Cosa ci fa una stazione nella campagna di Poggio Torriana? Potere dei sogni

Cosa ci fa una stazione nella campagna di Poggio Torriana? Potere dei sogni

L'estemporanea installazione si palesa all'improvviso, come fosse un totem che emerge dal passato o un effimero ologramma evanescente. Invece è di solido e pesante ferro. Con tanto di rotaie, traversine, panchine, lampioni. Il locomotore 740-192 sembra in attesa di riprendere il viaggio. Chi poteva immaginare e realizzare tutto ciò? Solo uno che ha scritto il diario della sua prigionia sull'alluminio. Con lucida speranza.

Dalla Strada Provinciale 13 che da Santarcangelo va verso Poggio Berni, giro in Via Chiesa di Camerano a Poggio Torriana. Mi inoltro lungo la stradina verso l’interno per circa 3/400 metri. Quando la strada piega verso destra, sulla sinistra della carreggiata, al civico 369 vedo materializzarsi una vecchia locomotiva nera a vapore con al traino un vagone rosso per trasporto merci o animali. Non esseri umani.

L’estemporanea installazione si palesa all’improvviso, come fosse un totem che emerge dal passato o un effimero ologramma evanescente. Invece è di solido e pesante ferro. La singolare opera è incorniciata da un allestimento che vuole simulare una sorta di minuscola stazione con tanto di rotaie, traversine, panchine, lampioni. Il locomotore 740-192 sembra in attesa di riprendere il viaggio.

È la rappresentazione della “stazione sognata”, suggerisce Alfredo Monterumisi (Ambasciatore dell’Associazione Città del Vino). Tempo fa, mi ha segnalato quella locomotiva in mezzo alla campagna, lontana almeno cinque chilometri dalla ferrovia più vicina, quasi fosse una bandierina piantata al limitare di quel campo, infissa nella terra. Per non dimenticare. Ma chi e perché ha sistemato all’interno di una tenuta agricola un treno a mo’ di installazione, troppo ingombrante per entrare in un museo, è presto detto.

Dietro c’è una vicenda legata al secondo conflitto mondiale. Tutte brutte storie, quelle di guerra. Anche quando l’esito finale di una pessima esperienza non è dei più drammatici, i ricordi rimangono come incisi al laser, sulla pelle e nella memoria di chi li ha vissuti. Talvolta pure sull’alluminio. Cosa c’entri l’alluminio, a breve ne capirete il motivo.

Dunque, vengo al racconto che mi ha fatto Luigi, figlio di Tino Antoniacci, il protagonista della vicenda che ha inizio 77 anni fa. Tino è distaccato presso la caserma Pio Spaccalamela di Udine. Appartiene all’11° Reggimento Genio Trasmettitori. Ha ventidue anni, una fidanzatina e la famiglia che lo aspettano a Camerano di Poggio Berni. Stazione di Udine. Sono le sette di sera del 12 settembre del 1943. Dopo l’agosto che ha infuocato l’Italia, lunghe lingue di calura pervadono ancora l’aria e i muri. Gruppetti di militari italiani, sudati, demotivati e allo sbando dopo l’8 settembre (tra cui anche Antoniacci), attendono un convoglio che li riporti alle città d’origine. In un baleno, mentre sono nell’atrio della stazione, vengono rastrellati dalle truppe tedesche, ora nemiche. La stessa sorte capita ad altri 600.000 soldati italiani, dopo la proclamazione dell’armistizio. Ramazzati in giro per lo Stivale e allegramente spediti a lavorare in terra ariana, diventano “IMI” (Italienische Militär Internierte: Italiani Militari Internati).

Con i consueti modi brutali, Tino e compagni vengono invitati a salire sopra un carro normalmente adibito a trasportare merci o bestiame. Destinazione? Inferno. I “viaggiatori”, stipati in quei pochi metri quadrati, senza finestrini e senza gabinetto, sono una cinquantina. Si parte. Con pochi mezzi di fortuna e grande fatica, dopo un po’ di tempo i commilitoni riescono a fare un buco nel legno del pavimento. Durante i tre giorni di trasferimento verso Suwalki (all’epoca “Sudauen”, in tedesco) in Polonia nord orientale, quello è il loro bagno. Il viaggio è tutt’altro che di piacere. Durante il percorso il cibo è molto scarso e subiscono bombardamenti, tuttavia giungono incolumi nei confortevoli “stalag” loro assegnati. Il “nostro”, al termine di tutto, dopo spostamenti in altri campi di lavoro (per esempio a sud di Dresda, precisamente a Wistritz, nei Sudeti) e varie “vicissitudini” (giusto per condensare mesi e mesi di patimenti in un pugno di lettere), nonostante il fisico gracile e non perfettamente in salute, riesce a salvare la pelle.

