Avviso ai “riminizzatori”: il ponte di Augusto e Tiberio è un gioiello culturale di Rimini e del mondo

Avviso ai “riminizzatori”: il ponte di Augusto e Tiberio è un gioiello culturale di Rimini e del mondo

«Il nostro Ponte bimillenario ha un'incidenza nella cultura storica e artistica nazionale e internazionale rintracciabile fin dall'epoca umanistica». Il prof. Rimondini ne ripercorre la storia, riassumendo mezzo secolo di ricerche, con qualche aggiunta inedita. E questo approfondimento esce proprio nei giorni che vedono un nuovo cantiere aperto. «La "libido cementandi" degli amministratori di Rimini si appresta a colare una coltre di cemento sulla rampa augustea che sosteneva Porta Bologna». Speriamo che le cose possano andare in modo diverso.

Il ponte di Augusto e Tiberio, lato mare, 14-21 gli anni di Gesù Cristo.

DEDICA

Dedico questo mio lavoro, che riassume mezzo secolo di ricerche, nel quale ripeto osservazioni e congetture già più volte esposte – repetita iuvant è un proverbio favorevole ai giovani lettori – con qualche aggiunta inedita, alla giovane geologa Veronica Guerra nella speranza che voglia impegnare parte del suo tempo professionale nell’archeologia e nella storia di Rimini e in particolare che sappia usare la sua competenza per affrontare in modi scientifici e storici corretti i molti fenomeni geologici e idrologici relativi al Ponte di Augusto e Tiberio. Abbiamo già avuto in Romagna un grande geologo e storico, il compianto Antonio Veggiani (1924-1996).

L’arco distrutto da Sigismondo nipote di Sigismondo Pandolfo Malatesta nel 1528, ricostruito nel 1680. Immagine degli scavi degli anni ’70 del ‘900. Si noti a pelo d’acqua la comparsa dell’orlo della banchina del porto romano, che si estendeva anche oltre il ponte, sopra un muro di pietre da taglio romano e un muro di mattoni manubriati sempre romani, prima del muro in mattoni comuni rivelano le varie fasi del fenomeno della subsidenza. Sul molo vennero impostati i muri che contenevano l’acqua che si stava alzando (Foto Emilio Salvatori).

È APPENA FINITO L’ANNO DEL BIMILLENARIO DEL PONTE DI AUGUSTO E TIBERIO 14-21 D.C. – 2021

E’ appena finito l’anno del bimillenario e subito i nuovi padroni di Rimini – per dire ‘nuovi’, sono una razza di distruttori di monumenti in palazzo Garampi quasi ininterrottamente dal dopoguerra, dai tempi della distruzione del Kursaal. Adesso – marzo 2022 – questi “riministi”, non paghi d’avere cementato il castello di Filippo Brunelleschi, stanno per cementare anche la rampa urbana del ponte di Augusto e Tiberio. Povera Rimini, ma non è che il resto dell’Italia sia messo meglio, dai tempi di Renzi, Franceschini e liquidatori del nostro Patrimonio culturale.
Ma il Patrimonio culturale non era il nostro petrolio? Limes dovrà depennarlo dai quattro punti per la salvezza dell’Italia – gli altri tre: la posizione geografica, la chiesa cattolica, l’esercito.

E tuttavia Rimini non è solo 15 chilometri di spiaggia, notti rosa e movida per sfortunate ragazze e ragazzi ricchi e senza anima con un futuro incerto, e nemmeno il paesino gretto e spaventoso di Amarcord abitato da mostre culone e tettone e pataca assortiti, Rimini è una signora Città d’Arte e di Storia di alto livello internazionale. Meta possibile di un alto turismo culturale internazionale ricco e colto.

Pensate invece a tempi nuovi, a metamorfosi antropologiche, e allo splendore di una possibile presentazione nazionale e internazionale di Rimini come una importante città romana, che conserva ancora un Arco che il Senato romano dedicò nel 27 a.C. ad Augusto, e il Ponte del tempo in cui viveva in Palestina Gesù Cristo, nota storicamente nel mondo colto perché coinvolta negli avvenimenti della fondazione dell’impero – non che sia stato un evento così positivo – di Gaio Giulio Cesare, che passò il Rubicone la notte del 10-11 gennaio del 49 a.C., calendario gregoriano. E c’è anche un Anfiteatro del II secolo d.C. che non può essere visto e studiato perché, altra stranezza svizzero-riminese, dal dopoguerra occupato illegalmente da un asilo, che lo ha in parte cementato.

Rimini è anche una tra le prime città italiane ed europee del Rinascimento perché possiede un castello opera certa e regestata di Filippo Brunelleschi, che quindi è da considerarsi il castello firmato più importante d’Italia, non “un contenitore” e tanto meno “un rudere”, importante per la storia dell’architettura ossidionale, opera dell’artista che ha inventato il Rinascimento. Rimini possiede anche il Tempio di Leon Battista Alberti, e un affresco, senza ragione fuori posto al momento, altra stranezza indigena, di Piero della Francesca: Filippo, Leon Battista e Piero sono i maggiori rappresentanti delle prime tre generazioni degli studiosi di prospettiva che stava rivoluzionando l’arte e nello stesso tempo rinnovando la balistica. E ci sono certamente altre cose, e c’è la spiaggia, e ci sono la movida e Fellini, ma per la cultura non sono temi altrettanto importanti come i detti miracoli della storia e dell’arte, monumenti straordinari e purtroppo poco conosciuti nella stessa Rimini a causa dell’ignavia e della provincialità del vecchio mainstream politico, storico, artistico locale, e per niente valorizzati ma anzi dal dopoguerra sono stati “riminizzati” e hanno subito distruzioni e manipolazioni da parte di sindaci e vescovi culturalmente inesistenti.

Le pietre del ponte buttate nel fiume nel 1528 (Foto di Emilio Salvatori).

IMPORTANZA DELLA CULTURA OGGI

Nei tempi che stiamo vivendo tanto climaterici che ci infliggono la nuova angoscia di una pandemia e di una nuova guerra in Europa dagli esiti imprevedibili e infausti – quod Deus avertat che Dio non voglia -, la nostra antica e recente identità culturale è sempre stata un rifugio di serenità e di speranza. Sono i valori temprati dalla storia che hanno attraversato i millenni e i secoli e che testimoniano le guerre, le epidemie e i disastri naturali dal più remoto passato.
I valori etici e storici della classicità – honeste vivere alterum non laedere vivere onestamente, non danneggiare nessuno; sia pure in dialettica con suum quique tribuere dare a ciascuno il suo; del giurista romano della Siria Eneo Domizio Ulpiano (Tiro c. 170 – Roma 228); i valori etici e religiosi del Cristianesimo – ama il prossimo tuo come te stesso, perdona, spera -, i valori etico politici della modernità – le libertà, l’uguaglianza, la democrazia -, tutti sempre ammantati dallo splendore dell’arte, il lavoro che ci avvicina più di tutti alla creatività, sono l’anima della nostra identità nazionale, europea e internazionale. Non dimentichiamoci che anche i nostri ospiti hanno un’identità culturale e che l’ambito della cultura è uno spazio di condivisione, di incontri e di pace.

E la cultura fornisce un tipo elevato e profondo e intenso di ‘piacere’; quando Vittorio Sgarbi afferma che il piacere di guardare un quadro – o anche di ascoltare un brano musicale, o di conoscere un’architettura o una città, o uno spettacolo teatrale o uno spettacolo naturale -, è pari al piacere di un orgasmo, non fa che riprendere quanto aveva già affermato negli anni ’70 Jacques Lacan.
L’arte, affermava, non si basa, o non si basa solo sulla “sublimazione” delle emozioni erotiche e aggressive – in questa concezione Freud si alleava a Benedetto Croce -, ma sullo “spostamento” dei vissuti delle emozioni e dei sentimenti dell’Eros. Massimo Recalcati aggiungerebbe, credo, la condivisione delle esperienze estetiche e culturali, mentre per Lacan quella assolutamente erotica resterebbe problematica.

