Per quasi cinquant'anni ha custodito la casa mariana debordante di ex voto. E' morto lunedì. Se fosse stato per lui ci sarebbe rimasto per sempre accanto alla Madonna di Bonora, ma nel 2004 Mariano De Nicolò lo pensionò. Era da poco esploso il caso dei lampadari "farlocchi". Negli anni 80 subì anche una rapina a mano armata. Ecco la conversazione che realizzammo con lui, e che è venuto il tempo di pubblicare.
Lunedì è mancato un altro sacerdote che nella diocesi di Rimini ha lasciato il segno e che merita qualche notizia in più rispetto a quelle diffuse ieri dalla Diocesi (in fondo si può leggere il comunicato stampa) per annunciarne la dipartita. Così come avevamo avuto la fortuna di parlare con don Lazzaro Raschi, artefice del restauro e della valorizzazione della chiesa di Sant’Agostino, e pubblicare dopo i funerali il testo di una intervista raccolta qualche anno prima, allo stesso modo rendiamo pubblica la conversazione con don Emilio Maresi che risale ad un caldo pomeriggio di luglio di alcuni anni fa, nel piccolo appartamento di Morciano nel quale ha abitato prima di trasferirsi, ultimamente, alla Casa del Clero. Anche se lo trovammo seduto su una carrozzina, in una stanzetta piccolissima, con un ventilatore acceso per rendere l’aria più respirabile, don Maresi era lucidissimo e perfettamente in grado di ricordare i passaggi salienti della sua lunga esistenza.
Scopo dell’incontro era quello di approfondire il tema del santuario di Bonora durante gli anni in cui ebbe la guida di quel luogo pulsante di una fede popolare robusta, costantemente rigenerata dalla presenza della Madonna che allatta il suo figlio. Anche se ritratta con i simboli della regalità, sembra prevalere la madre della terra di Romagna, austera e premurosa. Nella estrema semplicità dell’immagine, gli occhi si piantano in quelli di chi li incontra. E’ una Madonna circondata di ex voto, che debordano in ogni angolo della chiesa tanto che è stato necessario spostarne in gran numero nel salone esterno, e che raccontano il dialogo segreto fra le infinite ferite del corpo e dell’anima e il cuore di mamma «termine fisso d’etterno consiglio».
Don Emilio ha respirato a pieni polmoni in quest’oasi di pace e forse è così che ha forgiato la sua resistenza alle sofferenze, che pure non gli sono state risparmiate.
«Non ho avuto bisogno di fare cose eccezionali per attrarre i fedeli… la gente ci è sempre venuta per spinta propria, per pregare, per ringraziare o per chiedere, per sé o per un familiare o per una persona cara». Furono le sue prime parole di risposta davanti alla curiosità di sapere qualcosa di più sul suo impegno di prete mandato a custodire la “casa mariana” di Montefiore.
«Le fondamenta del santuario poggiano sulla roccia», ci aveva detto, spiegando in due parole non solo un fatto oggettivo e di tecnica edilizia, ma anche un solido riferimento evangelico. Eppure in quella roccaforte don Emilio ha dovuto realizzare molti interventi di restauro e conservativi: «Abbiamo usato 700 quintali di cemento».
Una vita a Montefiore, la sua, e non per modo di dire: «Ci sono rimasto dal 1956 al 2004», quasi mezzo secolo con il titolo di Rettore, come furono prima di lui don Pio Sanchini, mons. Emilio Pasolini, mons. Nevio Ancarani. E in seguito don Ferruccio Capuccini e don Egidio Brigliadori. Ma non fu nel 1956 la prima volta che don Emilio arrivò a Montefiore: «Ci ho messo piede nel 1944 come studente di prima liceo all’interno del seminario. All’epoca il seminario di Rimini era stato bombardato e quello di Bologna non se la passava meglio, per cui i giovani seminaristi furono mandati a Montefiore, dove c’erano gli spazi per accoglierne un centinaio. Le lezioni si facevano per vari mesi all’anno sotto agli alberi».
