Lo scultore che ha fatto del Borgo San Giuliano una installazione artistica diffusa

Lo scultore che ha fatto del Borgo San Giuliano una installazione artistica diffusa

Da circa due anni e mezzo e da un giorno all'altro, sulle variopinte abitazioni del quartiere spuntano improvvisamente qua e là, quasi uscissero, partoriti dalle pareti, visi spigolosi, volti contornati da sassi, profili filiformi, sirene, pesci, ali di angeli. Sono le opere di Giovanni Bonci. Siamo andati a trovarlo ed è stata una sorpresa.

Se un tempo il Borgo San Giuliano era forse il quartiere più povero e malfamato, di sicuro era il più degradato e meno considerato di Rimini. Oggi è un luogo molto ambìto dove vivere ed è ritenuto il più caratteristico e creativo della città.

Via Forzieri con, a destra in giallo, casa Bonci, nel Borgo San Giuliano.

Dal civico 35 di via Forzieri, nel cuore del vecchio abitato di pescatori, ha preso vita una sorta di “installazione artistica diffusa” che poco a poco si sta diramando nelle strette viuzze e nelle piazzette che i turisti sono soliti visitare con naso all’insù. È il singolare riconoscimento scultoreo che un generoso borghigiano tributa non tanto ai proprietari, quanto alle case stesse, come tiene a precisare.

Da circa due anni e mezzo a questa parte e da un giorno all’altro, sulle variopinte abitazioni del quartiere spuntano improvvisamente qua e là, quasi uscissero, partoriti dalle pareti, visi spigolosi, volti contornati da sassi, profili filiformi, sirene, pesci, ali di angeli, ancora pesci alati e concetti espressi su pietra o altri materiali.

Incontro Giovanni Bonci, lo scultore del Borgo, nella bella casa di via Forzieri. La storia delle abitazioni del Borgo ricordano un po’ quella dei “mews” di Londra, in origine umili stradine acciottolate secondarie, alle spalle della ricche residenze, dove si trovavano le stalle della nobile “elite” georgiana e vittoriana, ora ricercatissime e introvabili se non a prezzi stratosferici, dopo anni e anni di decadimento. Letteralmente dalle stalle alle stelle.

Negli anni ’60, da molti decenni venuta meno la necessità di avere ricoveri per i cavalli, soppiantati da quelli a vapore, gli ex piloti automobilistici (non è un caso) John Surtees e Antoine Lurot favoriscono l’escalation immobiliare che oggi ha reso le “mews house” case molto ambite. Lo stesso fenomeno, una trentina di anni più tardi, si verifica per le dimore borghigiane di San Giuliano. «Nel 1984, quando ho comperato questa casa», racconta Bonci a conferma di quanto scritto, «per il fatto di venire a vivere in un borgo sudicio, malfamato e a detta di molti, invivibile, mi davano del matto. Ma alla fine ho avuto ragione io». Appena varcato l’uscio della sua casa, i primi ad accogliermi sono due festosi e docili “labrador”, uno di manto chiaro e l’altro di manto scuro per par condicio cromatica.

In seguito, leggendone le caratteristiche, apprendo che questa razza di cane è spesso presente a bordo delle barche dei pescatori di Bretagna e Normandia. Ecco che un inaspettato filo rosso di cui dirò in seguito, mi porta d’un balzo al mio ospite: originario dell’aretino, precisamente di San Giovanni Valdarno, Giovanni Bonci è sposato con una ragazza di origini italiane. È il 1967, entrambi lavorano con i genitori di lei. Collaborano tutti insieme alla gestione di un ristorante a La Rochepot, località a una sessantina di chilometri da Digione, dipartimento della Côte d’Or in Borgogna, una delle miniere francesi di “oro rosso”: il vino. Parigi è a poco più di 310 chilometri a nord-ovest. All’epoca ventottenne, in una pausa di lavoro, durante una passeggiata in campagna Giovanni scorge una pietra bianca e apparentemente molto dura che gli ricorda immediatamente il profilo di un viso. Il giorno dopo torna nel luogo dove l’aveva vista, la recupera e la porta a casa. Con alcuni colpi di martello e scalpello completa la forma che la natura stessa aveva già parzialmente indicato. È l’inizio di un amore, quello per la scultura, che Bonci non abbandonerà più.