FORTUNA INTERNAZIONALE DEL PONTE DI AUGUSTO E TIBERIO

Il ponte di Augusto e Tiberio è uno dei tesori del nostro Patrimonio culturale riminese, italiano, europeo, internazionale.
Il nostro Ponte bimillenario ha un’incidenza nella cultura storica e artistica nazionale e internazionale rintracciabile fin dall’epoca umanistica, lo vediamo dipinto da Giovanni Bellini un grande pittore di Venezia che a Rimini ha lasciato una pietà nel Tempio Malatestiano, oggi nel museo. Seguono nel secolo seguente, come testimonianza della fama del ponte, i disegni del bolognese Sebastiano Serlio e del vicentino Andrea Palladio, per arrivare, come ci ha informato, in uno dei suoi tanti regali culturali strepitosi, Moreno Neri, a un’imitazione irlandese del nostro ponte del 1766, il Grenn’s Bridge dell’architetto neopalladiano George Smith, che aveva visto l’illustrazione palladiana del nostro ponte nell’edizione inglese de I quattro libri dell’Architettura fatta da James Leoni nel 1715.

Pier Giorgio Pasini in Rimini città come storia 1 (Giusti Rimini 1982) ha elencato le vedute del ponte che sono abbastanza precise a partire da quella dell’anonima Veduta della Città e Borgo dell’Archivio di Stato di Roma, del ‘600, onirica ma con il particolare della Porta Bologna che sembra abbastanza realistico: una porta stretta, alta e lunga, con sulla sua destra un edificio annesso. Segue la vedutina nel libro Antichità di Rimino opera dell’incisore veneziano bravo e longevo Antonio Visentini (1688-1782) [su disegno di Jean Joseph Chamant (1699-1768), architetto lorenese allievo di Francesco Bibiena]. Il dipinto dell’inglese [Benjamin] Willson (1721-1799), noto pittore e studioso di elettricità, riprende la prospettiva del ‘700. I disegni di Felice Giani del 1815, di anonimo del 1819 e dell’inglese Samuel Prout (1785-1852) testimoniano la parziale distruzione della porta, nella parte davanti. Un altro inglese, James Hakewill (1778-1818), ha dato il disegno per un’incisione del 1818.

Nel concio di chiave dell’arco centrale a mare è scolpita la “corona civica” assegnata dal Senato nel 27 anni di Cristo insieme al nome Augusto e alla “clipeum virtutis” scolpito nella chiave dell’arco centrale a monte. Insieme ai simboli dell’alto clero romano – sono rimasti “il lituus” degli auguri, l’anfora dei “XII viri sacris faciundis” e la “patera” dei “VI viri epulonum”. Tutto l’arco è dedicato alla sacralità di Augusto (Foto Emilio Salvatori).

Progetto del Genio Civile di Forlì del 1851 per il restauro dell’epigrafe a monte. Archivio di Stato di Forlì, genio Civile B.2.

Giulio Zavatta ha dedicato molta attenzione critica e due articoli originali e colti su “Ariminum” uno dell’XI-XII 2009 I disegni inediti di Constant Bourgeois e Prosper Barbot, dove ricorda anche il libro Uno sguardo dal ponte di Ferruccio Farina; e l’altro su “Arimiunm” del XI-XII 2010, Il ponte di Tiberio “inglese”, con le illustrazioni dei dipinti di Benjamin Wilson (1721-1799), John Warwick Smith (1749-1831), Thomas Girtin (1775-1802) le due ultime inedite.

Se poi caro lettore ti dovessi stupire che chiamo il ponte romano con i nomi dei due imperatori, invece di quello solo di Tiberio come usa oggi, sappi che dai politici e dai tecnici nell’800, escluso Maurizio Brighenti che lo chiama il ponte di Tiberio, il ponte era chiamato “il ponte di San Giuliano”, poi col solo nome di Augusto, poi si cominciò a chiamarlo negli atti comunali e provinciali col nome del solo Tiberio, il quale però ha terminato un’opera progettata e iniziata da Augusto.

L’epigrafe a monte restaurata nel 1851.

LE EPIGRAFI GEMELLE DATANO IL PONTE AL 14 E AL 21 DOPO CRISTO

Sul ponte, incastrate nelle sponde, ci sono due epigrafi incorniciate disposte nel senso di marcia di chi tiene la sinistra uscendo ed entrando a Rimini: Sono dell’epoca della fine dei lavori, al tempo dell’imperatore Tiberio che nel testo epigrafico si unisce al padre formale Augusto dichiarato Dio dal Senato e anche con il nonno formale, il Dio o divinizzato Gaio Giulio Cesare. Proprio l’elenco delle magistrature di cui i nuovi padroni dello stato romano si erano impadroniti, il consolato, la podestà tribunizia e il pontificato massimo hanno permesso di datare il ponte all’ultimo anno di vita di Augusto, il 14 dopo Cristo e al settimo di governo di Tiberio, il 21 dopo Cristo.

IMP(ERATOR). CA[E]SAR. DIVI. F(ILIVS). AVGVST[VS. PONTIFEX. M]AXIM(VS). [CO(N)SVL- XIII. IMP(PERATO)R. X]X. / TRIBVNIC(IA). POTEST(ATATE). XXVIII. P(ATER). P(ATRIAE). / TI(BERIVS). CAESAR. DIVI. AUGVSTI. F(ILIVS). DIVI. IULI. / N(EPOS). AV(GVSTVS). PONTI[F(EX). MAXIM(VS). CO(N)SVL)]. IIII. IMP(ERATOR). VIII TRIB(VNICIA). POTEST(ATE) XXII. / DEDERE

A fondamento scientifico della trascrizione, della traduzione e della datazione al 14 – 21 dopo Cristo, segnalo un lavoro di Cristina Ravara Montebelli, che ho riprodotto con qualche cambiamento opinabile di cui sono il solo responsabile, gli originali stanno ne Le Fonti epigrafiche, scheda n.110. On line. Si tratta dell’iscrizione a monte:

“L’imperatore Cesare figlio del Dio, Pontefice Massimo, Console per la tredicesima volta, Generale vittorioso per la ventesima, con la Tribunizia potestà per la trentasettesima volta, Padre della Patria. Tiberio Cesare figlio del Dio Augusto, nipote del Dio Giulio, Augusto, Pontefice Massimo, Console per la quarta volta, Generale vittorioso per la dodicesima volta, costruirono questo ponte.”

L’epigrafe “restaurata” nel 1851. Sembra un pasticcio ma è l’alternativa ad un rifacimento moderno dell’epigrafe espressamente proibito da Roma.

IL RESTAURO DELL’EPIGRAFE NEGLI ANNI 1851-1853

L’epigrafe a destra uscendo da Rimini manca della parte iniziale, perché il ponte nei suoi duemila anni di vita ha sofferto molte manipolazioni, distruzioni e restauri: il primo arco dal Borgo è stato distrutto e ricostruito due volte, e la manomissione dell’epigrafe a mare risale all’epoca delle guerre di successione austriaca e spagnola nella prima metà del ‘700. Continuamente restaurato quasi mai con criteri filologici, il maggiore intervento conservativo dell’epigrafe a monte si ebbe negli anni 1851 -1853, come da documentazione e da un bel disegno dell’Archivio del Genio Civile di Legazione, nell’Archivio di Stato di Forlì busta 2.
Si decise a Roma nel Consiglio delle Belle Arti del Ministero del Commercio e Belle Arti in quegli anni di mantenere e non rifare le lastre cancellate del testo dell’iscrizione, e di tenere in piedi le stesse lastre con una parziale gabbia di ferro, con “spranghe” visibili nel retro, saldate col piombo al ponte e all’iscrizione, e di riempire i vuoti con una calce pozzolana scura nella quale era stata mescolata una “schiuma di ferro”. Un composto analogo alla “marogna”, che era una calce contenente polvere di carbone. Questo restauro è ancora visibile.

COM’ERA FATTO UN PONTE ROMANO IN PIANURA

Vitruvio nel suo trattato dedicato ad Augusto non parla di ponti ma di fondazioni di archi e pilastri, che poi è l’operazione principale anche nella costruzione dei ponti:

“Se invece non si riesce a trovare un fondo solido perché anche in profondità il terreno è alluvionale o paludoso, in tal caso occorre scavare fino a svuotare il luogo, poi vi si devono conficcare dei pali di ontano o di olivo o di rovere temprati al fuoco e piantati più fitti che sia possibile servendosi del maglio e riempendo gli interstizi tra l’uno e l’altro con carbone; solo allora si potrà procedere alla costruzione del basamento in solida muratura”, Marco Vitruvio Pollione (circa 80 – 15 avanti Cristo) De Architectura libri X, III, IV, 2, traduzione di Luciano Migotto.

