Ceis: “Disponibili a lasciare l’area dell’Anfiteatro, ma a tre condizioni”

Ceis: “Disponibili a lasciare l’area dell’Anfiteatro, ma a tre condizioni”

Occorrerebbero circa 20 milioni di euro per costruire altrove il villaggio dell'asilo Italo-Svizzero. L'area ex Fabbri al Ceis andrebbe bene. E il direttore Giovanni Sapucci elenca i tasselli che devono andare al loro posto affinché si possa finalmente recuperare l'area archeologica. Non sono ostacoli insormontabili. Ma fino ad oggi l'amministrazione comunale non ha mosso un dito.

“Siamo legati a questo luogo, siamo qui da 70 anni, e non lo lasceremmo con piacere, ma non faremmo le barricate qualora la città dovesse decidere per il trasferimento del Ceis e per la valorizzazione dell’Anfiteatro romano”. Chi parla è il direttore dell’Asilo Italo-Svizzero, Giovanni Sapucci. Che è anche la memoria storica di questo luogo, essendoci entrato 50 anni fa, nel giugno del 1966, e con l’incarico di direttore dal 1990.
Solo mettendo piede qui si capisce che questo luogo, nato per essere temporaneo, in realtà è stato pensato e costruito per durare. E’ un villaggio con un suo genius loci. “Pur nascendo provvisorio, si proponeva di pensare al futuro dei bambini che crescevano in questa città”, dice Sapucci. E tutto questo diventa un’evidenza varcando il cancello. In mezzo al verde ci sono delle semplici baracche in legno, oltre a qualche struttura in cemento, ma realizzate e disposte secondo un disegno che ha una sua bellezza e pedagogia. E’ uno “spazio che educa”, insomma. Spazi analoghi vorrebbero averli anche tutte le altre scuole di Rimini, che spesso devono invece accontentarsi di edifici che non educano affatto e dunque da questo punto di vista il Ceis è una realtà privilegiata.
Non è farina del nostro sacco, però. Il Ceis è venuto al mondo grazie al Soccorso Operaio svizzero, fondato nel 1935 dai sindacati e dal partito socialista elvetico, ed è venuto in aiuto dei riminesi alle prese con la devastazione della guerra grazie all’intervento del primo sindaco di Milano dopo la liberazione, il socialista Antonio Greppi. Pochi sanno che a lui si rivolsero gli amministratori comunali di Rimini, e in particolare l’allora vicesindaco Gomberto Bordoni, per fare breccia nel Soccorso operaio. La mente tecnica che ideò il villaggio fu quella dell’architetto svizzero Felix Schwarz insieme a Margherita Zoebeli.

