Sui sentieri del cuore: il libro di Gabriella Mazzoli

Sui sentieri del cuore: il libro di Gabriella Mazzoli

Docente di lettere e storia dell'arte nei licei riminesi, con una scrittura che sorprende per stile e profondità, in queste pagine apre la propria esistenza svelando al tempo stesso il punto fissato nella vita di tutti.

“In questo libro è tracciata una linea sinuosa, franta e ricomposta, di un’esistenza personale che non teme rivelarsi”: che soddisfazione leggere e recensire un libro del cui autore sei amico! E che non “devi” farlo per un semplice impegno professionale.
Gabriella Mazzoli è nata a Rimini il 12 dicembre 1953 e vive a Riccione. E’ sposata con Ciro Picciano; è d’obbligo la citazione del marito, visto che lui nella pubblicazione del libro e anche in qualche parte del contenuto ha avuto un ruolo decisivo. Gabriella è madre di tre figli (anzi, come dice lei di sei, ma tre non sono nati), che dopo la laurea a pieni voti (ma che lo scrivo a fare!) in lettere moderne all’università di Bologna, è stata a lungo docente di lettere e storia dell’arte nei licei lasciando in tanti suoi studenti un bel ricordo e con taluni una indelebile e vera amicizia. Nel decennio tra il 1972 e il 1982 ha partecipato all’attività artistica e teatrale del gruppo Zafra che ha raggiunto una vera notorietà nazionale.

Il suo libro s’intitola “Il mare il pane il focolare. Sui sentieri del cuore”, Pazzini editore, uscito nelle librerie verso la fine del 2019, troppo a ridosso del lockdown primaverile per avere l’eco e la presentazione meritati. Mi piacerebbe che questa recensione colmasse la lacuna. Sorta di meditazioni autobiografiche e di ricordi di un’alma esistenza, non c’è una sola riga di questo libro che non sia vera. Oltre alla prefazione del professor Nevio Genghini, ha anche una “prefazione bis” a cura di Paola Ceccarelli, di cui vale la pena citare questa frase: “E’ tutto così vero e vivo e libero quello che scrivi che, devo dirti, hai squadernato qualcosa in me di molto profondo”. Andatevi a leggere il libro e vedrete se non squaderna ben più di qualcosa anche in voi.

Ma ecco l’incipit del primo capitolo “Punteggiatura”: “Ho attraversato vallate, Alpi e Pirenei. Non il mare. Quello lo amo, non lo posso lasciare. Mai che ci sia un rapporto semplice per me. Mai che ci sia un rapporto troppo complicato. Sono nata. Una volta. Mi si dice che quel 12 dicembre del 53 nevicava. L’anno del nevone e poi sono rinata. E morta. E rinata. E mai morta veramente e mai veramente rinata. Fino a che… mio Dio ecco perché odio la punteggiatura. Quella che con cura correggo nei compiti dei miei alunni, il ritmo del pensiero, la sintassi del sentimento. Eppure ci vuole. (Mamma mia, sento salire l’ansia come quando consegnavo il compito in classe all’insegnante d’italiano!, ndr). Come quel “sono nata”. Per quanti anni ho vissuto senza sapere di essere nata io non lo so. Il racconto dell’infanzia e l’apprendere la capacità di andare in bici attraverso il triciclo a cui erano state tolte le rotelle. E l’hula hoop che sembra attirasse l’attenzione delle macchine di turisti davanti casa”. Gabriella scrive “che è quasi incredibile essere così tanto amata e avere l’impressione che nessuno ti ami come vorresti essere amata”.

