Don Lazzaro Raschi, il piccolo prete artefice del grande restauro della chiesa di Sant’Agostino

Don Lazzaro Raschi, il piccolo prete artefice del grande restauro della chiesa di Sant’Agostino

Mons. Locatelli lo nominò parroco di San Giovanni Evangelista (Sant'Agostino) nel 1985. «All'inizio quando dicevo messa trovavo i pezzi del soffitto a terra». Un impegno titanico quello che ha portato sulle proprie spalle quest'umile ed esile sacerdote, non sempre assecondato nemmeno dai "capoccioni" della Curia. Si sarebbe meritato il Sigismondo d'Oro e ci fu chi lo candidò più volte, ma in Comune lasciarono cadere nel vuoto la proposta. Ora che è morto, all'età di 93 anni, è venuto il momento di pubblicare la conversazione che realizzammo con lui qualche anno fa. Nella quale racconta cosa ha significato riportare al suo splendore quella che Antonio Paolucci ha definito la nostra Basilica di S. Croce.

Don Lazzaro Raschi per circa vent’anni è stato parroco della chiesa di Sant’Agostino, che – parola di Antonio Paolucci – è la Basilica di Santa Croce di Rimini. E se questa perla di notevole bellezza possiamo oggi ammirarla com’è, lo si deve a lui. E’ morto, all’età di 93 anni, lo scorso 12 marzo, accompagnato da poche righe di commiato da parte della Diocesi e senza nessun riferimento allo sforzo appassionato e immenso che lo ha visto dedicarsi con successo alla cura della magnifica chiesa che fu la cattedrale della città fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 e che per secoli ebbe la guida degli agostiniani (da qui il nome, anche se è dedicata a san Giovanni Evangelista). Il prof. Rimondini ha scritto due approfondimenti su questo scrigno di bellezza (qui e qui).

Nell’omelia funebre celebrata proprio a Sant’Agostino, il 14 marzo, alla presenza di tanti sacerdoti concelebranti e di numerosi fedeli, il vescovo Lambiasi qualche riferimento al compito di valorizzazione del tesoro agostiniano  l’ha fatto. Ha detto che «ha servito questa Chiesa fino al punto da rimboccarsi le maniche per il restauro di Sant’Agostino». Ha illuminato il nome di battesimo di don Lazzaro nella sua etimologia ebraica: «Dio ha soccorso, è venuto in aiuto in una situazione estrema». E anche se con questo riferimento mons. Lambiasi ha voluto richiamare soprattutto il soccorso del divino nel momento estremo, quello della morte, perché non diventi una caduta «nella voragine sterminata del nulla», in realtà il vescovo ha fornito la chiave di lettura per la comprensione forse più autentica del misterioso incrocio fra il destino di questo parroco e la chiesa di Sant’Agostino.
«Don Lazzaro è stato un prete buono, così me l’hanno descritto alcuni confratelli che l’hanno conosciuto prima e più di me; un prete che ha voluto servire. E proprio lui parla di servizio nell’unica lettera che si conserva in archivio indirizzata al mio predecessore, datata 26 agosto 2003».
Scriveva don Raschi a mons. De Nicolò: «Eccellenza reverendissima, le segnalo per tempo lo scadere del mio ufficio di parroco. Il prossimo 24 ottobre 2003 sono nel compimento dei 75 anni. Sono stato a servizio della Diocesi per 45 anni di cui 41 come parroco. Ho motivo di dire un grazie grande al Signore per quanto mi ha dato di gioie e sofferenze.» E aggiungeva: «Ora rimetto nelle mani di Vostra Eccellenza l’avvenire della Parrocchia. Sono contento di restituire alla Diocesi e alla città di Rimini la chiesa di Sant’Agostino totalmente restaurata, con l’auspicio di lunga vita ancora e funzionalità. Quanto a me, se Vostra Eccellenza coglierà la fine del mio mandato, intendo ritirarmi a vita privata a casa mia, continuando a prestare quel servizio che mi sarà possibile a chi ne avrà bisogno».
E Lambiasi ha dato lettura anche della risposta di mons. Mariano De Nicolò: «…nell’accogliere la sua rinuncia desidero esprimerle profonda ammirazione e gratitudine per aver donato nei 18 anni di ministero parrocchiale in detta parrocchia un impegno e una dedizione assidui ed efficaci. La chiesa di Sant’Agostino è dopo il Duomo la più bella della città e della Diocesi, insigne per storia e per arte, più volte chiamata a svolgere il ruolo di cattedrale, una chiesa molto amata, frequentata da molti fedeli sia per il clima spirituale che l’arte stessa incoraggia, sia per presenza della tomba di Alberto Marvelli che sarà prossimamente beatificato (accadrà il 5 settembre 2004, ndr). L’amore dei fedeli è stato favorito e incoraggiato dal suo ministero e dall’impegno profuso nei lunghi e impegnativi lavori di restauro che hanno assorbito tante energie e per i quali lei ha certamente bene meritato non solo dalla parrocchia ma dalla Diocesi e dalla città stessa».
Ed ha concluso Lambiasi: «Mi sento di dire un grazie particolare a don Lazzaro perché per me è uno dei tanti begli esempi che io ho ricevuto in questa Diocesi proprio da preti così, di questa razza, di questa schiatta, cioè di preti che quando arriva l’ora di cominciare si buttano e quando arriva l’ora di terminare lasciano, ma anche quando lasciano continuano a pregare, a celebrare l’Eucarestia finché possono, continuano a sentirsi amati dal Signore e continuano a dire con fatti di vita e di vangelo la bellezza della vita del prete. Perciò grazie, caro don Lazzaro».