Via dall’area archeologica a tre condizioni. “So perfettamente che esiste il problema della permanenza in questo sito”, attacca Sapucci. “Il tema riemerge periodicamente, ma la nostra posizione è chiara: noi facciamo quello che la città ritiene sia giusto fare. Ovviamente ci opporremo se la scelta dovesse essere quella della chiusura punto e basta: almeno fino a quando il progetto educativo del Ceis avrà questi riscontri e riconoscimenti vogliamo continuare a svolgere il nostro lavoro”.
Il Ceis pone tre condizioni per lasciare l’area archeologica. Primo: “Avere un’alternativa praticabile, uno spazio in cui il nuovo insediamento del villaggio possa svilupparsi in orizzontale, e centrale rispetto alla città. L’ipotesi emersa in passato, cioè l’ex area Fabbri, zona parco Marecchia, a noi non dispiace”. Secondo: “Che la progettazione avvenga sotto la nostra direzione”. Terza e fondamentale condizione è quella economica: “Noi qui non siamo proprietari di nulla, tranne della casa costruita dai sindacati svizzeri e che è di proprietà dell’associazione, e una prefabbricata che una famiglia riminese ci ha donato, ma che ha un valore esiguo. Ricostruire altrove una struttura di questo tipo, e va tenuto conto che smontando le baracche non si potrebbero recuperare, consideri che erano già vecchie nel 1945, e quindi bisognerebbe ripartire da zero”.
Avete mai quantificato il costo di un nuovo Ceis? “In maniera approssimativa occorrono 20 milioni di euro per ricostruire una realtà complessa come questa”, chiarisce Sapucci. E avete anche ipotizzato da dove potrebbero arrivate i finanziamenti necessari? “No, non è il nostro mestiere, ma nel momento in cui il nostro trasferimento dovesse diventare un problema posto in modo serio, con le condizioni per poterne parlare, a quel punto si porrebbe anche il tema delle risorse. Penso che dovrebbe essere la città, e in particolare l’amministrazione comunale, ad occuparsi di questo aspetto”.
Purtroppo, però, nemmeno negli ultimi cinque anni di amministrazione Gnassi è stato fatto questo lavoro. Nulla di nulla.
Sapucci mette sul tavolo anche un’altra considerazione: “Il Ceis è un luogo anche architettonicamente di valore, è già uscito un libro sull’argomento (Lo spazio che educa. Il Centro educativo Italo-Svizzero di Rimini, Marsilio, 2012, ndr), e un altro è atteso a breve, a cura del prof. Paolo Ugolini della facoltà di architettura di Cesena. Questo non significa che vogliamo equipararci al valore dei reperti romani dell’Anfiteatro, e nemmeno intendiamo entrare nel merito di cosa ci sia qui sotto, non spetta a noi farlo. Ci siamo trovati qui non per scelta nostra, la collocazione la individuò il Comune nell’immediato dopoguerra. Noi ci sentiamo a tutti gli effetti a servizio della città, di tutta la città”. Al Ceis sta stretta l’etichetta di scuola tenuta sotto l’ala della sinistra. Sorride Sapucci: “Qui sono venuti a scuola i figli di genitori di destra, di sinistra, di centro… E siamo orgogliosi di essere apprezzati da tutti, non vogliamo avere un’etichetta politica”. Però la vicedirettrice del Ceis, Ilaria Bellucci, si candida con la civica “Rimini attiva” a sostegno di Gnassi.

Cos’è il Ceis? La sua particolarità rispetto al panorama scolastico riminese la riassume Sapucci: “E’ una comunità, e così viene percepita e vissuta dai bambini. L’approccio metodologico è infatti quello di una educazione attiva, che vede il coinvolgimento diretto dei bambini, sia sul piano dei percorsi di apprendimento e sia su quello della socialità e della vita comunitaria. Non ci sono divisioni dei ruoli, i bambini sono anche coinvolti nella definizione delle regole e un po’ in tutta la vita della scuola”. All’ora del pranzo li si vede aggirarsi per i vialetti interni con piccoli carrellini coi quali ritirano il cibo in cucina e lo portano a destinazione.
Gli alunni sono 370, dai 2 agli 11 anni. Cinque le sezioni di scuola dell’infanzia, dieci le classi di scuola primaria. Il Ceis è nato come orfanotrofio e mantiene “servizi” che vanno al di là di quelli forniti da una normale scuola. E’ anche struttura semi-residenziale che accoglie, dal lunedì al sabato, 15 ragazzi dai 12 ai 18 anni, con varie difficoltà. Poi c’è un laboratorio protetto per persone disabili adulte (sono 6 in questo momento) inviate dall’Asl e che svolgono un’attività di centro stampa.
Sono 82 le persone che lavorano al Ceis: insegnanti, educatori, ausiliari, cuoche. Salgono a 180 se si comprendono anche quelle coinvolte nei servizi in appalto. L’8% dei bambini che frequentano il Ceis sono disabili, diversi di questi gravi: “Siamo l’unica scuola privata italiana che ha una presenza di bambini disabili così alta, tenga conto che nelle scuole pubbliche a livello nazionale i disabili non superano il 2,5%”, sottolinea il direttore.
In via Vezia 2 si fa scuola a tempo pieno (“è il modo più efficace per lavorare coi bambini anche dal punto di vista dei risultati”): quelli della scuola dell’infanzia entrano alle 8 ed escono alle 16, alla primaria l’orario è dalle 8,30 alle 15.30 dal lunedì al venerdì.
C’è anche un laboratorio (in parte in convenzione con l’Asl) per la dislessia perché il Ceis è stato il primo in Italia, nel 1976, ad occuparsi di questo disturbo.
“Il Ceis è conosciuto in tutto il mondo per il suo progetto educativo, anche qualche giorno fa avevamo un gruppo di insegnanti provenienti dal Belgio venuti a visitare la struttura, ma l’elenco sarebbe lungo: Nuova Zelanda, Australia, Stati Uniti, … La prima settimana di maggio andrò in Salvador perché collaboriamo con il ministero della pubblica istruzione di quel Paese, facciamo loro formazione nella elaborazione di un progetto istituzionale sul tempo pieno. Anche in Palestina abbiamo operatori formati da noi. Le collaborazioni sono molte altre, dal Nicaragua alla Bosnia, dove abbiamo fatto un gemellaggio con una scuola dell’infanzia di Mostar”.

