«Quello stupendo cordone di marmo rosso di Verona lo stiamo perdendo». A causa delle infiltrazioni d'acqua. E limitarsi a togliere i ciuffi d'erba che crescono tra le fessure delle pietre non risolve il problema, anzi, lo aggrava. Poi ci sono i soliti idioti che scambiano la Cattedrale per qualcosa d'altro. Quando il cronista dall'occhio lungo incontra il garibaldino dirimpettaio del gioiello rinascimentale ...
“Se questo è un Duomo”, non va interpretata come irriverente parafrasi “linguisticamente modificata” della narrazione di Primo Levi, ma un titolo che denuncia un comportamento assai poco civile, non solo nei confronti della cattedrale espressione di un credo religioso, ma anche in quanto “tempio del Rinascimento”, opera di sublime bellezza, il sigillo che nel XV secolo Leon Battista Alberti imprime a fuoco “sul curriculum vitae” della signorìa di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Il condottiero, la cui abilità non si limita al maneggio delle armi, arruola per l’ambizioso progetto “soldati” d’arte e cultura del valore di Matteo de’ Pasti, Piero della Francesca e Agostino di Duccio. Questa breve premessa per rimarcare quale prezioso scrigno si trovi per le mani una città di provincia come Rimini. E proprio questa veste le dà maggiori responsabilità. Prima d’ogni cosa, come sempre, il rispetto passa attraverso piccole azioni. Dai gesti più semplici, dall’ordinaria cura del bene comune che va tutelato.
Vengo al fatto grazie al quale la mia attenzione sarà peraltro dirottata verso un problema di maggior peso e rilevanza. Lo scorso 8 maggio passo dalle parti del Duomo (come viene chiamato dai riminesi).

Giovanni Luisè. Garibaldino anche nella mascherina.
Da lontano scorgo due motivi architettonici che non avevo mai notato prima, sullo spigolo dell’alto zoccolo d’angolo che affaccia su via Leon Battista Alberti. Quando mi avvicino a portata di “cecato”, ho la rivelazione: i motivi architettonici sono in realtà due “eleganti” bicchieri da passeggio di plastica trasparente con coperchio e cannuccia ancora infissa a pescare quanto resta di una torbida bevanda marroncina gasata. Sono stati colà abbandonati, o meglio dire, appositamente collocati da due o più ignoti reduci del venerdì sera, suppongo. Dico “collocati” perché a meno che non fossero i nipotini scemi del gigante Polifemo, i nostri eroi per l’acuta deposizione devono essersi issati sul vicino fittone anziché conferirla nel brutto, ma comodo bidone lì a due passi. Semplicemente, l’azione è uno spregio verso un monumento espressione della cultura che ci invidiano nel mondo. Il giorno dopo torno per vedere se qualcuno abbia rimosso l’installazione, ma la risposta è no. Torno là sabato mattina, deciso ad arrampicarmi pur di togliere quella plastica, ma trovo una scala appoggiata al muro della cattedrale e due operai che si danno da fare per estirpare le erbacce cresciute lungo il suo perimetro e alla base dei sarcofagi. Scatto le foto di rito per documentare che anche l’angolo ora è libero da plastiche. Mi sento chiamare. L’editore antiquario Giovanni Luisè, in abituale posa “garibaldina” è ritto e solenne, davanti alla porta della libreria. «Sai cosa stanno facendo quei due operai?», mi domanda. «Stanno estirpando erbe spontanee, ma se volessero ampliare l’orizzonte verso mietiture più remunerative, sul marciapiedi difronte troverebbero anche spighe di grano. Le ho appena fotografate» rispondo, mentre dalle labbra dell’antiquario, tra la barba bianca si fanno strada tre sillabe scandite con fermezza: «sba-glia-to!». Dalla considerazione nasce un’estemporanea, ma illuminante intervista.
Che intendi per “sbagliato”?
«Stiamo assistendo alla pulizia che hanno fatto già un mese fa. Operazione sempre più frequente perché non basta strappare i ciuffi d’erba che crescono tra le fessure delle pietre: ne crescerà sempre di più. Dicevo che il lavoro che fanno è sbagliato perché se togli il verde dai solchi, le radici si trascinano dietro dei sassolini e del terriccio. E si allarga la fessura, dove entra l’acqua che oltretutto d’inverno gela. E poi cresce di nuovo la pianta e il ciclo continua all’infinito».