Nato a Canonica di Santarcangelo il 24 ottobre 1928, don Lazzaro era stato ordinato sacerdote il 3 ottobre 1954 dal vescovo Emilio Biancheri. Il seminario inizialmente non l’aveva frequentato a Rimini perché «non c’era posto e andai dai salesiani a Lugo, dove rimasi per due anni, poi nel seminario di Fermo e infine a Rimini». Così ci raccontava alcuni anni fa quando andammo ad incontrarlo per conoscere un po’ meglio la storia di questo piccolo, e all’apparenza fragile, prete che praticamente da solo e con la forza di un leone è stato capace di trainare la gigantesca opera di restauro della chiesa di Sant’Agostino.
E’ stato cappellano nella parrocchia di S. Giustina (Morciano), poi in quella di S. Martino in XX, quindi S. Maria in Cerreto e Sant’Agostino, dal 1985 al 2003, quando ha lasciato per raggiunti limiti di età e un po’ contrariato dalla decisione, piovuta dall’alto, del cosiddetto “parrocchione”, che vedremo fra poco.

Era stato possibile, alcuni anni fa, incontrare don Lazzaro nella sua abitazione per una lunga conversazione proprio sull’impegno da lui profuso nella chiesa di Sant’Agostino. «Io sono anonimo e voglio restare anonimo, la chiesa è quella che conta non io, non cerco nessuna pubblicità», ci aveva tenuto a sottolineare in quella occasione. Non cercava la celebrità don Lazzaro, anzi, se ne teneva alla larga. Ma adesso che non è più tra noi, ricostruire il suo ruolo è non solo doveroso ma anche una pagina di storia della città di Rimini, e come tale merita di diventare notizia.
«Ero convalescente (mi ero rotto la gamba sinistra) quando il vescovo mi disse di andare a Sant’Agostino e l’ho fatto nel 1985». Questo l’esordio della chiacchierata con don Lazzaro, che mons. Giovanni Locatelli chiamò a prendere il posto di don Sisto Casadei Menghi, morto quando era in gita con la parrocchia a Loreto.

In quali condizioni ha trovato la chiesa di Sant’Agostino al suo arrivo?
«Direi che non era quasi più agibile, quando dicevo messa trovavo i pezzi del soffitto a terra. Era diventata pericolosa e così ho smesso di dire messa nella chiesa grande ed ho sistemato la sagrestia ricavando lo spazio per la “chiesa invernale” riscaldata, dove si sono svolte le funzioni religiose per tutto il tempo del restauro».

Come si era arrivati a questa situazione tanto critica?
«Il 24 giugno 1965 si era sviluppato un incendio che aveva distrutto tutto, il soffitto era “cotto”, il gesso cadeva facilmente».