Un ponte romano in pianura aveva i pilastri che fondavano alcuni metri sotto il letto del fiume e svettavano in alto sopra il pelo dell’acqua. I pilastri o pile reggevano gli archi sui quali, nel caso di Rimini, a circa 4 metri sopra il livello della strada urbana dei tempi di Augusto, era costruita la platea o la superficie praticabile del ponte connessa con rampe alla strada. Sembra impossibile, ma questo modello reale non è usato né conosciuto dagli ‘archeologi’ riminesi ‘ufficiali’ nelle immagini che ricostruiscono l’integrità originale del ponte romano nel museo L. Tonini di Rimini e nella postazione per i turisti dentro la chiesina di S.Maria ad nives. Nel modellino del ponte nel museo la situazione attuale con la strada quasi al livello della platea è riferita erroneamente ai tempi di Augusto. Se oggi il ponte ha la platea quasi al livello delle strade moderne di accesso, e se le sue rampe non si vedono più interamente perché interrate, c’è una ragione, anzi ce ne sono due, che vedremo più sotto.
Intanto però viene in mente, per definire la cultura approssimativa di chi ha ordinato l’antiquarium del museo, il rimprovero che Leon Battista Alberti fece a Matteo de Pasti che gli aveva proposto di guastare il suo progetto del Tempio Malatestiano:

“…vorrei che chi fa professione intendesse il mestier suo..”

A monte del ponte lato Borgo è tuttora visibile la base di una torre, documentata dal XII al XV secolo.

LE RAMPE DEL PONTE VISIBILI A OCCHIO NUDO

La superficie del terreno urbano e rurale non sta sempre ferma, come qualcuno sembra credere, è soggetta a movimenti orizzontali ma anche a movimenti verso l’alto e verso il basso – subsidenza -. Non solo i geologi riminesi, caduti come gli storici nell’inganno del secondo porto romano di Rimini antica spacciato dallo storico barocco Cesare Clementini, ma anche gli storici e gli archeologi che hanno organizzato il Museo L.Tonini, ritengono la superficie urbana di Ariminum immobile verticalmente nei secoli e presentano in una sala del museo il modellino del ponte firmato da Augusto e Tiberio senza le sue rampe come richiede il tipo strutturale di ponte romano in piano, appena visto, rampe che sono ancora oggi invece parzialmente visibili; sono anche testimoniate da diversi documenti e sono apparse in scavi recenti.

Visibili a occhio nudo. Nella pendenza che il grande cornicione a modiglioni presenta a partire dalla metà degli archi 1° e 4°, da qualsiasi parte si cominci a contarli. Ma cerchiamo di essere più precisi. Uscendo dalla Città è visibile intatta l’angolatura del cornicione sulla metà del primo arco dalla parte a monte; a mare invece, sotto la calce bianca, che maschera le fondamenta di mattoni della porta medievale si vede la pendenza della linea del cornicione, e sul primo arco si è conservato proprio solo il punto dove il cornicione cominciava a piegarsi.
Nell’arco del Borgo, la piegatura del cornicione si è conservata a mare, ma si potrebbe obiettare che questa parte del ponte è seicentesca. Nella parte a monte una parte della cornice obliqua s’è conservata – non tutto l’arco era stato smantellato -. Nella veduta di Rimini di Agostino di Duccio della metà del ‘400, la rampa del ponte a mare che raggiunge il Borgo di San Giuliano è raffigurata per metà. E’ sempre difficile distinguere nelle opere d’arte che rappresentano monumenti eventuali riproduzioni fedeli dell’esistente da stilizzazioni che non sono reali, tuttavia, considerando anche che l’area del Borgo è discesa insieme al ponte, si può prendere per vera la veduta di Agostino di Duccio. Le rampe cominciavano a inclinare la strada a metà degli archi estremi; quelle a monte e a mare del Borgo sono poi state parzialmente scavate da Marcello Cartoceti.

Ho più volte pubblicato documenti che attestano il rinvenimento delle rampe, per giovare ai nuovi lettori li ripeto con qualche novità.
Anche sulla subsidenza mi ripeto aspettando che qualche addetto ai lavori mi sputtani dimostrando che ho sbagliato tutto.

Nella base della torre i resti di tombe romane, un rosone di epoca repubblicana.

IL TERRENO DEL PONTE È DISCESO 4 METRI DAL LIVELLO ORIGINALE

Se un geologo riminese volesse scrivere qualcosa di “scientifico” sulla “subsidenza” più volte segnalata, sono sicuro che Claudio Monti gli darà spazio in Rimini 2.0.
Premetto ancora che, come è ben noto, la superficie del terreno urbano è soggetta a un periodico innalzamento per accumulo tanto che le prime superfici stradali di Ariminum sono sottoterra da 4 a 2 metri, ma anche a meno in certi punti.

Il ponte antico di Rimini, rispetto ad un dato relativo ma significativo che è il livello dell’acqua non molto differente da quello dei tempi di Augusto e Tiberio, sembra sia sprofondato di circa 4 metri, quasi tutta l’altezza delle sue pile e rampe. Un po’ la superficie urbana si è alzata, ma nello stesso tempo molto di più è sprofondata la superficie delle basi del ponte, tanto che l’acqua che scorreva ai piedi dei pilastri adesso arriva all’imposta degli archi.
Ma non si tratta solo del ponte romano, vi è da considerare che la stessa sorte di abbassamento del suolo l’hanno subita anche una parte del suolo urbano press’a poco tra la via Ducale e il canale, e tutta la parte urbana tra la ferrovia e le mura aureliane, subsidenze che hanno tranciato un bel pezzo della forma urbis, e infine anche tutto il suolo del Borgo di San Giuliano.

Sulle pareti che contengono il ponte a monte e a mare, palinsesti che dall’epoca romana arrivano sino all’800 e ai nostri giorni – purtroppo recentemente soggette a manipolazioni – e che si sono alzate man mano che il ponte sprofondava, si possono, a mio avviso certamente discutibile, leggere le misure precise e persino i tempi della subsidenza.

I TEMPI E LE FASI DELLA SUBSIDENZA SONO APPREZZABILI

Sulla parete di contenimento lato mare accanto al pilastro dell’arco che raggiunge il Borgo, scavata la superficie togliendo 4 metri circa di ghiaia negli anni ’70 del ‘900, si ‘leggono’ diverse fasi della subsidenza che sembra essere stata un fenomeno improvviso ma non veloce. Si ‘leggono’ infatti almeno due momenti – una diapositiva di Emilio Salvatori mostra in basso un primo livello alla base del primo pilastro, con il terreno sottostante rimasto inesplorato, che potrebbe essere la banchina del porto romano – c’è persino una pietra sporgente per legare le barche -. Il secondo livello, visibile frontalmente in una foto di Paolo Miccoli, è formato da un muro di pietre squadrate all’inizio regolare di cinque file, a filo con la superficie dell’ultimo pilastro e della banchina del porto, che prosegue con grosse pietre squadrate, che sono dopo pochi metri nascoste dalla assurda, rozza, inutile banchina in cemento degli anni ’70, rimasta poi sotto l’acqua. A un secondo livello è un muro di mattoni sesquipedali o manubriati per un metro circa, che arriva all’altezza del livello dell’acqua com’è oggi. Segue un muro di diverse epoche dal ‘500 all’800 – marcato dall’idrometro -. Sembra di capire che la subsidenza sia stata un fenomeno iniziato e finito in epoca romana imperiale.

SISTEMI DI COSTRUZIONE DEI PONTI, LA FONDAZIONE DEI PILASTRI IN VITRUVIO

Ho cercato nel De architectura libri X di Marco Vitruvio Pollione il sapere degli antichi sulla costruzione dei ponti. Non c’è un capitolo dedicato ai ponti ma nel libro III 4 paragrafo dedicato alla fondazione dei templi si spiega come fondare un pilastro e i ponti sono fatti di pilastri, no?
Non c’è nemmeno un capitolo o un libro, come ci aspetteremmo, dedicato alla centuriazione, la divisione dei territori delle colonie e dei municipi in quadrati di 700 metri di lato.
Tuttavia nel De architectura qualcosa si trova.