Tino Antoniacci, a sinistra nella foto, insieme ad un commilitone durante la prigionia

Succede che gli scanzonati datori di lavoro del Terzo Reich perdono la guerra. Il giovane soldato intraprende il viaggio di ritorno verso casa con una dozzina di ex compagni di prigionia. Si sciroppa 700 chilometri di cammino a piedi, tra macerie, miseria e desolazione, ma riabbraccia la famiglia e la fidanzata Chiarina Marcosanti che poi sposerà. Come per tutti, la vita torna lentamente alla normalità. Tino costituisce un’impresa edìle e in seguito, quando la moglie eredita parte della storica tenuta agricola di famiglia, parallelamente si dedica anche alla produzione di olio e di vino.

Nei primi anni ’90, mentre restaura la facciata della stazione di Rimini, su un binario morto nota una vecchia locomotiva che ha qualcosa di molto familiare. È un modello molto simile, se non identico, a quello con cui è stato deportato. Viene travolto dall’onda nera dei ricordi. La vecchia 740-192 è in vendita. Però costa troppo rispetto alla cifra che lui è disposto a sborsare. Decide di abbandonare l’idea, ma l’immagine della locomotiva, da quando l’ha vista, lo pedina senza sosta. Gli sembra perfino di sentirle sbuffare vapore. Forse, avere il simulacro della sofferenza a casa propria, sempre davanti agli occhi, può aiutare a esorcizzarla e nello stesso tempo favorire la trasmissione di valori importanti alle nuove generazioni. Torna alla carica e con un capo reparto delle Ferrovie si impegna a mostrare la locomotiva e raccontare la propria storia di guerra alle scolaresche, in cambio di un minor prezzo di acquisto. La trattativa imbocca il binario giusto. Pochi mesi dopo, la “FS 740” nata nei cantieri Ansaldo Breda di Saronno, varca i cancelli di casa Antoniacci-Marcosanti per essere sistemata dove la si vede ancora oggi. Da quel giorno e per diversi anni, Tino e famiglia accolgono le scolaresche alla tenuta Case Marcosanti e offrono loro pasticcini e bibite mentre con l’esperienza vissuta e la saggezza di un nonno, mette in guardia i ragazzini dagli orrori della guerra.

Oltre alla locomotiva, l’ex soldato mostra anche un oggetto enormemente più piccolo del treno: la gavetta d’alluminio e il cucchiaio con il punzone “R.E.” (Regio Esercito”) che aveva con sé al momento in cui le truppe tedesche lo catturarono a Udine.

La gavetta equivale al muro della cella che solitamente i carcerati adoperano come diario e conteggio dei giorni che mancano alla libertà.

Sul contenitore del rancio, Tino Antoniacci incide il proprio nome e quello della fidanzata, poi imprime date, sensazioni, speranze, sentimenti e auspici.

Quei pezzi di alluminio sono il compendio della sua vita da deportato. Una descrizione puntuale e articolata la riporta invece in diverse agendine scritte a matita con grafìa talmente minuscola che ne rende difficoltosa la lettura.

Del resto, se lo avessero scoperto, come successe ad altri meno fortunati, sarebbe stata la fine.

Grazie al cielo, non è andata così e ora, sette anni dopo l’ultimo treno preso da Tino, sono il figlio Luigi e i nipoti che raccontano la storia della locomotiva. In carrozza!

Vorrei ringraziare il ricercatore-scrittore Vitoronzo Pastore che da me coinvolto, sta aiutando Luigi Tognacci a ricostruire il percorso storico (più sopra accennato appena) della vita da prigioniero militare del padre Tino. Questo, attraverso documenti, relazioni con associazioni e grande, specifica preparazione in materia.

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