La Madonna che si venera ha cambiato nel corso dei secoli la sua “fisionomia”: «E’ stata più volte ridipinta, ritoccata, non solo nei colori». Ma il santuario è stato sempre considerato rifugio sicuro non solo per la fede della gente ma anche per i capi della Chiesa. «Mons. Biancheri (vescovo di Rimini dal 1953 al 1976, ndr) era legatissimo alla Madonna di Montefiore e al santuario, si isolava lassù anche per settimane e mi pregava: “non dire che c’è il vescovo”… perché voleva rimanere in silenzio e in solitudine, e poi amava fare lunghe passeggiate». Ma a dare credito alle notizie, confluite anche in un quadro del 400 appartenuto al conte Vincenzo Petrangolini, di cui scrisse in anni lontani Maria Massani, fra i custodi della dottrina di Santa Romana Chiesa che amavano salire a Montefiore ci furono anche due papi: Giulio II e Gregorio XII.

Quadro del 400 di pittore ignoto: Bonora degli Ondidei (1), Gregorio XII (2), Carlo Malatesta (3) e Isabella Gonzaga (4).
Don Emilio Maresi ad un certo punto ha voluto mettere mano anche ai lampadari del santuario: «Ormai avevo sistemato quasi tutto, mi rimanevano quelli. Erano gli ultimi anni che mi trovavo lassù, avevo il desiderio di completare l’opera. Così decisi di farli pulire ma… qualcuno pensava che quei lampadari fossero antichi ed avessero un notevole valore, addirittura che provenissero da Murano. Invece non era così… Certo avevano non pochi anni sulle spalle, una fattura artigianale, ma niente di eccezionale come valore artistico ed economico. Erano stati ossidati con una fiamma a fuoco…». E invece cosa accadde? «Che quando me li riportarono scoprii che non erano quelli che avevo consegnato, li avevano sostituiti con altri lampadari “moderni”. La differenza si notava. Così non sono stato zitto, ho protestato col vescovo (all’epoca Mariano De Nicolò, ndr) e la notizia è uscita anche sui giornali. I lampadari originali non sono più tornati, anche se so che alcuni si trovano presso un’altra parrocchia. Di lì a breve il vescovo De Nicolò mi ha tolto il santuario di Bonora».

«Decisi di far pulire i lampadari del santuario ma quando me li riportarono scoprii che non erano gli stessi che avevo consegnato».
Nel 2004 don Emilio aveva già raggiunto l’età della pensione, essendo venuto al mondo il 19 luglio 1926, ma era in ottima salute e non ci sarebbe stata nessuna urgenza di mandarlo a riposo. Invece andò proprio così. Però non era un prete arrabbiato a causa di ciò che ha dovuto subire. Don Emilio parlando della vicenda dei lampadari la incasellò fra le «storie stupide», certamente da non farci un dramma. La Chiesa abita anche fra queste miserie umane ma non è appesa ad esse. Così ci sintetizzò quel che aveva imparato da quella disavventura.
Ma non fu l’unica inattesa reazione che ci spiazzò. Alla domanda se avesse ricevuto confidenza di miracoli avvenuti per intercessione della Madonna di Bonora, don Emilio senza pensarci un nanosecondo fu fulminante: «Non ho mai dato grande peso alla miracolistica, la nostra fede non ha bisogno di miracoli, il miracolo che ci basta è la croce di Cristo». E non volle naturalmente sminuire il valore delle grazie che in tanti hanno ricevuto, ma richiamare l’attenzione su qualcosa di più essenziale e profondo.
E probabilmente solo un prete così ha potuto passare indenne anche ad una rapina a mano armata. «Anni 80», esordì don Emilio, senza nemmeno ricordare esattamente quale anno, a conferma che per lui il dramma era più che archiviato. «A mezzogiorno entrano nella casa in cui abitavamo all’interno del santuario, delle persone a volto scoperto, con la pistola in mano. Io all’epoca abitavo insieme ai miei genitori. Ci legarono, ci imbavagliarono, ci picchiarono, ci buttarono a terra. Quando se ne andarono io riuscì a liberarmi e a salire in macchina per dare l’allarme. Mi videro e si misero ad inseguirmi sparandomi più colpi, furono trovati quattro bossoli ma probabilmente ne esplosero di più. Uno mi colpì e rimasi ferito, sarei potuto morire… la Madonna mi è stata vicina». Perché tanta ferocia? «Volevano i soldi, che però non c’erano. Poi furono presi e processati».
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