e Bakunin o come quando, nel Rinascimento, si produsse una unione e una concentrazione di menti e creatività come non si sono mai viste nella storia.
Al contrario, si ha invece la netta impressione che i nostri maîtres à penser abbiano perduto la volontà o la facoltà di ricordare, di fare analogie, di connettere, di vedere e prevedere, di essere da pungolo e guida morale (parola grossa!) e intellettuale del principe novello. E, anche quando fanno capolino, per quel noto fenomeno carsico che li riguarda, le forze intellettuali e creative, anziché sommarsi e collaborare, sembrano preferire cancellarsi a vicenda, rivaleggiando, strillando, condannando e maramaldeggiando. Del resto, in Italia, abbiamo il centrodestra e il centrosinistra peggiori del mondo e quindi cosa ci si può aspettare dagli intellettuali impegnati nell’uno o nell’altro fronte o a badare solo a se stessi? Non avrai altro Io all’infuori di me: tutti sembrano suggestionati da questo nuovo comandamento.
Da tempo, poi, ho preso atto che gli intellettuali migliori sono quelli perlopiù ignorati. Mentre i più capaci a suscitare rumore, le provincialissime vedettes nostrane, sono quelli in cerca di autopromozione, di vendette, di risoluzione di frustrazioni. Gli altri, di minor importanza e di solito senza committente e perciò indipendenti, hanno un impegno più utile proprio perché la loro attività o il loro pensiero non fa “evento” né notizia, si limita invece a fare cultura, quella “alta”.

Tali sono le meste riflessioni suscitate dalla lettura di un articolo di Alessandra Leardini pubblicato su “Il Ponte” a proposito dell’esibizione del danzatore nudo in stile Manneken-Pis. La giornalista è andata a stanare Mario Guaraldi e Fabio Bruschi (li avevate messi nel vostro ideale elenco?).
Il primo, il noto editore, doveva essere di fretta. Presumo perché impegnato a preparare il Creativity Summer Festival, di cui Davide Brullo ha raccontato meraviglie su “La Voce di Romagna” dello scorso 28 luglio. E di Brullo (da aggiungere subito al vostro imperfetto repertorio di nomi di cui sopra) mi fido un pochino perché in qualche riga ha parlato bene di qualche mio libro edito da Raffaelli, ma anzitutto perché la sua presenza a Rimini dimostra il grande malinteso che non occorre sempre essere o dover essere in qualche modo di sinistra per essere dei veri intellettuali, ossia liberi e liberi di criticare. E poi Guaraldi, per quel che ricordo e volentieri gli concedo, ha sempre organizzato eventi eccelsi e non credo abbia perduto quel suo tocco magico.
Il secondo, l’ex direttore di Riccione Teatro, avendo più tempo in quanto pensionato (come quelli che osservano i lavori nei cantieri, lui osserva i lavori teatrali), si è maggiormente dilungato.

Mario Guaraldi ha sbrigativamente commentato: “Dall’ascesa al declino di un festival ridotto a orinatoio”. Sembra l’iscrizione di una lapide. O una frase che avrebbero potuto benissimo pronunciare i nipotini della Mussolini, presenti a Santarcangelo sotto varie sigle (Forza Italia, la Destra, Fratelli d’Italia), e, infatti, l’hanno fatto.
Fabio Bruschi, per sintetizzare il suo intervento a salvaguardia di chi ci legge, ha spiegato, come avrebbe fatto Donna Letizia nel bel tempo che fu e in modo più telegrafico di lui, che la pipì in uno spazio pubblico può, sì, aver turbato la sensibilità di alcuni spettatori.
Purtroppo per i due commentatori anche loro hanno una storia e il loro compito dovrebbe essere tramandarla, non nasconderla o dimenticarla, persino nella lettura di eventi teatrali.
Sia l’uno che l’altro hanno avuto, a diverso titolo, a che fare con il Festival. Forse il Festival andava meglio quando Bruschi faceva parte del suo Direttivo o forse, per Guaraldi, quando ospitava grandi danzatori come Kazuo Ohno invece che il ballerino dalle capacità idrauliche che si è già esibito a Berlino, Duisburg, Vienna ed Essen, senza particolari reazioni. Ma questi sono particolari. Come è un particolare che chi scrive sia stato per un quinquennio (1987-1992) vice-presidente del Consorzio Festival di Santarcangelo. E, pur trascorsi gli anni, continuo ad amarlo.
Ciò che invece è importante è l’imprevedibilità della memoria, l’incapacità di collegare eventi, l’inettitudine a saper leggere il passato per esaminare il presente.
Mi esaspera poi, in questa carontesca estate in cui mi ritrovo ad essere come colpito da un anti-alzeihmer dove i ricordi si stagliano netti e limpidi, che né Guaraldi né Bruschi si rammentino di Tondelli e del 1985.