A mare del ponte si vede una parte della rampa lato città con sopra, cementato in bianco, l’inizio della Porta Bologna distrutta nel 1829.

IL COROBATE

Nel libro VIII dedicato alle acque, sono presentati gli strumenti usati per i “sistemi di livellamento”, il fondamento teorico anche della divisione dei campi – centuriatio -, in Romagna dopo lo sradicamento della foresta di querce celtica, le superfici ottenute erano studiate anzitutto per le pendenze perché quella straordinaria quadrettatura dei terreni era prodotta e mantenuta da un sistema idraulico, per scavare e mantenere scavato anno dopo anno il grande, territoriale sistema dei fossi ai lati delle strade e dei campi, e farlo arrivare fino a noi, è stato necessario che la popolazione contadina antica dei legionari pensionati si prolungasse nelle generazioni fino ai nostri giorni intenta ad aprire una o due o più volte l’anno i fossi. Gli archeologi invece non hanno studiato il sistema idraulica, ma le strade.
Ecco la descrizione del chorobaten cioè dello strumento per calcolare le pendenze dei terreni:

“Per prima cosa bisogna stabilire il livello [dei terreni] servendosi delle diottre, delle livelle e del corobate. Quest’ultimo è comunque lo strumento più preciso. A differenza degli altri che possono trarre in inganno. Il corobatte consiste in un regolo lungo circa venti piedi [m. 5,928], dotato di due gambe perfettamente uguali, incastrate all’estremità ad angolo retto; tra queste e l’asse vengono disposte delle traverse a squadra, fissate per mezzo di cavicchi e su di esse sono tracciate delle linee perfettamente perpendicolari in corrispondenza delle quali dovranno pendere dall’asse dei fili a piombo. Così, una volta collocato lo strumento, se questi combaceranno tutti quanti uniformemengte con le linee traciate, saremo sicuri di trovare un piano orizzontale.” M.Vitruvio Pollione, De Architectura libri X, ed. Studio Tesi Pordenone, 1990, p. 389, traduzione di Luciano Migotto.

Lo stesso strumento può servire per misurare i piani inclinati dei terreni e dei fossi.
Lo so, lo so, sono un temerario che abbozza novità archeologiche e storiche che vanno contro le tradizioni, Alessandro Barbero mi considera un mitomane, a proposito della mia affermazione parzialmente documentata della morte separata di Francesca, probabilmente prima del 1281, e di Paolo documentata dopo il 1283, e sono collocato dal silenzio dei vecchi del mainstream riminese nella stesso mazzo di chi crede che Sigismondo Pandolfo Malatesta abbia scoperto l’America e Piero della Francesca abbia dipinto la pianta della Florida. Mettersi contro tutti ha del temerario, diceva Agostino Carracci al fratello Annibale e al cugino Ludovico; è il mio destino: produrre congetture sempre fondate su documenti o ragioni che credo indubitabili ma poche volte prese in considerazione.

A monte della stessa parte, i resti in mattoni della Porta Bologna con al centro una saettiera.

L’ARCO DEL BORGO DISTRUTTO DUE VOLTE NEL 552 DAI GOTI E NEL 1428 DA SIGISMONDO PRONIPOTE DI SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA. RICOSTRUITO NEL 1680

Lo storico bizantino del tempo dell’imperatore Giustiniano (482-565 d.C.) Procopio di Cesarea nell’opera La guerra gotica, comprendente la guerra degli anni 535 – 553 che il generale romano orientale Belisario condusse in Italia per eliminare il dominio dei Goti e assoggettarla a Costantinopoli, racconta che nel 552 la guarnigione gota di Rimini capeggiata da Usdrila, per rendere difficile l’entrata in città dal ponte di Augusto e Tiberio, aveva fatto distruggere l’arco del ponte che si univa all’area dell’attuale Borgo.

L’arco poi doveva esser stato ricostruito. Nel 1527, approfittando della crisi pontifica del sacco di Roma, inflitto dai Lanzichenecchi di Carlo V nemico di papa Clemente VII, Sigismondo Malatesta figlio di Pandolfo IV Malatesta (1475-1534) e di Violante Bentivoglio, pronipote di Sigismondo Pandolfo, con Malatesta suo fratello, contando sul partito “guelfo” o “pandolfesco” per conto del padre si era introdotto a Rimini il 14 giugno 1527 e aveva occupato la città. Poi era arrivato anche il padre, e insieme avevano instaurato un regime di terrore per spremere dai notabili, anche della propria fazione, le ricchezze necessarie per governare. Ci rimasero fino al 17 giugno del 1428, quando l’esercito pontificio entrò in città dopo alcuni giorni di assedio. Pandolfo era già partito e Sigismondo lo raggiunse a Ferrara. Lo stesso anno però Sigismondo ritornò a Rimini con una qualche funzione pubblica. Papa Clemente VII era stato molto paziente con Pandolfo e i suoi figli, gli aveva promesso Meldola, Bertinoro e Sarsina, e l’8 aprile 1528 aveva persino concesso con un breve Rimini e il suo contado a Pandolfo “in contemplazione dei servizi resi in passato dalla Casa Malatesta alla Santa Sede “, ma non al Malatesta, la concessione era affidata al suo legato di Romagna arcivescovo Sipontino – che dovrebbe essere Giovanni Maria Cocchi del Monte (1487-1555) futuro pontefice Giulio III -.
La stranezza di questi fatti fanno dire a Carlo Tonini in Rimini dal 1500 al 1800, Rimini 1887:
“nelle nostre Storie si incontrano a quando a quando siffatte oscurità.”

Quando il primo esercito che papa Clemente VII mandò a Rimini al comando dei Odette de Foix maresciallo di Francia e visconte di Lautrec (1485-1528), stava arrivando a Rimini, Sigismondo Malatesta fece distruggere l’arco del Borgo e stava per abbattere altri archi quando il Lautrec gli chiese di smettere promettendogli di entrare a Rimini da altra parte. Così Carlo Tonini che riporta il Clementini.
L’arco rimase semidistrutto fino al 1680 quando Agostino Martinelli dottore in utroque, nelle due leggi, civile e canonica, e architetto dilettante, venne incaricato della riparazione che comprendeva anche la prima edicola verso il Borgo; cosa che fece utilizzando le pietre d’opera del ponte romano di San Vito e anche pietre d’Istria nuove provenienti da Venezia.

Le pietre d’opera della distruzione sigismondea erano state gettate nel fiume e negli anni ’70 del secolo passato sono state ritrovate e raccolte dagli archeologi, compreso il timpano originale della nicchia a mare distrutta. Ma già nel 1807 parte di quelle pietre erano state trovate e raccolte. Il 5 maggio 1807 la Comune di Rimini pagava Cristoforo Frioli “£. 68 3/100 per spese occorse nel trasporto de Marmi c’erano sotto il Ponte di San Giuliano” – ASR, ASCR, Carteggio B 140 -.

Sabato 19 marzo 2022. La “libido cementandi” degli amministratori di Rimini si appresta a colare una coltre di cemento sulla rampa augustea che sosteneva Porta Bologna.

