Col chiodo fisso di Fellini il Comune perde anche l’occasione dell’anniversario leonardesco

Col chiodo fisso di Fellini il Comune perde anche l’occasione dell’anniversario leonardesco

"Fino a quando l'amministrazione comunale di Rimini sarà tutta e solo orientata su Fellini, fino a decidere di allestire tre luoghi espositivi dedicati, 'violentando' anche Castel Sismondo trasformato in Museo Fellini, le altre e ben superiori tangenze culturali riminesi con la grande cultura nazionale ed europea non verranno celebrate". Quando si darà il giusto valore al Rinascimento riminese? "Il sindaco dovrebbe attorniarsi di esperti culturali capaci di capire i legami tra Rimini e i contesti culturali". Parla il prof. Rimondini.

L’incunabolo gambalunghiano del De re militari di Roberto Valturio è uno dei “pezzi” di valore esposti presso le Scuderie del Quirinale da ieri (e fino al 30 giugno) nella mostra “La scienza prima della scienza” in occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci.
E’ uno dei tesori custoditi nella Biblioteca Gambalunga l’opera stampata nel 1472 e scritta da Valturio tra il 1446 e il 1455, dedicata al condottiero Sigismondo Pandolfo Malatesta, illustrata da xilografie che rappresentano le macchine da guerra e le tecniche d’assedio. Perché Rimini si lascia sfuggire un’altra occasione per ritagliarsi un suo spazio nella cultura nazionale ed europea e non fa nulla per valorizzare il rapporto fra Leonardo e Rimini?

“Fino a quando l’amministrazione comunale di Rimini sarà tutta e solo orientata su Fellini, fino a decidere di allestire tre luoghi espositivi dedicati, ‘violentando’ anche Castel Sismondo trasformato in Museo Fellini, le altre e ben superiori tangenze culturali riminesi con la grande cultura nazionale ed europea non verranno celebrate”, dice a Rimini 2.0 il prof. Giovanni Rimondini. “Prima di tutto il sindaco dovrebbe attorniarsi di esperti culturali capaci di capire i legami tra Rimini e i contesti culturali, e naturalmente anche ascoltarli”. Grazie soprattutto dell’ex assessore alla cultura Massimo Pulini, il coinvolgimento di un esperto come il prof. Giulio Zavatta, ha permesso di centrare l’obiettivo di riportare a Rimini la Madonna Diotallevi di Raffaello. Ma è un caso più unico che raro.

Professore, quali furono i rapporti di Leonardo da Vinci con Rimini? “In due momenti il rapporto con Rimini fu molto stretto: quando era a Milano alla corte di Ludovico il Moro, il senese Francesco di Giorgio Martini gli diede un’edizione del De re militari, forse manoscritta di Roberto Valturio, con le immagini relative alle macchine e armi, xilografie o disegni curati da Valturio che Francesco di Giorgio Martini, architetto di Federico da Montefeltro, aveva in parte riprodotto in pannelli litici per ornare l’esterno del palazzo Ducale di Urbino, dove sono ancora in gran parte. Ma ebbe anche, proveniente dalla biblioteca di Sigismondo, un manoscritto di Leon Battista Alberti intitolato Ludi mathematici e dedicato a Sigismondo Pandolfo. Il manoscritto venne poi pubblicato con una dedica a Meliaduse d’Este, fratello del marchese Leonello, un segno che la fortuna di Sigismondo Pandolfo stava declinando. Leon Battista Alberti trasferisce nel suo De re aedificatoria, a proposito delle architetture delle fortificazioni, tutti i discorsi che aveva sentito nel consiglio degli homines periti ad bellum di Sigismondo Pandolfo. Anche Andrea Mantegna attinse al De re militari per dipingere una serie di teleri con i trionfi dei Romani, conservati nelle collezioni della regina d’Inghilterra nel castello di Windsor”.

E il secondo momento? “Leonardo si occupa di Rimini quando la città è nelle mani di Cesare Borgia (detto “il Valentino”) duca di Romagna. Lui è al servizio del duca come ingegnere e per altre attività quando nota in un suo libretto manoscritto l’armonia delle acque della fontana di piazza della fontana (Cavour): “Fassi un’armonia colle diverse cadute d’acqua, come vedesti alla fonte di Rimini, come vedesti addì 8 d’agosto 1502”. In un libro recente, Angelo Chiaretti ha sostenuto che Leonardo per il Valentino avrebbe disegnato la porta del castello di Mondaino, ma non è possibile, perché tale porta aveva un apparato di cannoniere precedenti a quelle cosiddette “alla francese” che potrebbe avervi fatto costruire il Valentino. Invece in Romagna Leonardo per il Valentino potrebbe avere restaurato le rocche di Imola, dove gli è attribuito un palazzetto porticato detto “Il Paradiso”, sotto c’erano le prigioni, dette l’Inferno, e quella del Ravaldino di Forlì, dove io e Dino Palloni gli abbiamo attribuito il grande stemma del Valentino sul muro esterno (verso monte) della rocca, e i beccatelli a forma di mezzaluna”.