Quindi, quale sarebbe la soluzione?
«Lo stucco. È una cosa elementare. E mandare un muratore a stuccare per fare in modo che non entri più acqua né terra e non cresca la vegetazione sarebbe un lavoro da pochi euro. Vedi quelle esplosioni di erbacce sul marciapiedi dall’altro lato della strada? Anche quelle crescono rigogliose, addossate ai quei muri, anch’essi proprietà della Curia».

Vegetazione malatestiana…
L’incuria della Curia. E l’altra questione molto più grave a cui accennavi un momento fa?
«L’acqua. Il problema investe lo stupendo cordone di marmo rosso di Verona che corre sotto tutto il fregio in quel punto là, che vedi. L’acqua che proviene dai conci superiori, filtra tra il rivestimento in pietra d’Istria, fuoriesce, forma il calcare, invade i magnifici bassorilievi. I segni sono visibili. Essendo qua difronte, controllo quotidianamente. Nei giorni in cui piove, quando smette, se attraverso la strada e metto la mano lì, mi bagno tutto il palmo perché l’acqua passa tra le giunture lapidee. Il calcare fa il resto. Con quel risultato».
Accidenti, il fenomeno è molto grave.
«Quel segmento rosso lo stiamo perdendo. Peggiora ogni anno. Di qui a breve, quel tratto di decorazione non ci sarà più. Se vai a toccarla, te ne rendi conto di persona. Provaci. Ma sii lieve, fai attenzione perché è molto fragile. Il materiale ti si sbriciola tra le dita».
Vado, ma non lo sfioro nemmeno. Mi limito ad accarezzare la superficie del marmo con la levità dell’obiettivo che però non perdona, non è invasivo, ma come per vendetta restituisce visivamente un effetto ancor più spietato del contatto diretto. Come asserito dall’editore, il fenomeno non è recentissimo. Già nel 2017 dalle immagini di Google Maps si vede che il problema era già esistente e dal confronto con le fotografie di oggi si apprezza un deciso peggioramento. A dirla tutta, quando nel primo pomeriggio torno a ispezionare tutto il perimetro visibile del Duomo, constato che purtroppo di punti critici ce ne sono più di quanti immaginassi. Decisamente troppi.
Giovanni, mi hai fatto notare una cosa terribile di cui non mi ero mai accorto. Che si può fare?
«Anzitutto bisogna stuccare quei passaggi, ma soprattutto stendere un manto di piombo. Come del resto è d’uso. Non è neppure necessario che il piombo sia troppo spesso o profondo. Se vai a vedere la facciata, a suo tempo il lavoro là è stato fatto. Ora ci sono comunque alcune infiltrazioni, ma almeno il piombo le ha arginate. Da questa parte non è stato messo, se non lassù in alto, sulle cornici dei piedritti, mentre in basso, al livello dei sarcofagi è del tutto assente».
La Soprintendenza è al corrente della situazione? È mai stata allertata?
«Non credere che sia la prima volta che diffondo l’allarme. L’ho fatto altre volte, attraverso giornali, interviste. Nulla di fatto. Muro di gomma!»
Pur considerando solamente il cordone in pietra rossa di Verona attorcigliato sotto il fregio del basamento, di acciacchi se ne scorgono parecchi e Giovanni Luisè, da sempre attento per cultura, frequentazione e sensibilità al nostro patrimonio storico, lo ha più volte segnalato. È scontato che la Curia di Rimini conosca il problema e che di conseguenza abbia avvisato la competente Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. C’è da domandarsi perché mai non si sia ancora intervenuti. Le riprese di Google Maps parlano chiaro. Il fenomeno erosivo è indubitabile che sia iniziato molto tempo addietro. In tanti anni non si è mai preso in considerazione un restauro? Per quanto tempo ancora, ammesso che ci sia un progetto finora rimandato, quei fregi potranno sopravvivere senza che vengano rimessi in condizione di resistere all’insulto del tempo? Mica crederanno di lasciare gli importanti bassorilievi in balìa degli agenti atmosferici come le svagate spighe di grano addossate all’ex seminario vescovile che ballano allegramente al vento!
Speranzosi, insieme al Garibaldi riminese, attendiamo smentite e novità.
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