Pino, il Barbiere

Pino, il Barbiere

Pino, Giuseppe Bianchi, noi lo chiamavamo con il dovuto rispetto, Grena.

La prova del nove non era il bar. Tutti, più o meno, avevano titolo per entrare. Per parlare c’era tempo, ma piano piano qualche commento ci poteva scappare. Ma la raggiunta maturità, l’attestazione ufficiale di essere finalmente entrato nel giro di quelli che contano, era quando ti potevi permettere di andare all’Università. L’Università non era la grassa Bologna o la ducale Urbino. Era la bottega da Barbiere di Pino.
Pino, Giuseppe Bianchi, noi lo chiamavamo con il dovuto rispetto, Grena.
Grena è un soprannome particolare, unico, esotico. Nella bottega del figaro ci si laureava in Scienze Umane e Storia in quattro anni, e poi i più bravi, ma bisognava avere gli attributi e studiare anche di notte, si otteneva la specializzazione nella sublime arte del cazzeggio. L’arte del cazzeggio si sviluppava soltanto se c’era il giusto tessuto sociale, e soprattutto, un serio corpo docente.
Nella Barbieria di Grena i professori abbondavano. Ricordo Chino, Goli Gagliano, mio fratello e il Magnifico Rettore, Vinicio Monticelli.
Erano tempi di vacche magre, e l’ingegno sostituiva la moneta che correva poco.
Si rideva per le patacate, per la strada la gente cantava, e i muratori fischiavano alle ragazze.
Al sabato pomeriggio arrivava la ciambella e la simpatia della mitica Laura, moglie di Grena, e la bottiglia di Sangiovese.
Volendo, qualcuno durante la settimana si faceva la barba e si tagliava anche i capelli. Per lo shampoo dovevi presentare domanda il giorno prima.
Insomma, per farla corta, la Barbieria di Grena era il centro del mondo di un Paese che non c’è più.
Grazie Pino, di tutto.
Rurali sempre.

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