Come fu che il teatro di Rimini passò dal re d’Italia al compositore di Perticara

Come fu che il teatro di Rimini passò dal re d’Italia al compositore di Perticara

Fino al 1947 si chiamò Teatro Vittorio Emanuele II, poi l'inno dei lavoratori fece il miracolo

Il cambio del nome su proposta della giunta socialcomunista del sindaco Cesare Bianchini. Per "rimuovere da edifici pubblici nomi e scritte che ricordino fatti o persone legate al passato regime istituzionale". Una follia giustificata solo da ragioni ideologiche. Così nel dopoguerra il teatro comunale venne intitolato ad Amintore Galli. Ma ora che è venuto il momento del taglio del nastro, si può ragionare con freddezza, laicamente, su un ritorno alle origini. Cominciamo a farlo con uno scritto di Luigi Pasquini, vergato per i 40 anni della morte di Galli.

6 maggio 1947. Su proposta della giunta socialcomunista guidata dal sindaco Cesare Bianchini (Pci) si concretizza la balzana idea di cambiare nome al teatro di Rimini. Inaugurato nel 1857, fino all’immediato dopoguerra era stato il teatro Vittorio Emanuele II. Perché idea balzana? Perché è figlia solo di una passione ideologica. Lo si può leggere nella delibera di consiglio comunale n. 193 “intitolazione del Teatro Vittorio Emanuele al nome del M° Amintore Galli”.

“Su proposta della Giunta Comunale;
considerato che nel rinnovato clima democratico della Nazione si renda opportuno rimuovere da edifici pubblici nomi e scritte che ricordino fatti o persone legate al passato regime istituzionale;
ritenuto che in relazione al suespresso concetto appaia opportuno sostituire la intitolazione del Teatro Comunale in atto dedicato a Vittorio Emanuele;
ritenuto che tale artistico monumento possa essere convenientemente intitolato al M° Amintore Galli, cittadino riminese, che per oltre mezzo secolo ha tenuto alto in Europa le tradizioni musicali del nostro popolo;
A voti unanimi, per alzata e seduta;
delibera
di sostituire la intitolazione del Teatro Comunale da “Vittorio Emanuele” a “Amintore Galli”
.

L’idiosincrasia della sinistra verso i simboli di una storia passata che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna, non è quindi una novità e arriva fino ai giorni nostri con la proposta di legge Fiano (fortunatamente abortita). Purtroppo le forze socialcomuniste, che pure avevano una maggioranza schiacciante in quel consiglio comunale (quasi il 60%), non vengono avversate nel loro progetto di ribattezzare il teatro comunale, e si accodano anche Dc, Pri e Indipendenti.

Non farà la stessa cosa, ad esempio, la giunta di sinistra che governa Milano, che mantiene il nome di Vittorio Emanuele II di Savoia alla famosa galleria che fa da trait d’union fra la piazza del Duomo e la piazza della Scala. Ma a Rimini colui che è passato alla storia come il “padre della Patria” e “Re galantuomo” non stava evidentemente simpatico. Ma Vittorio Emanuele è Vittorio Emanuele. E Amintore Galli, conteso fra Talamello e Perticara, chi è? Lo descrive con la penna intinta nello humor Luigi Pasquini nel 1959 in un articolo pubblicato su “La Martinella” di Milano, in occasione dei quarant’anni dalla morte di Amintore Galli. Titolo: “Musicò l’inno dei lavoratori senza saperlo”. Il tema della intitolazione del teatro di Rimini è ogni tanto rispuntato nel dibattito riminese. Ma senza mai approdare a nulla. Peccato, perché invece è venuta l’ora, adesso che si parla della inaugurazione ormai vicina, di pensarci seriamente. E il ritorno a Vittorio Emanuele II, superando quella delibera ideologica del 1947, sarebbe la scelta migliore.

Ecco di seguito il testo (in cui la data di nascita di Amintore Galli è indicata nel 1842 e a Talamello, mentre risale al 1845 e a quanto pare a Perticara, ma deve trattarsi di un errore di battitura perché nello scritto vien detto giustamente che Galli moriva “settanquattrenne” l’8 dicembre 1919, e 1919 meno 74 fa 1845) di Luigi Pasquini.