Quanto è durato il restauro?
«Una decina d’anni, poi è cominciato il restauro degli affreschi del Trecento riminese, che hanno occupato circa 4 anni, quindi la levigazione del pavimento che, ci tengo sempre a dirlo, non va pulito con prodotti aggressivi perché possono rovinarlo, ma solo con acqua. L’ho fatto io tante volte, con la macchina che mi hanno regalato, così come ho spolverato panca per panca…»

Cosa ha significato per lei lavorare così a lungo e intensamente per riportare Sant’Agostino a quella bellezza che oggi tutti ammiriamo?
«Sacrifici enormi e di tutti i tipi, anche economici, ho speso tutto quanto possedevo personalmente per Sant’Agostino. Un grande aiuto dalla città non l’ho ricevuto, anche se ci sono state persone che si sono impegnate molto per il risultato, come Giovanni Rimondini, che ha fatto tanto per far conoscere la ricchezza artistica e architettonica della chiesa e l’importanza della sua piena valorizzazione, ho conservato i suoi articoli di stampa in archivio. Aiuti sono stati dati dalla Soprintendenza di Bologna, poco da quella di Ravenna, ancor meno dalla Curia, che mi diceva: “SantAgostino è una chiesa che viene abbandonata»… c’era la voce che l’avrebbero data al Comune per farne un museo».

E lei come ha reagito?
«Mi sono opposto. Ho detto: ma come, hanno già dato al Comune il palazzo degli Agostiniani, vogliono cedere anche la chiesa? E ho cominciato ad impegnarmi per il restauro dopo aver fatto una serie di ricerche. Venivano a vedere i ‘capoccia’ della Curia e mi dicevano: “sei un illuso, con i mezzi economici che abbiamo non si può mettere a posto una chiesa così…”. Però mano a mano che andavo avanti restavano a bocca aperta e mi hanno dato anche un po’ di soldi. Per il campanile oltre 100 milioni di lire, e poi anche il Comune di Rimini ha messo a disposizione delle risorse».

Ci fu un sindaco che si interessò a quanto lei stava facendo a Sant’Agostino?
«No. Ci fu un assessore che lo fece, col quale parlai più volte, non aveva la delega alla cultura, ma ora non ricordo il nome».

I primi aiuti consistenti da chi arrivarono?
Dalla banca Carim, 50 milioni, all’epoca del presidente Montebelli. Montebelli e Pruccoli si sono molto interessati alla chiesa di Sant’Agostino. Così come il cav. Fausto Felici e Maria Massani. Con quei soldi sono partito perché la parrocchia non aveva un quattrino».

E quanto occorreva per il restauro?
«Feci fare un preventivo, circa 200 milioni di lire solo per pulire il soffitto e rendere gestibile la chiesa. Il progetto minimale di restauro è stato fatto dalla Soprintendenza di Bologna, poi si rese disponibile anche la Soprintendenza di Ravenna e a quel punto mi sono fatto coraggio. I primi tre quarti del soffitto sono stati sistemati con i soldi che sono stati raccolti in parrocchia, a quel punto è stato chiaro di quale tesoro disponessimo ed è stato più facile coinvolgere i parrocchiani. Ho diffuso la voce in tutte le famiglie dicendo che la chiesa meritava e pian piano sono riuscito a far passare il messaggio. Ogni mese facevamo la raccolta delle offerte per il restauro e mettevamo insieme 500-600mila lire. Strada facendo si è anche capito che se non avessimo fatto in tempo il restauro del soffitto sarebbe andato distrutto perché era cadente. Il cannucciato è stato consolidato con 50 quintali di colla: è stato tolto il gesso e poi fatta colare questa colla salendo dal campanile, un lavoro enorme e impegnativo che è durato sette mesi e che ha visto l’impiego di due ditte perché una non aveva tutta l’impalcatura sufficiente».

Poi siete passati agli affreschi…
«Sì, togliendo insieme al Portico del Vasaio quello presente nel cinema e che è stato ricollocato nella chiesa (ora sopra la tomba di Marvelli), poi al crocifisso è stato dato il giusto risalto visto che prima era nascosto… Il crocifisso che si trovava nella prima cappella sulla destra, entrando in chiesa, nel momento del restauro si è scoperto che non era un Cristo in croce ma una deposizione. Resta da restaurare l’organo ma temo non si farà più. Era andato distrutto nell’incendio del 1965, scoppiato nella confinante falegnameria. Alcuni pezzi dell’organo furono portati via dai parrocchiani, altri pezzi in legno andarono al restauro ma quando andai a cercarli non c’erano più. Alcune trombe dell’organo le ho lasciate nell’armadio della chiesa invernale, non so se siano ancora lì».