PORTA BOLOGNA DALLA METÀ DEL TRECENTO ALL’OTTOCENTO

Sul problema della porta romana occidentale di Ariminum e del suo rapporto col ponte, la scoperta recente di muri romani fatta da Marcello Cartoceti permette nuove congetture, ma non sono in grado di precisarle, aspettiamo nuove pubblicazioni. Qui mi interessa impostare qualche congettura abbastanza precisa credo con dati inediti sulla “Porta Bologna”, la porta medievale di Rimini, impostata sulla rampa del ponte dalla parte della città. Della porta medievale rimangono i resti del muro a mare, alti poco più di un metro con i resti di una saettiera, nella cui base, fino a pochi anni fa si vedevano le tracce del tubo di un lampione della prima illuminazione a gas della città.
Questa porta appare nelle vedute già nominate, in particolare nella veduta di John Warwick Smith edita da Giulio Zavatta, che ha precisato la formazione dell’immagine a Londra assemblando disegni presi dal vero a Rimini. Si vede un edificio alto, stretto e lungo, sull’apertura dell’ingresso che mi sembra a tutto sesto, si vedono tre stemmi, due piccoli laterali con le chiavi sono gli stemmi della Chiesa, quello centrale presenta una figura armata di scudo e i resti di una cornice solo sul lato a sinistra e sopra. Ipotizzo che lo Smith non abbia ricordato quello che aveva visto e forse appuntato frettolosamente. Al centro potrebbe esserci stato un grande stemma malatestiano, come quello che è conservato nel primo pianerottolo delle scale di palazzo Baldini sul Corso – ex Supercinema -.
Lo stemma non è intero; è opera di un bravo scultore gotico e rappresenta in basso solo in parte lo scudo delle bande scaccate, un bell’elmo a bigoncia dall’aria minacciosa e sopra il cuscino del primo cimiero dei Malatesta. Manca la parte superiore con una palla di piume come nel cimiero di Montefiore.
Ma se invece gli appunti grafici erano stati diligenti allora si tratterebbe dei resti di un bassorilievo romano magari da una tomba della via Emilia.

In alcune vedute che devono precedere il 1823, a cominciare da quella di Felice Giani del 1815, si vede la porta con la parte sopra l’ingresso distrutta, ma la parte verso la città ancora in piedi.
Il piano superiore della porta venne distrutto dai Francesi subito dopo che avevano occupato Rimini nel 1797 per piazzarvi una batteria di cannoni; lo stesso avevano fatto a porta Marina e a porta S.Andrea, mente nella porta davanti all’Arco lo spazio per una batteria di cannoni c’era già.

Questi sono forse i resti di un edificio a piccola base rettangolare addossato a Porta Bologna con le scale per andare nel piano superiore.

1829, 1845, 1905 DISTRUZIONE DI PORTA BOLOGNA

Nel 1800, quando, assente Napoleone i Francesi erano stati cacciati dagli Austriaci, il consiglio comunale pensò di riparare la porta ma non se ne fece niente – Archivio di Stato di Rimini [ASR] Archivio Storico comunale di Rimini [ASCR] Verbali del Consiglio Comunale -. Nel 1829 si aprì a mezzogiorno la strada di circonvallazione esterna che correva lungo il bordo delle mura e del fossato malatestiano, ma poco prima del ponte tagliava le mura trecentesche e rasentava l’orlo del Marecchia. Per mettere in comunicazione questa circonvallazione con il ponte e con la strada lungo il Marecchia bisognava distruggere la Porta Bologna che era stata innalzata sull’orlo dalla rampa verso la città. Il perimetro rettangolare di questa porta è visibile nella mappa napoleonica del 1811.
Rimaneva in piedi l’ala verso marina della porta con la sede dei dazieri.

In una lettera del 6 aprile 1846 di Filippo Battaglini della Commissione Ausiliatrice – futura Deputazione dell’ornato e strade ASR, ASCR, B.722 – al Gonfaloniere dava conto della presenza sul lato superiore del muro di contenimento del ponte lato monte città di Massi di pietra d’Istria e di basoli – o forse si tratta ancora di lastre di “selce”, come appare in altri documenti sotto citati, a proseguire il lastricato del ponte – che avevano attirato l’attenzione del Legato di Forlì:

“…i massi di pietra d’Istria e di selce…furono tolti dai loro posti quando nel 1829 fu aperta la strada di Circonvallazione, se non forse uno solo sulla estremità che guarda la Città, ma furono trovati disordinatamente collocati a formare parte dei fondamenti e delle mura presso terra della fabbrica di cotto, che formava la porta urbana, e che parecchi secoli fa con non lodevole consiglio fu eretta sul proseguimento verso Sud-Est di quel grandioso monumento che sarebbesi dovuto interamente conservare.”

Probabilmente invece queste “pietre d’Istria” e “selci” non dovevano essere “disordinatamente” collocati nelle fondamenta della porta Bologna, ma essere proprio le sponde di pietra d’Istria a monte e i basoli della rampa su cui era stata costruita la porta.
Comunque sia questi resti vennero usati per le sponde della strada lato Marecchia, i resti risparmiati del muro trecentesco là dove si attaccava al ponte. Nel 1905 fu distrutta l’ala risparmiata dei dazieri e le due strade – circonvallazione e lungo Marecchia vennero meglio collegate.

In GIALLO l’area di Porta Bologna, in ARANCIONE l’area della rampa urbana, in ROSSO B B due pietroni della rampa in pietra d’Istria trovati nel 1905 a un piedistallo di statua ai piedi della rampa urbana.

1846 INTERESSE DEL CARDINALE CAMERLENGO PER LE PIETRE D’ISTRIA DEL PONTE TROVATE NEL 1829 QUANDO SI DISTRUSSE PORTA BOLOGNA

Nella primavera del 1846 il cardinale camerlengo Tommaso Riario Sforza, che di lì a qualche mese avrebbe dovuto constatare ufficialmente la morte di Gregorio XVI, dovette interessarsi dei restauri della “Platea dell’Arco di Augusto” e del Ponte di Tiberio, tramite le lettere del collega cardinale legato di Forlì Tommaso Pasquale Gizzi che trasmettevano le richieste degli amministratori di Rimini. Filippo Battaglini della Commissione Ausiliatrice scrisse il 6 aprile 1846 agli amministratori una lettera per dare conto del destino delle pietre di qualche interesse storico rinvenute nella distruzione di Porta Bologna; sono sicuramente pietre della rampa urbana.

Il Battaglini aggiungeva:

“uno dei reali bisogni di questa città la riedificazione di questa Porta urbana (sebbene l’attuale situazione economica di questo Comune non permetta vi si pensi ora) potrebbero questi massi essere convenevolmente collocati presso l’antica loro posizione, e forse anche surrogare il paramento di cotto, che ora si interpone tra il riparo di pietra d’Istria del Ponte e la presente serranda dal lato del Mare, e ciò quando tempi più lieti (sempre da augurarsi e sperarsi) sia dato agli Amministratori comunali l’apprestare soddisfazione ai bisogni reali.” – ASR, ASCR, Carteggio B.722.

Si tratta di una delle non poche testimonianze sul destino di consistenti parti litiche del ponte come quelle che seguono.

1881 SCOPERTA UNA GRANDE BASE DI MARMO GRECO ALL’INIZIO DELLA RAMPA VERSO LA CITTA’ LATO MONTE

Il 14 dicembre 1881 il Consiglio Comunale di Rimini all’ordine del giorno n.° 195 “Scavi a Porta Bologna” eventualmente assegnabile “Fondo per le spese a ponte, alle porte di questa Città Bologna e Romana.”
Carlo Tonini prende la parola:

“Accenna come a Porta Bologna al principio dei bastioni Occidentali sia stata trovata una grande base di marmo greco e come stando alle notizie dello storico Clementini, il quale dice che alla Porta di cui trattasi all’epoca Romana furono poste due Statue colossali, vi sarebbe molta ragione a credere che proseguendo gli scavi si avesse probabilità di scoprire oggetti di notevole importanza storica e artistica. -”ASR, ASCR, Verbali dei Consigli 1881 -.

Il consigliere Facchinetti non vuole che si spendano soldi per la base, una volta iniziati, gli scavi archeologici vanno proseguiti con aumento di stanziamenti, ma quali garanzie ci sono di trovare qualche cosa importante? E ricorda che nel caso degli scavi della chiesa di S.Andrea fuori porta Montanara, voluti da Luigi Tonini, il padre di Carlo, “si finì per spendere verso le lire 10.000”. La base era emersa mentre si stava scavando per situare una pesa a bilancia a servizio dell’ufficio del dazio.
Rimane il problema di sapere che fine ha fatto questa base di marmo greco, parte augustea del ponte, è stata prelevata e collocata in qualche dimenticato magazzino del comune? Oppure l’hanno distrutta dove dava fastidio alla costruzione della bilancia? Oppure, speriamo, è ancora in situ integra e Marcello e Luca prima o poi la ritrovano?

