La “cura” San Patrignano (ad oggi nemmeno un positivo) contro il coronavirus

La “cura” San Patrignano (ad oggi nemmeno un positivo) contro il coronavirus

Nella comunità di recupero non hanno atteso i decreti e le ordinanze per introdurre severe misure finalizzate a tagliare le fonti di possibile contagio. Una unità di crisi interna ha preso decisioni tempestive. Parla Antonio Boschini, medico infettivologo di Sanpa.

Abbiamo intervistato il dottor Antonio Boschini che da quarant’anni vive a San Patrignano, dove riveste la carica di responsabile sanitario della comunità. Il medico è specializzato in infettivologia. Non potevamo trovare persona più qualificata per rispondere alle nostre domande sugli effetti che il Covid-19 ha prodotto sulla comunità di recupero per tossicodipendenti più grande del mondo.

Dottor Boschini, come state vivendo questo difficile periodo a SanPa? Avete avuto contagi?
Il dato sanitario attuale, con tutti gli scongiuri e le scaramanzie possibili e immaginabili è questo: al momento, qui a San Patrignano la situazione è tranquilla. Non posso esprimermi sul futuro, ma solo sul presente e sul passato. Farei la firma affinché la situazione rimanesse uguale a quella che viviamo oggi.

La vostra invidiabile situazione ha del miracoloso.
Noi eravamo già chiusi poco prima che fosse emanato il Decreto del presidente del Consiglio dei ministri che prevedeva la chiusura delle attività di ristorazione (dal primo di marzo alla pizzeria Spaccio era già imposto un metro di distanza almeno, tra i commensali; il locale è rimasto aperto solo fino al giorno 7. Molti altri non si sono lasciati sfuggire l’8 marzo; ndr). Direi che in parte siamo stati bravi, in parte fortunati, e per chi crede, un po’ protetti… diciamo. Ecco, a mio modo di vedere, queste sono le tre fondamentali componenti del nostro stato attuale. Una cosa sono il passato e il presente, per il futuro, si vedrà.

Il dottor Antonio Boschini (le fotografie risalgono al periodo precedente all’emergenza covid-19)

Oltre che fortunati, pare che siate stati anche veramente bravi, dottore.
Forse sì perché abbiamo operato alcune scelte, a volte difficili, ancora prima che ci venissero imposte. Dal momento del “paziente di Lodi” abbiamo chiuso le porte della comunità: bloccato tutti gli inviti dei parenti in visita qua, fermato i nuovi ingressi di tutte le persone che chiedevano di entrare in comunità, e bloccato le verifiche che i ragazzi vanno periodicamente a fare a casa, quando sono nella seconda fase del percorso previsto dalla terapia.

Quindi, periodicamente, ai ragazzi che sono a SanPa è concesso di tornare a casa?
Sì, ma come dicevo, solo per coloro che entrano nella fase 2. È previsto che questi ogni tanto tornino a casa per andare a trovare i genitori, per cercare lavoro e anche per “avere il polso” della loro condizione.
Con l’attuale contingenza cerchiamo di tagliare tutte le fonti di possibile contagio, comprese le visite esterne che come lei saprà sono molto frequenti per una serie di motivi legati anche alla comunicazione. Devo dire che le misure adottate sono state prese con un certo anticipo rispetto a quanto è stato fatto a livello politico regionale e nazionale. È capitato che qualche ragazzo che rientrava dalla Lombardia, magari tornato a casa per la verifica, prima che si scatenassero i drammatici contagi di quella regione, sia stato tenuto in isolamento. Lo abbiamo fatto abitare da solo in una casetta per il tempo utile per assicurarci che non avesse alcun disturbo riconducibile al Covid-19.

Non si può certo dire che vi siate mossi con superficialità. Altrove, di esempi ce ne sarebbero…
Abbiamo cercato di fare molta attenzione. Le strategie da adottare sono prese dall’unità di crisi che abbiamo approntato per contrastare il coronavirus. Il merito va diviso. Siamo un gruppo eterogeneo che si riunisce e prende decisioni che non sono necessariamente di esclusivo taglio sanitario. Intendo dire che non sono le uniche che vengano considerate. Ci sono altre valutazioni che ad esempio riguardano l’aspetto sociale. La parte sanitaria è sicuramente importante, talvolta persino preponderante, ma non è l’unico obiettivo.