E non ha mai avuto momenti di scoraggiamento davanti a quest’impresa?
«Come no, certo. E’ stata un’avventura che ad un certo punto mi sembrò non dovesse più finire, mi ero anche avvilito. Ho voluto lasciare a Sant’Agostino una documentazione di tutto quanto è stato fatto: gli anni del restauro, gli affreschi, tutte le date…Avevo realizzato anche una guida, di tipo molto semplice, rivolta al turista. Ho svolto un lavoro di ricerca e catalogazione anche delle tombe sotto il pavimento e di quanto è stato rinvenuto, compresi dei paramenti sacri».

Ma per lei sarà stata anche una bella soddisfazione il risultato di questo lavoro…
«Sì, certamente, ma non ho fatto in tempo a gustarlo del tutto perché arrivò la decisione del “parrocchione”, nell’ottobre 2003».
[Nel settembre del 2003 il vescovo De Nicolò annunciò, dopo una lunga preparazione della decisione che aveva incontrato non pochi malumori nella comunità diocesana, la nascita di un’unica parrocchia (dalle 4 esistenti) per il centro storico. Sede del “parrocchione” la chiesa di Sant’Agostino con parroco don Dino Paesani, insieme a don Vittorio Maresi. Fu in quel momento che don Lazzaro chiese di andare in “pensione”].

Anche nella chiesa di san Martino in XX lei si è dato da fare non poco occupandosi di un importante restauro e di salvaguardare i beni culturali, in particolare è riuscito a non fare disperdere una epigrafe federiciana, che rischiava di essere buttata, e poi un antico e prezioso stemma che invece è purtroppo sparito.
«Sì, san Martino in XX è stato il mio primo impegno di restauro, fra il 1966 e il 1967. Durante i lavori di sistemazione, la lapide federiciana venne trovata nel muro dove sorgeva il camino, è conservata in chiesa in una teca ed è considerata una testimonianza molto importante del passaggio di Federico II di Svevia a Rimini, della nascita dell’ordine teutonico. E’ stata esposta anche in una mostra a Castel Sismondo. Invece lo stemma, che trovai in cantina dove c’erano ancora le macerie della seconda guerra, è rimasto un mistero e poi è sparito, forse rubato, dopo che avevo già lasciato quella parrocchia».
[Grazie all’interessamento di Bruno Ghigi e della Fondazione Carim, la lapide federiciana venne studiata (Federico II di Svevia e l’Epigrafe di San Martino in XX di Rimini, a cura di Anna Falcioni), ed in seguito anche esposta nella mostra “Exempla” organizzata dal Meeting. Se ne occuparono anche Augusto Campana, la prof. Gina Fasoli e Aurelio Roncaglia.]

Ci fu chi candidò più volte don Lazzaro Raschi al Sigismondo d’Oro, ma la proposta non venne mai accolta dall’amministrazione comunale. Fu Marco Ferrini, già presidente della Confraternita di San Girolamo. «Uomo umile e mite, appassionato al bello e alla cura delle chiese a lui affidate nel tempo, è stato l’artefice del recupero e del restauro di uno dei più importanti monumenti della città, culla di quel ricco periodo artistico che ha caratterizzato Rimini: il Trecento riminese», spiega Ferrini. «Con molto coraggio e con pochi sostegni economici ha saputo combattere la battaglia mendicando ovunque aiuti per raggiungere il fine. Il risultato è stato veramente grandioso: ha restituito alla città la chiesa di Sant’Agostino in tutto il suo splendore, uno dei suoi monumenti più importanti e una fondamentale opera che documenta uno dei suoi periodi più significativi. Tutto ciò è avvenuto nel nascondimento più totale, senza alcun clamore mediatico e senza pretesa di riconoscimenti. Per questo ritenni opportuno che la città rendesse merito a don Lazzaro conferendogli il “Sigismondo d’oro”, ma il mio appello cadde purtroppo nel vuoto».

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