1905 DISTRUZIONE DELL’ALA RESIDUA DI PORTA BOLOGNA E LA SCOPERTA DI DUE GRANDI PIETRE D’OPERA DELLA RAMPA LATO URBANO

Un disegno del 1905 conservato nell’Archivio della Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio di Ravenna – a Ponte di Tiberio 1905, 56 430 – testimonia il ritrovamento di due massi di pietra d’Istria parti della rampa lato mare nel corso della distruzione dell’ufficio del Dazio, trasferito alla porta Bologna del Borgo San Giuliano. Ho combinato appunti del disegno del 1905 su una pianta del 1846 e per l’area della porta ho utilizzato la mappa napoleonica del 1811. Il risultato è un’ipotesi grafica di lavoro. La rampa cominciava a metà del primo e dell’ultimo arco, la parte urbana poco fuori della soglia di Porta Bologna; e sempre la rampa urbana finiva al lato della base di marmo greco. Non ci si può fidare delle misure del disegno che presenta solo un’ipotesi di lavoro.

Acquerello del pittore inglese John Warwick Smith (1749-1831). Particolare con Porta Bologna alla fine del ‘700, prima che i Francesi di Napoleone abbattessero la parte superiore dell’ingresso per adattarvi una postazione di cannoni.

Parte di un grande stemma malatestiano con lo stemma più antico della casa: le tre bande a scacchi, distrutto sotto la seconda banda. Coperto da un bellissimo elmo detto “a bigoncia” con sopra l’inizio del primo cimiero detto “del cuscino e delle piume”. Il cuscino è già presente nei due sigilli conosciuti (uno scompoarso) di Malatesta da Verucchio (1212-1312). Mancano le parti in basso con un’epigrafe e in alto a completamento del cimiero. E’ possibile che provenga dalla Porta Bologna staccato nel 1829 quando la porta venne demolita. Risalirebbe alla metà del ‘300, opera di un bravo artigiano educato da scultore.

1810, 1851, 1889 PROGETTI E RESTAURI ALLA PLATEA DEL PONTE

Non si contano le lamentele pubbliche che si trovano nei verbali del Consiglio Generale per la cattiva situazione del pavimento del ponte; la mancanza di conci, la deformazione dei solchi provocati dalle ruote delle vetture, e il rimedio inefficace e anzi dannoso di riempirlo di ghiaia che lasciava passare l’acqua, oltre alle difficoltà del passaggio stava indebolendo le volte degli archi. Il compito di risolvere il problema nell’800 toccava a Forlì sede del Dipartimento del Rubicone e poi della Legazione pontificia, ma anche il comune di Rimini era coinvolto. Nell’800 si ebbero tre tentativi di risolvere il problema, uno parziale nel 1810, un altro venne approntato nel 1851 ma poi non messo in atto, e uno definitivo negli anni 1883-1884.

Regno d’Italia. In attesa dell’arrivo del Vicerè Eugenio Beauharnais – Napoleone aveva promesso di venire a Rimini ma poi la visita era stata annullata – i notabili riminesi della Comune decidono di restaurare il ponte, non completamente, ma “alla meglio per chiudere quelle buche più pericolose”, con iniziativa locale, controllata da Forlì dall’ingegnere generale tramite il vice prefetto Luigi Pani. Vi erano 150 “selci” guaste da potersi definire buche, al momento riempite di ghiaia.
Stranamente il restauro non era stato previsto nel “Budjet” e ancor pià stranamente la Comune possedeva 50 “selci” che l’appaltatore dei restauri doveva acquistare e mettere in opera aggiungendole alle 100 che si impegnava di trovare.
Almeno 150 “selci” di figura quadrilatera “provenienti dall’Appennino” di misure varie ma per un totale di metri quadrati 98,90, vennero messe in opera. Il capitolato è del 9 luglio 1810. Il 9 ottobre 1810 si dà per eseguito il lavoro del ponte di San Giuliano dall’appaltatore Luigi Menghi, il perito ufficiale Antonio Crudomiglia, che aveva preparato il progetto e il capitolato, fornì anche il collaudo. – ASR, ASCR, Carteggio B. 203 -. Le pietre provenienti dall’Appennino forse calcari per quanto duri non dovevano resistere a lungo. Infatti già nel 1815, l’ingegnere distrettuale Guido Romiti lamenta la presenza di fango sul ponte e la “tenuissima quantità di breccia impiegata”; si era subito tornati all’espediente della ghiaia – ASR, ASCR, B. 316-317 -.

Il 22 marzo 1851 l’ingegnere Osea Brauzzi dell’ufficio di Forlì scrive una relazione sul “restauro della carreggiata del Ponte Tiberio in Rimini”:

“Il lastricato del suo piano carreggiabile è di dura selce in forma di quadri di più dimensioni legati con buon cemento. Il tempo consumatore delle opere le più durevoli aveva consumato ancora questo lastricato, ed il continuo transito dei rotabili spesso sovraccarichi di pesi esorbitanti aveva prodotto solcature e depressioni tali da rendere intransitabile il Ponte stesso. La mancanza di cave vicine di selce, la grave spesa a cui si doveva andare incontro per restaurare convenientemente il lastricato in discorso consigliarono da molti anni addietro di coprirlo con breccia minuta per appianarlo. Con ciò si rese transitabile il Ponte senza il minimo pericolo, ma si accrebbe la copia delle trapelazioni di acqua che succedono al di sotto delle arcate, e che debbonsi ripetere principalmente dal guasto e rottura dell’antico selciato…”

Il “progetto migliore” sarebbe stato “ricostruire il selciato con selce come il primitivo”; la spesa però era “significante”. Ma per la prima volta, credo, si cercavano graniti, affrontando le notevoli spese di trasporto: “la selce della cava di Monte Merlo di Padova…” Non se ne fece niente. – Archivio di Stato di Forlì [ASF] Genio Civile [GC] B.2 –

Finalmente il Genio Civile unitario di Forlì approntò un progetto di definitivo restauro con pietre di granito. Nel Consiglio comunale del 15 febbraio 1883 all’ordine del giorno la “Ricostruzione del selciato del Ponte di Tiberio”, già sollecitato dalla Prefettura quasi un anno prima il 2 marzo 1882. Il Comune di Rimini si addossava parte della spesa; finalmente nel discorso politico entrava anche la storia:

“Tra i più cospicui monumenti romani, classificato tra i Nazionali, havvi il Ponte sul fiume Marecchia in questa città, tutto di travertino bianco, eretto per decreto di Augusto e compiuto da Traiano. Le lastre di marmo sono o sconnesse o rotte…”

Il disegno del ponte romano senza rampe. E’ sbagliato.

Carlo Tonini bibliotecario gambalunghiano e ispettore degli scavi era l’autore del cappello storico. La spesa era di £ 7.400 da dividersi tra Comune, Provincia e Ministero della Pubblica Istruzione – che aveva anche i compiti culturali; In ASR, ASCR, ci sono i verbali delle sedute consiliari. Jamil, tu che sei responsabile della cultura, dovresti intervenire, i verbali sono grossi volumi alcuni sono sfasciati e attendono di essere restaurati.