Però il suo parere, in quanto infettivologo, deve per forza essere stato decisivo.
Sì, guardi però che ci sono iniziative che dal punto di vista sanitario potrebbero avere un senso, tipo “testiamo tutti” o altre che potrebbero essere certamente utili sotto quel profilo, ma nello stesso tempo negative sotto quello della preoccupazione e dell’ansia che si suscita nelle persone. Va però rilevato che non abbiamo avuto motivi clinici per dover fare dei test perché fortunatamente, non avendo avuto problemi di quel carattere, si è deciso di tenere un profilo basso e concentrarci sulle contromisure da prendere per evitare che il virus potesse entrare in comunità.

Certo che se per ipotesi aveste avuto la sfortuna di avere anche un solo caso di positività, sareste stati costretti a fare il tampone a tutti. In una comunità così chiusa, avreste rischiato molto.
Sì, è previsto anche un “piano B”, ovvero cosa fare in caso di Covid 19 all’interno della Comunità: ad esempio abbiamo destinato una vasta area per eventuali isolamenti, e conserviamo un rapporto di stretta collaborazione con il Reparto di Malattie Infettive di Rimini (nato all’epoca dell’AIDS) per eventuali necessità di ricovero ospedaliero. Inoltre sappiamo che l’età media dei nostri ospiti è inferiore ai 30 anni, in cui è raro vedere gravi complicanze di Covid 19. Questo ci dà un qualche conforto. Però è certo che dobbiamo fare di tutto per evitare questo, anche perché, a prescindere dai problemi clinici, bisogna considerare anche le ripercussioni psicologiche: non dimentichiamo che da questo punto di vista buona parte dei nostri ospiti ha già di base delle fragilità.

La conduzione di una realtà come questa dev’essere tutt’altro che semplice…
Diciamo che in linea di massima siamo abituati a fronteggiare situazioni piuttosto difficili. Con i responsabili della comunità ci incontriamo ciclicamente e tutte le decisioni prese vengono riaggiornate ogni 3 o 4 giorni. Inoltre, ogni tanto, sentiamo il bisogno di confrontarci con tutti gli ospiti, per aggiornarli sulla situazione sanitaria della Comunità, e sulle decisioni prese. Ci sono una serie di iniziative adottate che portano sempre a una riduzione progressiva di possibili rischi di contagio.

Per esempio?
Le persone che lavorano a San Patrignano, ma che vivono fuori, devono sempre entrare indossando le mascherine “chirurgiche”; per quanto riguarda gli educatori che vivono all’interno della Comunità, si va a fare spesa all’esterno soltanto una volta alla settimana per famiglia. Chi, come me ci vive dentro, non esce praticamente mai. Ma in definitiva, queste sono le stesse regole che detta l’Istituto Superiore di Sanità.

Qui, voi avete il privilegio di poter controllare molto agevolmente tutto. Siete come una piccola città.
Ha ragione, questo è senza dubbio un vantaggio. Ma è chiaro che la paura è tanta. Vivo sempre un po’ con il cuore in gola e come me tutte le persone e gli addetti della comunità perché la responsabilità è molta e anche le paure lo sono, quindi si cerca di spaccare sempre il capello in quattro e qualche volta succede anche di prendere misure eccessive, ma talvolta è meglio sbagliare per abbondanza.

Come riuscite a far rispettare la distanza di sicurezza in mensa? I ragazzi sono numerosi.
Facciamo due turni pieni. Nella sala (che potrebbe accogliere duemila persone), mangiano in cinquecento nel primo turno e altrettanti nel secondo. E ogni persona è distanziata di un metro e mezzo dall’altra e poi ogni gruppo di ragazzi è separato di qualche metro da un altro gruppo. Lo stesso vale per quando si guarda la televisione. Purtroppo, non ci sono più azioni in collettività, le riunioni si fanno il più possibile via telefono o via Skype e con altri sistemi. Molti lavorano da casa; lo fanno da remoto, esattamente come succede fuori.