Rimini vive nel Rinascimento una stagione fortunatissima, che sarebbe il miglior biglietto da visita da spendere anche in chiave turistica, ma… “Col 1502 termina la residenza, il passaggio, l’interesse dei grandi geni del Rinascimento per Rimini, e per il governo dei Malatesta che finisce proprio nel 1528. Il solo Sigismondo, per non citare Carlo, suo zio, che aveva avuto un ruolo importante nel far finire lo Scisma d’Occidente, ed era conosciuto in tutta Europa, imparentato con gli imperatori di Bisanzio e con i granduchi di Mosca. Sigismondo fa venire a Rimini tre generazioni di grandi artisti prospettici del Rinascimento: Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi, a Rimini e nei territori malatestiani nel settembre ottobre del 1438, e Piero della Francesca, senza contare i filosofi come Gemisto Pletone, le cui ossa sono inumate in un’arca del Tempio Malatestiano, gli umanisti minori e i poeti. Insomma, si può affermare che è esistito un Rinascimento riminese di rilevanza italiana ed europea, che ha avuto una punta nella costruzione del Castello e del Tempio, e un secondo Rinascimento minore di ispirazione bolognese-ferrarese al tempo di Roberto il magnifico (mura e “torricelle” del Borgo San Giuliano, chiesa di Santa Maria di Scolca, palazzo Lettimi, palazzo Monticoli). Ma finché avremo un sindaco centrato solo su Fellini …”.

Fra tre anni ci sarà un altro anniversario da far tremare i polsi… “Nel 2021 si celebrano i 700 anni della morte di Dante Alighieri.  E Rimini in Romagna potrebbe rubare la scena a Ravenna se si accendessero i riflettori sulla vicenda delle due morti, distanti di anni, di Paolo e Francesca…” Può riassumerci in estrema sintesi su quali basi poggerebbe questo diverso finale rispetto alla storia dei due amanti che conosciamo tutti? “La mia maestra di storia medievale, Gina Fasoli (Bassano del Grappa 1905 – Bologna 1992) in due saggi degli anni ’30 ci metteva in guardia dall’usare la Divina Commedia come un testo di storia. Il “ghibellino” Dante, per fare un esempio eclatante, prende sul serio la leggenda antiguelfa e antifrancese che Ugo Capeto, capostipite dei re di Francia dopo la dinastia Merovingia, fosse figlio di “un beccaio di Parigi”, quando sappiamo invece che era un discendente diretto di Carlo Magno. Ci sono documenti storici validi coevi al presunto delitto? Purtroppo ce n’è uno solo utile, una documento pontificio del 1288. Papa Niccolò IV incarica il vescovo di Pesaro di sanare il difetto per una parentela troppo stretta nel matrimonio tra Tino, primogenito di Giovanni Zotto (Gianciotto nei commentatori di Dante) e della sua seconda moglie Zambrasina, e Agnese figlia di un Montefeltro conte di Urbino. Non c’è però in questo documento pontificio la delega a sanare il difetto dell’età. Per questo motivo si può ipotizzare che sia Tino che Agnese avessero nel 1288 già raggiunto o superato l’età legale per i matrimoni che era di sette anni, e quindi che non ci fosse stato bisogno di una sanatoria pontificia per essere di età inferiore ai 7 anni. Dunque, se Tino nel 1288 aveva già l’età legale di 7 anni, era nato nel 1281 al più presto, e Francesca doveva essere morta nel 1280, se non prima. Ma Paolo era capitano del Popolo di Firenze negli anni 1282 – 1283. Non affermo allora che i due personaggi storici – non discuto sui personaggi letterari – sono morti a diversi anni di distanza l’una dall’altro, ma che quanto meno bisogna sospendere il giudizio che fa coincidere i personaggi letterari con quelli storici. Ma non si riesce a convincere i Dantisti, solitamente personaggi di grande erudizione e di ingenuità disarmante, a verificare la validità storica delle affermazioni dantesche: “Dante non si discute” mi ha detto un’illustre letterata riminese. In un momento tanto climaterico e inquietante per la prosecuzione della nostra identità culturale, queste affermazioni ‘talibane’ gratuite che escludono la ricerca della ‘verità’ storica dalla nostra cultura letteraria più alta, fanno temere qualcosa di brutto sulla decadenza irreversibile della lingua e letteratura italiane”.

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