Chi l'ha detto che il governatore è stato riconfermato grazie al "buon governo"? La grande partecipazione dell'elettorato di sinistra, sfiduciato dal Pd e dalla sua prassi amministrativa, è scattata in difesa dei valori simbolo radicati in Emilia Romagna e contro l'invasore sovranista. Anche il sindaco di Rimini si prende meriti che non ha. Il ruolo della Lega.
Matteo Salvini è stato determinante nel risultato elettorale regionale. Per due ragioni fondamentali: perché ha dimostrato che non esistono più roccaforti rosse e la vittoria è riuscito a sfiorarla; ma determinante lo è stato anche nella vittoria di Bonaccini. Sembrerebbe un paradosso ma non lo è.
Senza Salvini praticamente in pianta stabile in Emilia Romagna non ci sarebbe stato prima il risveglio di quella “fede” di sinistra che ha fatto decidere di tornare alle urne tanti delusi dal Pd e anche dalla Regione amministrata da Bonaccini, e poi, davanti alla scelta fra accettare l’invasore o tenersi il figlio legittimo della propria terra e della propria tradizione politica, pur con tutti i suoi limiti, la volontà di imboccare la seconda strada.
Senza Salvini non ci sarebbe stata la partecipazione popolare ai livelli che la sinistra non riusciva più nemmeno ad immaginare. Non bisogna dimenticare a quali vette di assenteismo aveva fissato l’asticella il voto emiliano-romagnolo nel 2014, deluso dalla prassi amministrativa del Pd: il 37,76% contro il 67,68% di domenica scorsa. L’impronta popolare della Lega ha rimesso in gioco il popolo, anche quello che il Pd aveva perso per strada. E adesso Bonaccini vede l’urgenza di una “nuova ripartenza”.
Senza Salvini e il suo progetto di dare la spallata al sistema emiliano-romagnolo probabilmente non ci sarebbero state le sardine, che debuttano a novembre (ancora non si sa bene dietro a quale “regia”) a Bologna in piazza Maggiore come “argine” alla Lega che al Paladozza lancia Lucia Borgonzoni. A Rimini insieme alle sardine in piazza Cavour si sono visti volti di sinistra che con la classe dirigente del Pd, il sindaco Gnassi e il sistema di potere emiliano-romagnolo targato Pd non hanno nulla da spartire, ed anzi si collocano ad una distanza abissale. Si potrebbero fare tanti nomi e cognomi. Probabilmente è successa la stessa cosa un po’ in tutta Italia.
Il voto a Bonaccini è stato in larga parte influenzato dal pathos antisovranista e dal ritorno ad un coacervo di affetti ideali radicati in Emilia e in Romagna. Quegli stessi affetti che hanno riorientato anche la grandissima parte dell’elettorato 5 stelle verso Bonaccini.
Prima che un voto sul “modello” emiliano-romagnolo (criticato per molti aspetti anche dalla Cgil nel suo rapporto dell’Osservatorio dell’economia e del lavoro), quello che ha riconfermato Bonaccini in Regione è stato dettato da una reazione del cuore e da ideali che l’elettorato di sinistra aveva messo in soffitta e che lì sarebbero rimasti senza gli eventi ricordati. A questo bisogna aggiungere il muro alzato dalla chiesa e dai suoi mondi notoriamente più vicini al centrosinistra soprattutto in Emilia e in particolare nell’epicentro dossettiano di Bologna. Una chiesa che si è sentita sfidata nella sua pastorale “francescana”.
Le aree geografiche più “rosse” si sono risvegliate mentre alcune di quelle a maggioranza centrodestra non si sono entusiasmate per certi toni e molto di questo elettorato è rimasto a casa e in parte ha preferito lo status quo.
Scrive oggi un analista politico serio come Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, che “Matteo Salvini ha ragione quando dice che questa è la prima elezione, nella storia dell’Emilia Romagna, in cui ci sia stata una vera competizione. Per la prima volta, il partito dominante da sempre è stato sfidato con qualche chance di successo”. E che “effettivamente l’Emilia Romagna è diventata contendibile e il Pd farebbe un errore se pensasse che nulla è cambiato, che tutto è come prima”. In realtà ben più che qualche chance, come potrebbero testimoniare tanti amministratori del Pd che hanno visto la sconfitta in faccia e che in una certa fase disponevano di “ritorni” molto preoccupanti. Ma, soprattutto, aggiunge Panebianco “nazionalizzando” la campagna regionale Salvini ha “spinto dall’altra parte gli elettori incerti, ossia quelli che decidono davvero delle vittorie e delle sconfitte”.