IL PORTO ANTICO ROMANO SUL FIUME E QUELLO FALSO IN “UN AMPIO SENO DI MARE”. IL DISASTRO DEGLI ANNI ’70 DEL ‘900

Negli anni ’70 del secolo passato, l’amministrazione comunale ancora “riminista”, ne fece una delle sue, affidò all’architetto “brutalista”, così chiamato per l’uso e l’abuso compiaciuto di cemento armato, da decenni obsoleto, Vittoriano Viganò (1919-1996) per una sistemazione del porto antico e del ponte. Viganò considerava il ponte di Augusto e Tiberio “un rudere” – si veda Bruno Zevi, Un bruto nel riciclaggio panoramico, in Cronache di architettura, 20, Laterza, Bari 1978 n.1145 -. Anche il neocementatore cessato sindaco ha definito “un rudere” Castel Sismondo, opera regestata di Filippo Brunelleschi, e poi anche “un contenitore”, “ventre” hanno detto i responsabili del museo della Saraghina, della Volpina e della Gradisca. Per notare una tradizione ‘riminista’.
Venne scavata e venduta privatamente la ghiaia intorno al ponte per ben quattro metri di profondità, il povero ponte tirò qualche crepa di assestamento e venne cementato.
Ma almeno, per la prima volta dal tempo dei Romani si videro i piloni e i frangiflutti del ponte nascosti dalla ghiaia. Mentre i muri superiori del ponte sono lisci e luminosi, la parte inferiore è invece formata da grandi massi squadrati che creano contrasti marcati di luce ed ombra. Uno spettacolo.
I piloni hanno forma di barca con la prua verso monte a ricevere di traverso, il fiume arrivava parallelo alla facciata montana del ponte le acque delle piene che portano con sé le ghiaie sparate come proiettili; mentre a mare sono rotondi come poppe. Al centro dei pennacchi ci sono otto tempietti, quattro per parte. Sono vuoti, forse perché Traiano non volle completare un programma sacro di suo “padre” Augusto, o forse per ragioni più profonde che riguardano il sacro aniconico.
Ma nei dieci conci chiave delle volte degli archi rimangono le tracce del programma augusteo. Nel concio di volta verso monte è raffigurato il clipeum virtutis lo scudo che loda le virtù di Augusto; in quello a mare, la corona civica che era stata data dal Senato anche al “padre” di Augusto Caio Giulio Cesare da giovane per avere salvato un cittadino romano in guerra. Otaviano ricevette questi ed altri riconoscimenti, che bellamente evitavano di tener conto della ‘purga’ delle proscrizioni del triumvirato col quale il giovane triumviro, insieme ad Antonio e Lepido, aveva eliminato i suoi nemici a Roma, la vittima più illustre era stata Cicerone, che si era inimicato a morte Antonio proprio per sostenere il puer il giovinetto Ottaviano.

Corona e scudo d’oro ornavano la porta della casa di Ottaviano diventato Augusto sul Palatino, e gli furono conferite con altri segni e il titolo di Augusto nel 27 a.C., l’anno della falsa restitutio reipublicae e dell’Arco riminese, che aveva un gemello a Roma all’inizio della via Flaminia restaurata a spese dell’imperatore. Negli altri conci c’erano i simboli delle cariche sacerdotali dell’alto clero di Roma che Augusto si era fatto assegnare insieme a quella di pontifex maximus sommo pontefice alla morte di Lepido. A monte nella chiave del secondo arco dal Borgo troviamo scolpito il lituus il bastone con il riccio in alto mediante il quale gli augures, gli auguri, tracciavano i confini del cielo entro i quali si sarebbero presentati i segni della volontà divina.
La patera dei VII viri epulonum i sette addetti ai sacri banchetti è nella chiave del secondo arco a partire dal Borgo lato mare; l’anphora dei XII viri sacris faciundis i dodici incaricati alle sacre faccende è nella chiave del secondo arco da Rimini lato monte.
Rimangono cinque chiavi senza i simboli dei collegi sacerdotali di cui facvea parte Augusto, e certamente vi era il simpluvium o mestolino dei pontifices – Augusto, come sappiamo, era il pontifex maximus aveva il controllo delle gerachie sacerdotali romane e dei popoli assoggettati, compreso il Sinedrio degli Israeliti – e c’era anche il capuccio a punta – apex – dei flamines e poi i simboli dei sacrifici.
Tutti i sacerdoti, come scirve Ovidio nei Fasti – I 721 – pregavano gli Dei “affinché la casa che garantisce la pace duri in eterno”. Vane preghiere, perché a eliminare la casa dei Giuli – tre nipoti di Augusto: Lucio Cesare, Gaio Cesare, Marco Vipsanio Agrippa postumo, figli di Marco Agrippa e di Giulia figlia di Augusto – ci pensò Livia, la moglie di Augusto, che era una Claudia, per passare il potere al figlio Tiberio Claudio.
E poi “pace”? “ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” [fanno un deserto e lo chiamano pace] così il personaggio calèdone – scozzese – Calgaco nell’Agricola di Publio Conelio Tacito, precisa il significato della pace augustea o romana. E’ la storia degli imperi antichi e contemporanei burdel.

CONGETTURE SULL’ARCHITETTURA DEL PONTE E DELL’ARCO

Ci si può chiedere il nome dell’architetto del ponte ma senza documenti storici l’impresa è impossibile. Ci si può chiedere invece a quale scuola o gusto o ambito poetico apparteneva l’architetto che ha progettato il ponte, e questo è fattibile, ci vuol solo un poco di indagine filologica.
E’ il ponte stesso a dirci come ‘ragionava’ formalmente chi l’ha progettato.
Intanto è bene dire che i simboli augustei nelle chiavi di volta sono datati, rimandano al 27 a.C. l’anno in cui un architetto augusteo progettò l’Arco. E’ possibile, ci chiediamo, che lo stesso architetto abbia progettato anche il ponte, che però venne realizzato a partire dall’ultimo anno di vita di Augusto?
Che poetica suggerisce l’Arco? Appare subito un doppio linguaggio: l’arco e la sua base sembrano opera repubblicana, italica o anche etrusca, mentre le colonne con la trabeazione e il frontone che si immerge nel frontone sembrano opera di un architetto greco delle monarchie ellenistiche. Sembra una manifestazione figurativa dell’apparente dualismo di potere: Augusto e il Senato della restitutio rei publlicae. Vitruvio, che scrive al tempo di Augusto, ma si è formato ai tempi di Giulio Cesare, più tradizionalista, l’avrebbe giudicato di linguaggio barocco nella sua parte ellenistica, troppa cornice sia ionica che corinzia, o l’una o l’atra, di contro l’arco e la base troppo semplici. E poi quel frontone o timpano – triangolo – che scende in basso? Capricci, corbellerie, mancanza di unità.

Gli archi onorari, a testimonianza di Livio – Ab urbe condita libri XXIII, 27, 3 – e di Plinio – “novicio inventio” [nuova invenzione] Naturalis Historia XXXIV, 27, sarebbero del II secolo a.C. Questo di Rimini è stato pensato come un edificio templare, con le effigi di quattro Dei, che inquadra il fornice in tre ordini sovrapposti: la base arcaica, il colonnato con la trabeazione e il timpano, e l’attico con l’iscrizione, il tutto fa da monumento ad una quadriga con Augusto, come appare nelle monete, segnalate da Bartolomeo Borghesi, dove è rappresentato il gemello sul ponte Milvio. Tutte queste informazioni che precedono e seguono le prendo da Luigi Crema, L’architettura romana, S.E.I. Torino 1959 e da Luigi Tonini, Rimini avanti il principio dell’era volgare, Rimini 1848.

Il ponte stesso è stato pensato come un edificio a tre ordini: il primo è formato dalla base a bugnato quasi rustico, molto ombreggiato, il corpo di mezzo con una parete liscia e luminosa presenta quattro edicole ‘toscane’ per facciata, che somigliano a finestre, questo ordine si conclude con una massiccia cornice a modiglioni ‘corinzia’. L’ultimo ordine o attico è formato dalla sponde con le epigrafi.
I ponti romani precedenti erano di struttura funzionale – l’arco era usato già nelle mura serviane di Roma tra III e II secolo a, C. ; dapprima di pietra erano solo i piloni e la struttura passante era di legno. Al ponte Emilio gli archi vennero aggiunti nel 142 a.C. – Livio, Ab urbe condita libri XL, 5, 4 -.
Due piccole lesene, ai lati di un piccolo fornice centrale e una cornice semplicissima appare nel ponte Fabricio – del Curator viarum L. Fabricius del 21 a.C. – presso l’isola Tiberina, anche qui il primo ordine dei frangiflutti è a bugnato; è un avvio che si svilupperà ad Ariminum nel ponte sull’Ariminus.

Il ponte-domus, una sorta di invenzione surrealista, come la casa di Augusto a Roma presenta il clipeum virtutis e la corona civica, va considerato allora come replica della domus augustea, il luogo della residenza di Augusto a Rimini nell’8 d.C., quando seguiva da vicino la campagna di Tiberio in Dalmazia e Pannonia, che forse doveva trovarsi nell’area detta nel basso medioevo “corte ducale” presso la scomparsa basilica di S.Maria in Corte.