Silvia Bottiroli potrebbe e dovrebbe essere giustificata se se ne dimenticasse, allora faceva una delle prime classi delle elementari, loro no. Nondimeno la preparata Direttrice del festival nel suo saggio Cosa può fare il teatro? ricorda Genet a Tangeri e sa parlarne con i toni giusti. Silvia, rimembri? È, infatti, il trentennale dello spettacolo degli allora Magazzini Criminali per il Festival di Santarcangelo.
Ora, dieci anni fa, Guaraldi ha riedito Rimini e, nello stesso anno, Riccione. Due libri ai quali ha collaborato Fulvio Panzeri. Il secondo contiene anche un contributo dello stesso Bruschi. Due libri che ritengo utili, ma non riusciti e anche incompleti (ma, si sa, il lavoro filologico è per sua natura infinito). Sono ancor più convinto di questa mia pur modesta e assolutamente ininfluente opinione, osservandone le nulle conseguenze sia sull’editore che su Bruschi.
Bruschi certamente deve ricordare che nel 1985 alla 38a edizione del Premio Riccione-Ater per il Teatro fu premiato l’unico testo teatrale scritto da Pier Vittorio Tondelli, La notte della vittoria (Dinner Party). Lo deve ricordare anche perché fin dal 1999 fu istituito, in seno al Premio Riccione, il Premio Pier Vittorio Tondelli per segnalare il miglior autore under-30 del concorso.
Non dico che chi si è occupato di Tondelli debba avere una cultura enciclopedica sullo scrittore di Correggio, come ce l’ha su De Sica, per fare un esempio, il personaggio di Nicola Palumbo, la caricatura dell’intellettuale, in C’eravamo tanto amati di Scola, che, infatti, perde a Lascia o Raddoppia? a causa di questa sua cultura, tanto profonda da risultare inutile e verbosa.
Ma almeno l’abc, i basilari, i fondamentali sì, quelli ci vogliono. Se non ci sono quelli meglio lasciare che tentare l’infausto raddoppio. O, magari, limitarsi a far sfoggio dell’elegante sprezzatura mostrata da Vittorio Sgarbi e da Oliviero Toscani, tirati per la giacchetta per commentare l’episodio di Santarcangelo. Per parafrasare il semiologo Paolo Fabbri, prima di sdoganare la pipì en plen air, giusto trentanni fa a Santarcangelo si sdoganava il sangue.

“Nel corso degli anni settanta, molti artisti hanno usato il sangue, e anche una grande violenza, per esprimersi: Günter Brus, per esempio, si ‘disegna’ la faccia usando lamette da barba; Rudolf Schwarzkögler addirittura muore per essersi evirato e accecato durante una performance; Arnulf Rainer si avvolge nel filo spinato; il Living Theatre pratica su un attore completamente nudo la tecnica di tortura del ‘Pau de Arara’; Fabio Mauri espone saponette ricavate da cadaveri di ebrei e poltrone in pelle umana marchiate a fuoco con la scritta JUDEUS. Hermann Nitsch, con il suo Teatro delle Orge e dei Misteri usa decine e decine di animali squartati e obbliga i suoi attori a ingurgitare litri di sangue caldo oppure li seppellisce nelle viscere fumanti… Eppure nessuna di queste azioni ha suscitato critiche così violente e spietate quanto la rappresentazione di Genet a Tangeri in un mattatoio, durante la macellazione di un cavallo.”