Nel capitolo “L’amore e la spada” c’è un pezzo sull’educazione che resta impresso, quando cerca di spiegare il ritornello che qualcuno le ripeteva spesso nell’infanzia: “L’erba del vicino…”. Ripetuto e alfine odiato perché, si legge: “ho cercato di sentirlo buono, ho sorriso, sono stata attenta a non essere egoista e invidiosa… fino a idealizzarlo. L’idealizzazione è arrivata fino a un punto tale che non ho più saputo ascoltare me stessa, una parte di me stessa, quella che sentiva i dolori, le contraddizioni, le truffe, le gaglioffate… che taceva la solitudine e la paura e diventava eroica”. E ancora: “Chi si accontenta gode”. Com’è cattivo! (e io aggiungo, com’è elegante scrivere “com’è cattivo!” anziché “com’è stupido!”). Chi si accontenta muore. Fa morire sé stesso, non si ascolta più. E’ estraneo a sé stesso. Bisogna volere, volere fortemente, volere fortemente la verità”. Un’espressione così perentoria che mi sembra in qualche modo contrasti sulla bocca, pardon sulla penna, di una creatura così esile e delicata com’è l’autrice.

Vi consiglio la lettura attenta del capitoletto “L’Intervallo”, sì proprio quello della metà mattina degli studenti, generalmente verso le 10,30 quando nei corridoi e nel giardino della scuola frotte di studenti divorano panini e Coca Cola, incuranti del fatto che “fanno male”. Dei tempi di scuola l’autrice cita Anna, Carla, Laura, amiche e compagne di una vita. E il “sottrarsi a quella compagnia, alla dolcezza e alla vita per l’anoressia che diventa così orrida e fedele compagna, un’odiosa amica, che insegna le forme dell’odio a sé stessi”. E la fatica di contare balle alle amiche di sempre “va bene, grazie”, “ho già mangiato e non mi va”. E al posto di quelle amiche il pensiero dominante: asciugati, prosciugati, esinanisci, svuotati, punisciti, muori! E le amiche che la guardano strano e non capiscono perché Gabriella non voglia parlare di quel problema. Ma lei stessa spiega, scrivendo quel che è accaduto circa 50 anni fa: “Problema? Se fosse stato un problema l’avrei condiviso; l’avremmo preso per mano e dolci e quiete, furbe saremmo andate in riva al mare e di là avremmo raggiunto il nostro trampolino e di là l’avremmo buttato giù in acqua, a fondo, giù, giù, giù. Ma non era un problema mie care; era la morte della vita, era la morte nella vita, era la morte. E questa nessuno può condividerla. E’ solo tua”.

Ma vorrei passare al capitolo “Trampolino”, quello che riporta alla mente le piattaforme che forse qualche lettore ricorderà davanti alla costa un po’ al largo. Per spiegare come “imparare a fare il morto in mare, sostanzialmente cioè a non fare niente e abbandonarsi” non sia affatto una passività, ma possa financo salvarti la vita. Allora Gabriella lavorava nel panificio dei suoi e quel giorno raggiunge da sola il trampolino che aveva frequentato tante volte insieme alle amiche. Erano le 14 e alle 16 avrebbe dovuto tornare al lavoro. Si tuffa di getto in mare e a lente e regolari bracciate si avvia verso il lontanissimo trampolino e lo raggiunge. E dopo una breve sosta e un tuffo, riprende il mare per tornare a riva; passano una decina di minuti di bracciate e si trova nel mezzo di un branco di meduse, trasparenti e lattiginose che sfiorano il suo corpo: come trapassare a nuoto un muro d’aghi che ti si conficcano dappertutto. Le dita degli arti si divaricano del tutto: impossibile nuotare. Così si affonda, si riemerge, si tossisce, si soffoca. L’angoscia allo stato puro e senza intorno un’anima viva. In Gabriella spunta la paura di una bambina e di una donna grande, fino al colpo di genio. Con lenti movimenti riesce a prendere la posizione del morto e a riposare attendendo che il dolore potesse scemare. Una volta riprese quel minimo di forze ha impiegato una vita a tornare a riva. Il non muoversi, il non fare niente, l’abbandono, in quell’occasione l’ha salvata. Se al contrario si fosse ulteriormente agitata sarebbe affogata. “Da allora, scrive Gabriella, anche se non sempre ho obbedito ma nelle situazioni drammatiche mi sono sempre abbandonata, affidata. Questa non è passività ma intelligenza, creatività, fiducia”.