“E’ stato un errore madornale da parte dei leghisti attaccare i governanti regionali uscenti sulla sanità (una delle meglio amministrate del Paese). Hanno solo ottenuto l’effetto di spaventare tutti quegli elettori che, sapendo come stanno davvero le cose, non vogliono cambiamenti nel settore. Avrebbero invece dovuto dire: noi non muteremo una virgola di tutto ciò che funziona bene (come appunto la sanità). Vogliamo invece creare altrove discontinuità. In particolare vogliamo colpire quelle incrostazioni di potere che si formano inevitabilmente laddove un gruppo politico governa senza ricambio da tanti decenni. Avrebbero dovuto fare, insomma, una campagna rassicurante. Hanno spaventato gli elettori incerti”. E’ questo un altro passaggio dell’analisi di Angelo Panebianco.
Probabilmente al politologo sfuggono i risvolti più controversi della sanità regionale e soprattutto l’imprintig “statalista” che la regola, pur in un quadro che certamente risulta positivo tanto più se messo a confronto con altre sanità di altre Regioni. Ma per descrivere il reale stato della sanità in questa regione sarebbe stato necessario un lavoro di approfondimento che è mancato, anche grazie ad una informazione che ha scelto di non aprire squarci di verità.
Così come chi ha seguito la campagna elettorale sa che sia Borgonzoni che altri candidati (come Galli a Rimini) il tema del salvare quel che funziona e incidere sulle incrostazioni di mezzo secolo di potere centralista, dalla Lega è stato sollevato ma non con la forza necessaria. Ha prevalso la spallata al governo giallorosso, che non a caso ha deciso di fare il regalo della busta paga più pesante, con la manovra da 3 milioni di euro per 16 milioni di lavoratori, alla vigilia del voto. Poi, andando bene a tirare le somme, si scopre che la tassazione supera la “mancia”, ma come messaggio filtrato è stato decisamente preponderante quest’ultima (a proposito di elettori incerti che decidono, spesso all’ultimo minuto, da che parte stare). Resta la questione della campagna rassicurante, che merita riflessione.
Dice il sindaco Gnassi che «a Rimini il Pd torna dopo oltre tre anni a essere primo partito» e lo dice pro domo sua naturalmente, ma si prende meriti che non ha per tutte le considerazioni fatte sopra. Perché in questa circostanza il Pd di Rimini cattura elettori che hanno scelto fra spallata e status quo e non certo il Pd in quanto Pd. Ha preso voti di elettori moderati di centrodestra e di grillini che alle elezioni del 2021 soppeseranno quale simbolo barrare in base a criteri totalmente diversi rispetto a ciò che li ha mossi domenica.
«Ci sono le persone. Ci sono i fatti. Poi vengono le chiacchiere e la demagogia. E quando la demagogia si trova davanti le persone e i fatti concreti viene sconfitta». Tanti di coloro che domenica hanno sostenuto Bonaccini, anche turandosi il naso, considerano Gnassi un buon amministratore ma con rilevanti percentuali di demagogia.
Non ci sono più roccaforti di nessun tipo. La Regione Emilia Romagna, così come il Comune di Rimini, sono alla portata di chi saprà indicare leader e idee convincenti stando “sul pezzo”.
Davanti alla Lega, partito di gran lunga di riferimento nel centrodestra, rimane l’onere di scrivere il sequel, soprattutto in vista delle elezioni del 2021 a Rimini, nei confronti delle quali è già tardi aprire il cantiere. Facendo tesoro di quel che è successo nella campagna elettorale regionale, proseguendo sulla strada delle aperture vincenti verso candidati giovani e portatori di energie e voti, senza il chiodo fisso del sindaco leghista e con una realistica ed ampia visione degli interessi in campo che a Rimini decidono, non da oggi, chi far salire a palazzo Garampi.
COMMENTI