Ricorda nulla a Guaraldi & Bruschi? È l’incipit della conversazione di Tondelli con Sandro Lombardi dei Magazzini di Scandicci sul famoso affaire del cavallo ucciso e macellato nel mattatoio di Riccione durante il Festival di Santarcangelo (Un weekend postmoderno, Bompiani, Milano 1990, pp. 240-241) il 19 luglio 1985, esattamente due settimane dopo la famosa presentazione di Rimini al Grand Hotel.
Allora era il pubblico di critici ad essere portato là per assistere a un fatto solitamente nascosto ai consumatori di carne, senza nemmeno un briciolo della sensibilità impetrata da Bruschi (al punto che il critico del Manifesto si allontanò prima della scena). Fatto che, come ricorda Lombardi nel prosieguo della conversazione con Tondelli, nella nostra zona non stupì né scandalizzò nessuno, probabilmente perché più memori di una società contadina da cui proveniamo. Ma sullo spettacolo ci si accanì e il fatto giunse sulle prime pagine dei giornali, per non parlare delle denunce delle associazioni animaliste (ma tutto risultò in regola). Andarsi a rileggere la rassegna stampa sullo spettacolo è ancora molto istruttivo e stimolante per una mente che voglia tenersi in esercizio. Dissero la loro, tra gli altri, Enzo Biagi, Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Ugo Volli, Franco Quadri, Carlo Infante, Ferdinando Taviani, Giuseppe Bartolucci, Antonio Attisani, Roberto De Monticelli. I giornali nazionali vi dedicarono ampi spazi dal 21 luglio fino al seguente ottobre. Che splendida e lunga estate fu quella dell’85 per la nostra costa! Allora eravamo davvero al centro del mondo e non per questo mi sento inserito tra i laudatores temporis acti, perché questa è la storia che è “maestra di vita, testimone dei tempi e luce della verita”, come diceva Cicerone, uno che se ne intendeva. Basta andare indietro di 30 anni per vedere la distanza che corre tra quella estate e quella della Rimini d’oggi.
Va da sé che anche allora ci fu chi parlò di “morte del teatro”. Il tempo, tuttavia, ha fatto il suo corso: il festival non è morto per il mattatoio (ne fecero, purtroppo, le spese i Magazzini), né è in decadenza per un orinatoio.
Come disse allora Attisani, è più giusto limitarsi ad affermare che “con il vero si può mettere in crisi lo statuto etico della rappresentazione teatrale”. Per conto mio, penso addirittura che il vero possa mettere in crisi gli schemi della nostra comoda e alienata rappresentazione della realtà.

Nessuno, dunque, tocchi il Festival di Santarcangelo, uno dei pochi punti di eccellenza ancora rimasti nel nostro territorio.
Sono sicuro che Sergio Gambini, che nei suoi pezzi sul Trc ha menzionato lo Slego e la Dimar, abbia esattamente compreso quello che voglio dire. Io, pur essendo stato il titolare dello Slego nelle sue più tre splendide stagioni (1986-1988), onestamente, avrei aggiunto anche il Paradiso, il locale più glamour d’Italia, ma questo forse perché ho avuto la fortuna dal 1973 al 1981 di collaborare con quel “re della notte” che era Gianni Fabbri e con la sua inseparabile “spalla” Giorgio Utili e di essere stato amico di Mike Clark, il suo mitico disc-jockey, lo scozzese giunto in Italia come roadie e poi tecnico del suono dei Senate, dei Primitives e dei Trip, e potrei parlare a lungo dei legami della Dimar sia con il Paradiso che con lo Slego.

Per tornare al tema dopo l’inciso che pur lo riguarda, se Santarcangelo dei Teatri è uno dei pochi punti di eccellenza rimasti, un “centro di gravità” con una lunghissima storia (45 anni!), una delle poche “stazioni” sopravvissute e uno dei pochi motivi per cui vale ancora la pena di venire da noi, altri dovrebbero domandarsi come mai Comune e Provincia di Rimini non facciano più parte del Festival e se non è questo, piuttosto, uno dei tanti sintomi del declino del nostro territorio e segno à rebours del tanto propagandato “cambio d’epoca” e della vacuità di slogan come “il nuovo Rinascimento di Rimini”.
Ferisce, dunque, che la lapidarietà di Guaraldi e la prolissità di Bruschi palesino la sciatteria e l’ipocrisia diffuse che sembrano essere la condizione necessaria per vivere oggi: tollerare pezzi della realtà a patto che rimangano invisibili.
Scandalizzarsi per una pipì? Ma, caro Ponte, non ci sono cose più serie e molto meno trasparenti dell’urina da analizzare e per le quali indignarsi e diffondere l’avviso evangelico “guai al mondo per gli scandali”? Davvero latitano altri scandali, quelli veramente seri, da far entrare in scena?
Se le cose stanno così, ritiro tutto quello che ho detto prima sulla ipotesi di una “internazionale civica” degli intellettuali. Bastano già i danni della politica.
Se le cose stanno così, meglio sarebbe informare la malavita – sottovoce, per non urtare la sensibilità di nessuno –, che Rimini è in vendita. Anzi, ditele anche – se possibile in una di quelle decisive conversazioni che i film ci hanno insegnato essere fatte negli orinatoi – che le diamo la “marina” per 50/90 anni, basta che investano. A condizione che la criminalità resti invisibile. Come sangue, piscia e mattatoi. Come a Las Vegas.
Benvenuti, dopo il postmoderno, nella nuova realtà.

Ora, degli italiani piccolo-borghesi si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano. 
Pier Paolo Pasolini

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