Scriverei ancora tanto su questo libro ma tempo e spazio e soprattutto il non voler infrangere il gusto della lettura mi richiama alla sinteticità. Così nel libro Gabriella scrive come è diventata una discreta tennista, incominciando questo sport all’età dell’adolescenza. Secondo il giudizio di un turista atleta tedesco amico dell’istruttore, con un perfetto diritto, il rovescio un po’ debole ma eseguito alla perfezione, la battuta bella ma con poca forza fisica. Il capitolo del dodicesimo compleanno è una lezione di psicologia: l’arrivo in ritardo a scuola sotto un cielo plumbeo e nessuno che si ricorda di farle gli auguri; ma a metà mattinata incomincia a nevicare. La neve quel 12 dicembre è stata il suo regalo di compleanno. Non è vero, scrive, che il “chiedere sia l’equivalente dell’ottenere. Basta il sommesso sussurro del cuore e la riflessione che c’è Uno che sente più volentieri il pigolio di un’anima che desidera piuttosto che il domandare ad alta voce”.

“Ho partorito tre volte e altri tre non sono nati ma hanno un nome”. Su questo capitolo proprio non ce la faccio a scrivere: leggetelo, ne godrete immensamente e almeno per un istante, noi maschi anche padri, che tuttavia sappiamo un millesimo della vita in confronto a quello che ne sanno le donne madri, potremo intuire cos’è l’eternità. Il capitolo “Oltre il ponte…” descrive l’insormontabile esame di filosofia estetica col temutissimo prof Luciano Anceschi, che Gabriella ha avuto la fortuna di conoscere personalmente. Un capolavoro la descrizione dell’esame con Anceschi, con un primo tentativo andato a vuoto, meglio, neppure iniziato, e un secondo invece iniziato solo per la caparbietà dell’esile alunna (il cui vestitino azzurro può ancora indossare ora quasi 50 anni dopo) e conclusosi con un 30 e lode. Che gioia, scrive Gabriella: “Mi viene in mente: “A chi bussa sarà aperto”. Così non ho quasi mai più “mollato” nella vita”. E l’epilogo con la dichiarazione d’amore di un ragazzo molto bella e coinvolgente ma, purtroppo per lui, preceduta da quella di un altro che poi ha prevalso.

Il libro ha una seconda parte che, per così dire, si sofferma un po’ sulla gastronomia: e pensare che la sottile figura dell’autrice non lo rivelerebbe! Racconta infatti della ricchezza della povertà (cioè della creatività in cucina sollecitata dalla carenza di risorse), della fragranza del pane, di risotto sul mare che, pensate, Gabriella paragona a un ballo. Semplicemente fantastico. Fa l’elogio del tortellino, del brodo, dell’omelette e (poteva mancare?) della piada.

Una terza parte racchiude i “riflessi dell’arte”, mentre una quarta è dedicata agli affetti: qui non si può non citare l’ultima notte su questa terra della madre Maria che tra il 19 e 20 gennaio dell’anno scorso, chiuse definitivamente gli occhi. Gabriella quella notte racconta di essere stata al suo fianco e di avere insinuato la sua mano tra le sponde del letto, per stringere la mano della madre che ha risposto con una lunghissima e potente stretta: quello fu il suo ultimo silenzioso saluto. E Gabriella che è lì con tutta sé stessa, coi fratelli, il marito, i figli e i nipoti a riflettere su quanto abbia inciso la volontà e la fede di tenere unita la famiglia. “La famiglia, questa cellula così preziosa e così vilipesa della società, è stata il grande compito della nostra vita”. E anche il capitoletto “La voce”, in cui viene alla luce una fantastica dichiarazione d’amore per il marito (Ciro), descritto così bene nello svolgersi e plasmarsi della sua voce “intera, piena, morbida, calda; molto virile e colma di echi arcani”. Una voce che ancora oggi continua a cantare, come ha sempre fatto, per gli amici, per un vasto pubblico, per Gabriella, per i figli. Una voce che anche i lettori hanno avuto modo di ascoltare di recente nella canzone cantata per don Giorgio Dell’Ospedale nel giorno del suo funerale e della quale Rimini 2.0 ha pubblicato il video.

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