Ceis, “assenza di titolo” per la quasi totalità dei padiglioni

Ceis, “assenza di titolo” per la quasi totalità dei padiglioni

Dal sopralluogo svolto all'interno dell'asilo italo-svizzero la scorsa estate da un tecnico di palazzo Garampi, risulta che solo un padiglione è conforme ai progetti presentati. Ma secondo il capogruppo di Forza Italia, Carlo Rufo Spina, anche su questo ci sarebbe un'ombra. Cerchiamo di ricostruire gli ultimi clamorosi sviluppi della lunga e controversa vicenda del Ceis, insediatosi nel 1946 sull'area archeologica.

L’esito del sopralluogo svolto l’estate scorsa all’interno del Ceis dal tecnico dello Sportello unico per l’edilizia, a quanto si apprende fotografa una realtà abbastanza incredibile. Per la quasi totalità dei padiglioni esistenti risulta la “assenza di titolo” e uno solo – ripetiamo: stando ai rilievi svolti dal Comune stesso – sarebbe conforme ai progetti presentati. Ed è il padiglione 6, il cui progetto risale al 1950: è una struttura a tre piani (di cui uno interrato). In questo caso esiste una licenza edificatoria: l’allora ministero della pubblica istruzione si esprime favorevolmente. Ma anche su questo atto, come vedremo, non manca un’ombra. Per il resto è una sfilza di titoli mancanti.

Cominciamo col dire che le verifiche “sul campo” sono scattate a seguito della interrogazione presentata dal capogruppo di Forza Italia, Carlo Rufo Spina, e il tema venne sviscerato nella commissione di controllo e garanzia, che aveva proprio lo scopo di “appurare i permessi edilizi e lo stato di fatto e di diritto inerente l’area dell’Anfiteatro romano“, come ha ricordato lo stesso esponente della minoranza in un’altra interrogazione, quella del 6 dicembre scorso, quando poi l’assessore Frisoni ha rivelato l’esistenza della relazione stilata dall’ufficio edilizia.

Il progetto originario del Ceis, come si legge nei documenti ufficiali del Centro (dai quali sono tratte anche le immagini che pubblichiamo), aveva tredici  padiglioni, il tutto pensato e disposto “in modo da facilitare il libero incontro di persone e di gruppi, come pure il ritrovarsi con se stessi e l’espressione della propria individualità. L’ambiente del Ceis, e in particolare il giardino, che collega armoniosamente le diverse strutture, rendono vivo il senso della comunità e fanno apprezzare l’ambiente naturale sotto il profilo conoscitivo ed estetico, ma anche nel suo significato sociale, come un bene comune.” (Gastone Tassinari “Il Ceis un esempio di educazione attiva”). Non a caso fu battezzato giardino d’infanzia italo-svizzero e intitolato a Remo Bordoni.

Come ha ricordato ieri il comunicato stampa dell’amministrazione comunale, con una delibera del 12 aprile 1946, palazzo Garampi si assunse “l’onere del collocamento in opera, della sistemazione dell’area assegnata nella zona dell’ex Anfiteatro romano, della fognatura, acquedotto, luce, ecc. colla spesa di lire 2.980.000 finanziata dal Provveditorato regionale Opere Pubbliche”. Ma si trattava di baracche in legno, e soprattutto provvisorie, non certo in cemento armato come poi è invece accaduto. Col passare degli anni da tredici sono scese a otto. E qui cominciano i “buchi”. Mancano i titoli edilizi per gli interventi realizzati fra il 1950 e il 1970 circa, alcuni originari padiglioni risultano ampliati, non sono stati trovati i pareri della Soprintendenza archeologica, mancano i titoli edilizi anche per manufatti adibiti a riparo per biciclette e ripostiglio. Opere che avrebbero richiesto l’autorizzazione sismica, non ce l’hanno. Nel periodo successivo a tale data, invece, pezze d’appoggio ci sono, come nel caso della realizzazione di una rampa esterna per disabili, opere di manutenzione straordinaria, sostituzione di infissi e ringhiere, e così via. Ma a pesare, ovviamente, sono i padiglioni senza titolo.

Torniamo all’unico padiglione che risulta conforme ai progetti depositati. Agli atti c’è un documento del maggio 1950 della direzione generale delle antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione. Ma come fece notare Rufo Spina nella commissione del 2 luglio scorso, è privo di protocollo e firma, il contenuto della licenza a edificare si trova su un foglietto bianco senza intestazione. Che valore può avere?, si è chiesto il consigliere di Forza Italia. Tanto che, sempre nella interrogazione del 6 dicembre, ha sottolineato che la verifica condotta dagli uffici comunali deve riguardare anche “la validità o meno delle presunte autorizzazioni ministeriali del 1950, mediante richiesta al ministero dei beni culturali di rilascio e produzione di una attestazione di conformità espressa delle presunte autorizzazioni del 1950 inserite nel faldone esistente presso gli uffici edilizi del Comune di Rimini”. Su questo punto, l’amministrazione non ha ancora fornito risposta e dovrà essere l’ufficio patrimonio a farlo, che dovrà anche esprimersi sullo “stato di diritto dell’area anfiteatro”.

Tutto questo è avvenuto sull’area archeologica di via Vezia, sottoposta a vincolo nel 1913 (“è proibito fare qualsiasi costruzione”), di proprietà del Comune di Rimini. Cosa succede adesso? La relazione tecnica in questione è stata inviata al Ceis, affinché possa eventualmente integrare e presentare tutte le valutazioni del caso, ma anche alla Procura della Repubblica, alla polizia municipale, alla Soprintendenza dei beni culturali, architettonici e monumentali, e ad altri uffici comunali. La partita resta aperta, e si attende di conoscere la conclusione dell’iter avviato con l’accertamento edilizio. Non bisogna dimenticare il problema della parziale documentazione ritrovata negli archivi comunali. Ma ormai la marcia è stata innestata, e la svolta recente, arrivata dopo decenni di pressing iniziato da Gioenzo Renzi in anni ormai lontani, va ascritta al colpo assestato da Rufo Spina con la richiesta, appunto, dell’accertamento.

Il destino del Ceis è quello di essere trasferito nell’area della stazione e quello dell’Anfiteatro di tornare tutto in superficie. Come dichiarò il prof. Ortalli a Riminiduepuntozero, “nel sottosuolo ci sono significativi resti delle fondazioni murarie”, che “una volta riportate in luce, permetterebbero di restituire la pianta completa dell’intero complesso. In tal modo se ne riconoscerebbe meglio la grande forma ellittica, caratteristica degli anfiteatri, e non quella dimezzata, semicircolare, che può indurre a confonderlo con un teatro. Inoltre, utilizzando in alcuni settori le più moderne tecniche di allestimento (ad esempio leggerissime strutture di metallo) sarebbe possibile richiamare visivamente anche l’alzato degli antichi muri”.

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