È un bene che i ragazzi siano impegnati. Più si è in attività, meno si pensa e meno si ha paura, vero?
I ragazzi sanno perfettamente cosa sta succedendo fuori. Insieme, se ne parla spesso, poi guardano i telegiornali, le trasmissioni a tema, si documentano. Ho l’impressione che buona parte di loro siano più preoccupati per le loro famiglie o per i loro nonni che per sé stessi. Inizialmente temevo che avessero molti timori per la loro persona, ma via via che passa il tempo, l’ansia per sé stessi tende a diminuire. Forse perché vedono che a loro non sta succedendo nulla di grave. Per contro, tende ad aumentare la preoccupazione per parenti e amici che hanno a casa loro. Anche per le ripercussioni economiche, per le attività o gli impieghi dei parenti. Direi che ora sono queste, le principali preoccupazioni dei ragazzi.

Per contrastare queste e altre angosce hanno a supporto anche psicologi molto preparati. È così?
Normalmente, sì. Adesso non vengono nemmeno loro. In caso di necessità li si contatta via Skype. Per noi, tutti gli esterni ora rappresentano un potenziale pericolo. Pensi che per questo motivo due medici della Comunità (Marco Begnini e Raffaella Poletti), per potersi rendere utili in questo momento di emergenza sanitaria, si sono messi a disposizione dell’ASL e attualmente seguono al domicilio pazienti Covid che non necessitano di ricovero ospedaliero.

In proposito, come vi siete regolati per le mascherine? Per caso, le avete autoprodotte?
In primo luogo le mascherine, che mancano negli ospedali, mancano anche a noi, o almeno, ne abbiamo solo una quantità limitata, ampiamente insufficiente per tutti gli ospiti. Tuttavia, visto che il “piano A” sta funzionando (per telefono, gli scongiuri non si vedono, ma il dottor Boschini, giustamente, li sta facendo…;ndr), le poche persone costrette a uscire per ragioni di forza maggiore, usano le mascherine a scopo protettivo, quindi quelle con filtro (le FFP2 e FFP3; ndr). Invece, tutte le persone che sono costrette a entrare qui per motivi di lavoro (educatori, infermieri o addetti la cui presenza in comunità è assolutamente indispensabile) usano le mascherine chirurgiche, quelle atte a proteggere gli altri.
Naturalmente, le forniamo noi e vengono tenute costantemente addosso. Quanto a produrle, no, i ragazzi che lavoravano nei reparti artigianali, ora fermi per decreto ministeriale, stanno impacchettando disinfettanti per le mani, peraltro non creati da noi. Collaboriamo con chi li sta producendo. I ragazzi si occupano essenzialmente del “packaging”.

Sarebbe sbagliato affermare che in virtù di una rigorosa ortodossìa sanitaria siete nella medesima invidiabile posizione di Ferrera Erbognone in provincia di Pavia? Il piccolo paese lombardo conta una popolazione di 1200 abitanti, un numero quasi identico a quello della vostra comunità e anche voi siete a “quota zero” contagi. Il sindaco della cittadina pavese dubita che ci sia un motivo legato alla genetica, bensì al fatto che la popolazione è stata ligia nel rispettare le cautele prese con le ordinanze. Voi sembrate essere sulla stessa linea di pensiero, ma soprattuto di azione: da subito, avete adottato misure molto rigide.
Abbiamo fatto ricorso a misure molto drastiche (e finché sarà necessario, continueremo in questo solco), ma sono scaramantico e non voglio cantare vittoria finché tutto non sarà finito. Se la fotografia della situazione rimanesse come quella di oggi, ne saremmo tutti veramente felici. Tuttavia, ricordo che non si deve vivere di rendita. C’è di buono che anche qui in zona pare che le cose comincino ad andare leggermente meglio. Speriamo bene…

Certo, dottore, speriamo bene. Complimenti per la vostra comunità e per come state gestendo al meglio l’emergenza. Incrociamo le dita. A presto rivederci, magari in pizzeria.

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