Pochi sanno che l’autore della musica dell’«Inno dei Lavoratori» fu un romagnolo, di nome Amintore Galli, nato nel 1842 a Talamello di Val Marecchia e che morì quarant’anni fa, nel 1919, a Rimini.
Ragazzo, egli studiò nel ginnasio riminese, apprendendo le prime nozioni musicali dallo zio, maestro Pio Galli, e si perfezionò, in seguito, nell’arte dei suoni, presso il Conservatorio di Milano, tra il 1862 e il 1867, alla scuola di Croff e Mazzuccato, dove, nel 1878, dietro concorso, venne nominato insegnante di armonia.
A Rimini egli tornava ogni volta che l’insegnamento e gli impegni professionali glielo consentivano (era l'”esperto” musicale della Casa Sonzogno ed esercitava sui quotidiani di Milano la critica teatrale) occupando una modesta casa, sulla facciata della quale, recentemente, il patrio Comune ha fatto murare una lapide e ha intitolato al suo nome il rudero del massimo teatro, già Vittorio Emanuele II, massacrato dalla guerra, il quale si erge tuttora, come testimonianza angosciosa, nel cuore della città: onta, indubbiamente, per una fra le più celebrate località estive, che fa perno, con la propria economia, esclusivamente sull’industria turistica.
Nella città malatestiana venne rappresentato la prima volta il suo “David”, macchinoso operone, costosissimo; e raggiunge il traguardo della prova generale l’altra sua opera lirica, “Follia tragica”, durante la quale, assistendo gratuitamente gran parte della cittadinanza, l’impresa non ritenne più necessario eseguire la prima rappresentazione. A Rimini, infine, nel settembre del 1919, venne eseguito l’ultimo suo lavoro, la “Missa Pacis”, e, tre mesi dopo, l’8 dicembre, settantaquattrenne, il maestro moriva.
Amintore Galli non fu un grande compositore. La sua attività proficua va ricercata – ed elogiata – nell’insegnamento. Più che artista, fu un erudito, uno storico, uno scrittore di cose musicali con intenti volgarizzatori, una specie di Flammarion della musica, autore di quella “Estetica musicale”, insigne anche letterariamente, che si studia anche adesso nei nostri Conservatori.
Come gli avvenne di musicare l’Inno dei Lavoratori?
La faccenda andò così. Correva l’anno 1885, il tempo in cui, a Milano, la giovanissima Anna Kuliscioff, lasciato Andrea Costa, dal quale aveva avuto Andreina, invaghiva di sé Filippo Turati. Venuto a contatto con la “bellezza armoniosa di Anna”, come la descrive il Lombroso nel suo libro “Fisionomi dei grandi rivoluzionari”, accostatosi alla bionda russa dagli “occhi grigio-azzurri nella grande orbita ambrata, occhi dolci, teneri, gravi e lo sguardo dritto, profondo, che veniva dalla sua anima, trasfondendo nelle persone che essa credeva degne di sè un’onda inebbriante”, il giovane Filippo prese fuoco come un fiammifero, accompagnandosi a lei. E poco conta se, in seguito, nei congressi di partito, i compagni, indicandola col nome di “signora Turati”, essa graziosamente rimbeccava: “Io non sono la signora di nessuno: sono semplicemente Anna Kuliscioff”. Resta il fatto che, accolta come una figliola dalla mamma di Filippo essa non lasciò più la casa.
L’euforia romantica di quei giorni si manifestò nel giovane internazionalista col lancio della famosa circolare per raccogliere i fondi a favore dei proscritti di Russia, circolare magistralmente scritta da lui e firmata dagli uomini più eletti della democrazia del tempo, ma più ancora essa fiorì con la composizione dei versi dell’Inno dei Lavoratori, che gli sgorgavano dal cuore.
I versi. E, la musica? Trovata. La stessa che “un maestro romagnolo” di sua conoscenza, insegnante al Conservatorio, ha composto per una società sportiva, per un circolo ricreativo, per un collegio di educande, non ricordava bene: un qualcosa del genere, insomma, una musica straordinaria, che egli aveva ascoltato e con gli amici in quei giorni, durante una visita al maestro.
Un ritocco ai versi e l’Inno è a posto… Che cosa? Il maestro romagnolo non è disposto a cedergliela? Si vedrà!
Ed ecco l’infervorato tribuno investire il mite compositore: – Qua la musica! – Non posso – geme il maestro – E’ musica non più mia, passata in proprietà di coloro che me l’hanno ordinata. Vada da essi. Mi creda, signor Turati, non dipende da me. Se anche lo dipendesse, non potrei ugualmente. Sono un uomo d’ordine. Che direbbe il direttore del Conservatorio? i colleghi, gli amici, gli estimatori? Povero me! Si insinuerebbe che ho svenduto l’anima all’anarchia.
– Storie! – lo interrompe l’altro. – Macché circoli e conventi. Niente proprietà d’altri. Questa è musica che fa per me, per il mio inno. E’ musica fatta per l’aria aperta, sono note squillanti da lanciare sotto il sole, roba da cantare a torso nudo, da uomini affrancati dalla schiavitù, che esige voci maschie, non voci bianche, esalata nell’ombra, dietro la grata.
Niente di romanzato in tutto ciò. Sono verità, che gli amici ancora viventi del maestro possono testimoniare.
La vicenda fu cagione di gravi noie per il compositore. Egli ebbe a soffrire tribolazioni a non finire per l’intromissione della polizia. E se la sua musica venne manomessa dagli editori che ci specularono su, tanto che, rivolto ai suoi persecutori, egli, contristato, protestava: “Ma perché ve la prendete con me? Quelle note non sono mie, è stato cambiato ogni cosa”, da artista sempre animato da amor proprio, gli bruciava più lo strazio continuato cui la sua composizione era fatta segno, che il non poter proclamare apertamente, vantandosene, che l’inno era suo, al punto da vedersi costretto, a un certo momento, di sostituire il proprio con altro nome.
Quando giunse Caporetto, nella scia seguita alla formula, di sei mesi prima, “Questo inverno non più in trincea”, egli venne diffidato a ritirare a sue spese tute le copie dell’inno messe in commercio dagli altri. Temperamento per nulla battagliero men che meno, clandestino, più che la spesa, sul pover’uomo, potè il terrore: ritirò tutto il ritirabile, preso da sì grande paura, da ammalare. Ammalò, infatti. E non si riebbe più.
Negli ultimi, squallidi, anni riminesi, malinconicamente il maestro ricordava ai vecchi amici che, se tutti gli allievi avuti in quarant’anni di insegnamento gli avessero fatto visita, essi avrebbero dovuto fare “una coda lunga come la via Gambalunga”, che è, appunto, la via dove egli abitava. E, sulla povera facezia, gli scendevano sugli occhi velati le palpebre stanche.
Se n’andò silenziosamente il compositore, che mai beneficiò dei diritti di autore del suo celebre inno: un modo di “volare” al cielo, per gli onesti diseredati. Egli riposa nel cimitero di Rimini, entro una modesta tomba segnata da una colonnetta mozza: la prima, a destra, entrando.
Sfruttato anche lui, il vessillifero (suo malgrado) dagli sfruttati.

Luigi Pasquini

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