Quando espone l’opera all’interno del ristorante, capisce subito che il suo lavoro piace. Infatti, dopo pochi minuti un cliente della trattoria la compera ed esce, tenendola con orgoglio sotto il braccio. «Ogni volta impiegavo sei o sette giorni di ricerche per trovare le pietre che poi lavoravo invece molto velocemente». Giovanni adopera ogni materiale che lo ispiri e su cui avverte, con una vibrazione interiore, la possibilità di utilizzarlo.

Creatività allo stato puro. Il vetro di una Fiat 124 trasformato in una applique da parete.

Cosa che ad esempio è accaduta con il vetro di una vecchia Fiat 124. Giovanni e Margherita, sua seconda moglie (dalla prima ha divorziato nel 76) lo hanno sabbiato e in seguito decorato con simboli dei tappeti “kilim” per farne un’applique da parete. Il risultato, ancorché attraente e originale è una lodevole forma di riciclo. Anche sul grande specchio e sul camino c’è il tocco deciso e determinante di Bonci, una quinta marcia che dà alla casa lo “zing”, termine che qualche “chef” adopera per significare che il piatto ha un guizzo, un’energia e una vivacità in più.

Lo stesso dicasi per il giardino interno, regno verde e creatura esclusiva della moglie Margherita. Tornando alla scultura, va precisato che quella di Bonci è spontanea, molto istintiva. Se si vuole la si potrebbe perfino definire primitiva, proprio perché non ha mediazioni, non ricorre a strategìe che lavorino sotto traccia o a tortuosi significati reconditi.

Ciò è tanto vero che lo scultore, ricordando le esperienze con la pietra sostiene questo: «Avevo dei partner che mi davano le idee: erano il sole, l’acqua e il vento che corrodevano, creavano il primo respiro alla pietra, davano un abbozzo di forma che poi trasformavo a modo mio, pur seguendo la primaria indicazione. Nei limiti del possibile, continuo tuttora a farlo. Di pietre, una volta esposte in trattoria, per quante ne scolpivo, tante ne vendevo. Un giorno passa dalla trattoria una gallerista parigina. Vede qualche mia scultura. Mi chiede se sono in grado di realizzarne una ventina per una esposizione. Rispondo di sì. La mostra si fa, le opere vengono vendute tutte. Un successo. Ma io, per timidezza, al “vernissage” non vado nemmeno».

Qui e sotto, due particolari dell’interno di casa Bonci.

Dopo l’exploit “in contumacia”, Bonci non ha più ripetuto l’esperienza, ma confessa che comunque non ha mai considerato la scultura un mezzo di sostentamento o come attività primaria. Egli scolpisce principalmente per piacere. E un’altra sua prerogativa è di non stare mai fermo, tanto che anche quando era in Francia a un certo punto si è trasferito in Loira e in Bretagna ed ecco il “fil rouge” a cui accennavo, perché probabilmente è in Bretagna che il “nostro” ha cominciato ad apprezzare i labrador, il loro carattere docile e il rapporto che hanno con l’acqua.

Alla fine degli anni ’70, quando torna in Italia, Bonci ha divorziato già da tempo. Si risposa nel ’90 con Margherita e con lei apre un’attività nel settore ittico con sede a Cesenatico. Ma vivono e continueranno a farlo, nel Borgo San Giuliano. Giovanni non ha nessuna intenzione di mettere martello e scalpello in pensione, anzi: ci è andato lui, per dedicare ancor più tempo al proprio hobby. Per farlo, ha allestito un piccolo laboratorio in casa per i lavori minuti e un atelier a Secchiano Marecchia per le realizzazioni più ingombranti. E come sopra accennato, farà il possibile per donare una sua scultura a ogni casa del Borgo. È una promessa.

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