Due conti. Il budget annuo del Ceis è di quasi 4 milioni di euro. Le entrate provengono dalle rette delle famiglie (1 milione di euro), che sono differenziate per reddito in 5 fasce secondo l’Isee, i cui valori sono gli stessi che vengono utilizzati dal Comune.
Poi ci sono i contributi del ministero (circa 600 mila euro) per le scuole paritarie, che coprono il 30% del costo degli insegnanti.
Quindi i contributi dalle convenzioni con Asl e Comuni di provenienza dei bambini disabili, e altre somme che vengono incamerate dalla partecipazione a bandi pubblici. Fra quote di Comuni, Asl e servizi di sostegno si parla di 2 milioni 650 mila euro circa.
Il Ceis ha sempre ottenuto un contributo annuo anche dall’amministrazione comunale di Rimini: 380 milioni di lire in anni lontani, che in seguito sono diventati 100 mila euro. Somma sparita qualche anno fa perché l’uscita per il Comune, soprattutto dopo le strette della spending review, si era fatta ingiustificabile. “E’ stata anche una scelta nostra, abbiamo capito che per mantenerci dovevamo aumentare il giro d’affari e così abbiamo deciso di partecipare ai bandi di gestione dei servizi”, dice Sapucci. Come quelli di sostegno ai bambini disabili nei nidi e nelle scuole dell’infanzia del Comune di Rimini, altre gare d’appalto vinte nei Comuni di Cesenatico (insieme alla Millepiedi), della Valle del Rubicone e Bellaria.

Su un’area archeologica da 70 anni, patrimonio comunale, ma la convenzione col Comune è in corso di redazione. L’abbiamo scritto nella nostra inchiesta su Ceis e Anfiteatro: dal 1995 i Comuni potevano concedere gratuitamente beni facenti parte del patrimonio comunale per “scopi sociali”. Ma questa decisione andava regolamentata attraverso una convenzione (come è stato fatto con l’asilo Baldini). Invece sono passati vent’anni e la convenzione non c’è. E’ in fase di redazione. Importante quanto si vuole, ma nei confronti del Ceis l’amministrazione comunale di sinistra ha sempre avuto ben più di un occhio di riguardo.
“Ci sono state delibere di concessione dell’area ma mai perfezionate con la convenzione”, conferma Sapucci. “Ma va detto che qui è tutto del Comune e il nostro statuto prevede che se il Ceis dovesse chiudere, tutto passerebbe all’amministrazione comunale”.
Gli spazi sono ridotti e non si può battere un chiodo senza l’autorizzazione della Soprintendenza. “Abbiamo un numero di richieste talmente alto che possiamo accoglierne solo un terzo, i posti sono quelli che sono”, ammette Sapucci. Probabilmente in un’altra location il Ceis nell’arco di 70 anni avrebbe potuto crescere molto di più e ospitare più bambini. Ma in via Vezia “più di così, data l’area che abbiamo a disposizione, non è possibile, manca lo spazio. E ogni volta che dobbiamo fare un intervento anche solo di sistemazione di un ambiente, va richiesta l’autorizzazione alla Soprintendenza”. Un altro motivo che dovrebbe convincere a traslocare.

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