Conosciamo l'hotel simbolo, figlio dell'onda lunga dello sviluppo turistico dell'Ottocento e del Novecento di Rimini. E' una creatura Liberty? In minimissima parte. Sulle vetrate neocinquecentesche anche degli inquietanti mascheroni diabolici o fauneschi. Ma cosa ha a che fare il Grand Hotel col film che ha contribuito a costruirne il mito? E poi i ricordi di Arpesella e gli eventi della lunga estate dei festeggiamenti.
di Giovanni Rimondini
Nel Consiglio Comunale di Rimini del 21 novembre 1906 venivano approvati i disegni del progetto Rimini’s Grand Hotel firmati per la Società Milanese Alberghi Ristoranti e Affini dai fratelli ingegneri e architetti luganesi Paolito (1873-1914) ed Ezio Somazzi (1879-1934).
Era la terza tappa dell’onda lunga dello sviluppo turistico dell’Ottocento e del Novecento di Rimini iniziata con lo Stabilimento Bagni di Claudio Tintori e Alessandro e Ruggero Baldini nell’estate del 1843. La seconda tappa era stata nel 1868 l’acquisto comunale dello Stabilimento Bagni dai fratelli Baldini, con l’inizio dello sviluppo della Città di Marina o dei Villini e la costruzione dello Stabilimento che poi verrà chiamato Kursaal. Progetti dell’ingegnere comunale Gaetano Urbani (1823-1879) allievo a Roma di Luigi Poletti il “purista”.
La Società Milanese Alberghi Ristoranti e Affini nel 1906 aveva rilevato dal Comune lo Stabilimento Bagni e si era impegnata nella costruzione di un Grand Hotel.
Paolito Somazzi nel 1913 progetterà in stile rinascimentale la terza sede della Cassa di Risparmio di Rimini e sistemerà tutta l’area detta del Cuor di Gesù, ossia dei Giardini Ferrari, che conservavano fino a pochi anni fa la sua impronta e diverse specie arboree tra cui quattro cedri del Libano centenari – due sacrificati per la costruzione sulla Taberna medicina detta popolarmente la Domus del Chirurgo. A Lugano costruì la Banca Commerciale, il Palazzo della Posta, il Casinò e mezza dozzina di alberghi. A Rimini progettò anche Villa Sorrivoli. In che stile progettò col fratello il Grand Hotel? Tutti gli sprovveduti a dire: Liberty.
Il nome Liberty al posto di Art Nouveau è stato diffuso dal ‘nostro’ Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno (prima edizione 1905). Il termine esisteva a livello popolare anche se era stato criticato nel 1902 dall’architetto Alfredo Melani, allievo di Alessandro Antonelli. Purtroppo quest’uso è prevalso con effetti deleteri: sembra che tutto il primo ventennio del ‘900 abbia prodotto solo architetture Liberty. A nessuno verrebbe in mente di mettere insieme le Avanguardie pittoriche contemporanee sotto un unico stile – Postimpressionismo, Futurismo, Cubismo, Astrazione, Le Secessioni, Art Deco, ecc. – ma non si sa bene perché si mette sotto Liberty – nome di un negozio londinese specializzato in oggettistica artigianale contadina inglese – linguaggi diversi come il Floreale, l’Eclettico, il Neogotico, il Neobarocco e altri.
Ma procediamo ad un esame ‘filologico’ dell’edificio del Grand Hotel – le due Cupole sono bruciate nel 1920. Ebbene, ci contraddiciamo subito, qualcosa di Liberty c’è: le due serre in alto negli angoli, sono caratterizzate nei ferri battuti dalle famose curve a colpo di frusta, che insieme al linearismo, alla mancanza di elementi classici, come paraste, trabeazioni e simili, caratterizzano il vero Liberty. Queste inferriate presentano anche le rose quadripetale, tanto per strizzar l’occhio agli storici di Rimini malatestiana. Ci sono poi in una struttura a U otto torri con trabeazioni e paraste, ognuna con una sorta di timpano a omega, tutti ricordi barocchi e neoclassici, come i muri a bugnato liscio continuo…
Ma attenzione, guardate bene, ci sono anche testimonianze di gusto Floreale. Foglie e frutti di Ippocastano al naturale e nella versione che semplifica le forme vegetali e le geometrizza. Ci sono poi ornamenti antropomorfi: grandi mascheroni femminili – Ninfe, Naiadi, Sirene del Mare? – e nel piano verso il giardino, dove sono delle vetrate neocinquecentesche, dei mascheroni diabolici o fauneschi un po’ inquietanti – rappresentano il sesso e il denaro selvaggi e distruttivi? -.
Guardiamoci infine dal confondere il ‘nostro’ vero Grand Hotel con quello ‘onirico’ di Amarcord situato sulla costa del Tirreno, invenzione bastarda di Federico Fellini.
Il tempio del lusso e le atmosfere raffinate
“Nel 1908, quando nacque il Grand Hotel, questo era il turismo, questo lusso. Oggi il turismo è questa città che non finisce mai, lunga centinaia di chilometri e abbarbicata alla costa. Per me che ero figlio povero di un operaio turatiano era un sogno. Era l’America. Solo che quando l’ho conquistata è passata in fretta”. Così parlava Pietro Arpesella nel 1986. Il tempio del lusso in mezzo al turismo di massa. Con le sue memorie ormai scolpite nella storia: Mussolini e Claretta Petacci, Max Grundig (il fondatore della famosa azienda di elettronica) che arrivava coi suoi jet privati e l’autista con la Mercedes “e regalava radio e televisori per mancia”. Re Faruk, ministri, attori, Federico Fellini. La lista è lunga. Ma anche tanti altri personaggi “meno famosi ma forse più bizzarri, play boy tristi e un barone che per mancia lasciava veri e propri stipendi”, raccontò ancora Arpesella. “Per questo il nostro barman dopo qualche anno ci piantò in asso: aveva comprato quattro palazzi a Roma, poteva vivere di rendita”. Perché erano gli anni del boom, “scoprivamo la nostra America, la ricchezza, ed esibirla era normale, giusto, logico. Le signore non prendevano mai l’ascensore, scendevano le scale fino alla hall, esibendo i loro gioielli come in una passerella di Wanda Osiris”.
Pochi ricorderanno le atmosfere raffinate del Grand Hotel ai tempi di Arpesella: dagli alberini di Natale accesi sul davanzale di tutte le 250 finestre, alla festa dei fiori: “Trasformammo l’hotel in un giardino e la piscina era tutta ricoperta di boccioli e di petali”. Oppure eventi davvero unici, come la festa zigana, sulla spiaggia antistante il Grand Hotel invasa da fuochi e carrozzoni.
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