Un architetto surrealista? Certo non è un operatore della cerchia neoattica dei cantieri romani del Tempio di Marte, inaugurato nel 2 a. C.; è uno spirito libero che mescola arcaico repubblicano e colonne corinzie ellenistiche, che umilia il frontone dell’Arco facendolo scendere sotto la trabeazione – che sia un omen un augurio repubbicano nei confronti dell’imperator? -, che ama luci o spazi circolari cosmici degli archi con brevi montanti alti quanto il raggio dell’arco, che è sensibile alla fenomenologia cromatica e alle luci/ombre. Forse è un provinciale, un architetto locale come aveva proposto Guido Achille Mansuelli (1916-2001) per l’architetto dell’Arco in Il monumento augusteo del 27 a.C.: nuove ricerche sull’Arco di Rimini, Tamari, Bologna 1960.

LA TORRE DI FIANCO AL PONTE NEL BORGO SAN GIULIANO

A monte e a sinistra del ponte, dalla parte del Borgo di San Giuliano, a pelo dell’acqua stagnante, si nota a ben guardare la base rettangolare di una torre costruita con pietre squadrate antiche di recupero visibili per quasi un metro molto annerite sulle quali si alza un muro di mattoni di epoche diverse fino alla superiore terrazza. Sopra le pietre annerite si nota una pietra scolpita con un rosone, simile a quelli nella trabeazione delle tombe repubblicane degli Ovi e dei Maeci conservate mel lapidario del Museo. Evidentemente la torre venne costruita a difesa del ponte con materiale lapideo preso dalle tombe romane lungo la via Emilia, non necessariamente nell’area del Borgo, ma forse oltre le Celle.
Questa torre è ricordata nella bolla del di papa Gregorio VII – papa dal. 1063 al 1085 – di riconferma della donazione pontificia all’abate del monastero di San Pietro, poi San Giuliano, di tutto il terreno del Borgo. Interessante proprietà che fa pensare ad una precedente proprietà fiscale imperiale, e all’esistenza sulla lunga linea di terra tra mare e fiume dal ponte alle Celle, di castra serviti da un acquedotto trovato negli anni venti del secolo passato nello scavi del deviatore Marecchia.

La torre è ricordata nel ‘400 da Cesare Clementini, che afferma che venne raddrizzata – qualsiasi cosa significhi, si veda Luigi Tonini, Rimini prima del Mille, a cura di P.G.Pasini, Ghigi editore, Rimini 1975, p. 140 -: In quel secolo la torre esisteva ancora, probabilmente abbassata – si veda Oreste Delucca, L’abitazione riminese del Quattrocento 1, Pacconi, Rimini 2006, pp. 1305, 1319-1320. -. Il Clementini la dice scomparsa al suo tempo (1617).

IL CORSO DEL FIUME ALLA STRETTA DEL PONTE. IL PORTO ROMANO

L’Ariminus che nel primo medioevo si chiamò Marecchia, si è sempre mosso come un serpente scavandosi il suo corso muovendosi verso la città o verso il Borgo di San Giuliano. Probabilmente in epoca romana scorreva parallelo alla via Emilia dalle Celle al ponte, cosa che spiega l’asse obliquo delle pile. Si può congetturare, anche per la scoperta di un acquedotto romano, che nella lunga lingua di terra, difesa dal mare e dal fiume vi fossero i castra che avevano spaventato Annibale facendolo rinunciare a forzare Rimini e a prendere la nuova via Flaminia per Roma.

Nel 1822 il Marecchia aveva invaso l’area del Borgo e della via Emilia con un’alluvione di mezzo metro d’acqua. Allora erano stati approntati dei “pennelli”, complesse strutture di murature e terra travi di legno che venivano costruite in obliquo nel mezzo del fiume per deviarne la corrente. E in effetti l’avevano deviata, ma nel 1823 il problema si era subito ripresentato sulla sponda destra del Marecchia. L’acqua minacciava la sorgente della fontana di piazza in via dei Condotti – oggi via Dario Campana – e frontalmente le mura di Rimini che si attaccano alla parte urbana dell’inizio del ponte dove aveva aperto delle inquietanti fessure.
Ingegnere distrettuale a Forlì in quegli anni era l’archeologo e ingegnere idraulico Maurizio Brighenti (1793-1871), che aveva appena pubblicato un libro sull’Arco, e che propone un’altra serie di pennelli per raddrizzare la corrente.

ALTRE TRACCE DEL PORTO ROMANO A MONTE DEL PONTE

L’ingegnere archeologo Brighenti si preoccupava anche di capire la situazione archeologica e storica dell’area che stava indagando. L’area davanti al ponte lato urbano a monte, nella relazione del 23 settembre 1822 – Piano di esecuzione di una pennellatura sul torrente Marecchia in difesa della botta alla testata di levante del ponte di Tiberio – scrive:

“Il torrente Marecchia da due anni in qua ha cominciato a corrodere la sponda destra in prossimità della testata del ponte di Tiberio. In questo luogo che forse anticamente fu minacciato dello stesso danno, veggonsi costruite delle muraglie delle quali non si rileva ben la forma, sembrerebbero fondamenta di edifizj e ora giacciono immerse sott’acqua colla cresta quasi a livello della massima magra. Fra queste murazioni evidente è l’ufficio del cantone sporgente sopra il detto livello…a difendere cioè la testa del ponte dagli impeti delle acque. Tanto è robusto questo riparo fatto di pietre da taglio che comunque non sembri opera Romana e si creda ristaurato ha potuto reggere molto lungamente ma ora si è volto lo spirito del fiume contro di esso con tanta violenza che mulinando le acque pel fondo ne hanno indebolite le fondamenta, e cagionatevi due grandi fenditure nella facce le quali dall’imo vanno al sommo delle mura cittadine che vi stanno sopra, e a ridosso. Ho mandato un abile nuotatore a tastare le fondamenta, e mi ha assicurato che l’opera è fatta sopra una palafitta che le acque vi comunicano sotto essendo il gorgo molto profondo…”
Sotto queste opere romane si era formata una “botta” o vuoto di circa 6 metri che l’acqua aveva scavato trovando resistenza. Ma l’anno successivo il Brighenti riprende e precisa le osservazioni sugli edifici romani; si tratta dello Schiarimento richiesto dalla Presidenza delle Strade del 29 marzo 1823 – entrambi in ASF, Genio Civile B. 3 -:

“Oltre questa mutazione una notizia interessante che io ho presa lo scorso novembre in acque bassissime è la qualità dei muramenti antichi dei quali parlai in modo indeterminato nella descrizione del piano di escavazione avendo accennato semplicemente che mi parevano fondamenta di antichi edifizj. …e un’ala di travertini contemporanea al ponte che si vede in pelo magrissimo, dal principio al fine piantata dall’Architetto del ponte per diffesa della testata destra. Il fiume l’ha riversata da qualche secolo in qua, e posteriormente più indietro verso la riva vi fu sostituita per lo stesso fine una più lunga muraglia…La cresta dell’ala Romana rare volte si vedea a pelo d’acqua; l’altra emerge nelle magre ordinarie…queste due ali hanno dei muri traversi che le rafforzano e le congiungono alle mura urbane.

Tanto è antica la tendenza del fiume al luogo che si vuole ora difendere , e tanto ha di forza che ha potuto rovesciare i ripari più forti che sappiano costruire gli Uomini!…
Il fiume tende più a recarsi a ogni patto sul lato manco e non per circostanze particolari del sito ma per forza della sua natura; però si vede il suo tronco parallelo al ponte, ad angolo retto col tronco inferiore; e vorrebbe esso andare per la ipotenusa di questo triangolo rettangolo se le resistenze locali non glielo impedissero; si che morde ogni dì dispettoso e vendichevole la punta Z [dal lato del Borgo] per modo che in pochi mesi ne ha tratto al fondo grosse muraglie del Convento di San Giugliano che la difendono…”

La scrittura del Brighenti è piacevole da leggere ed è ‘sensata’ come diceva Galileo Galilei delle prose scientifiche, e certamente le costruzioni romane di diversi secoli notate avranno avuto anche un uso di contenimento delle piene per salvaguardare il ponte, niente peraltro si oppone alla congettura che come si vede presso il ponte a sinistra le dighe siano statesommario costruite sull’impianto delle strutture portuali. E’ un campo immenso di ricerche storiche e archeologiche questo del ponte e del porto romano che in tempi meno ‘riministi’ porteranno alla luce i tesori trovati negli scavi del porto romano di Pisa.

Immagine d’apertura: Richard Wilson, Il Ponte di Tiberio, 1750 (Rimini, Museo della Città).

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