Tenersi forte: nel mega-impianto di trattamento reflui fra il 2013 e il 2017 l’indice di contaminazione antropica COD si è abbassato solo del 5,5%, l’azoto ammoniacale oggi segna più 121% rispetto all’anno pre-raddoppio, il fosforo totale è salito del 43%. Dati dichiarati dalla stessa società di gestione, che prometteva di “ridurre dell’84% gli impatti inquinanti (COD)”.
Le bandiere rosse trionfanti sul mare riminese, intese come segnalazione di inquinamento, hanno fatto parlare di sé nei giorni scorsi. Commentando l’articolo di Riminiduepuntozero, qualcuno ha sottolineato che i cantieri del potenziamento fognario sono ancora aperti e dunque bisogna attendere la fine della realizzazione del “PSB ottimizzato” per poter dire una parola definitiva.
Tuttavia i giornali per loro stessa natura non possono aspettare il 2020 autoimponendosi il bavaglio per i prossimi mille giorni: le notizie sono notizie e i fatti sono testardi, anche più di quanto non lo siano i cantori del Comune “a prescindere”.
Oggi documentiamo non un’opinione ma un altro fatto testardo: il depuratore di Santa Giustina, pur essendo stato portato al raddoppio delle sue potenzialità e ristrutturato tecnologicamente a suon di milioni di euro – circa 40, mettendo nel conto anche il collettore Dorsale nord – non pare aver migliorato sensibilmente le sue potenzialità di depurazione dei reflui, anzi in certi indici è peggiorato.
Vediamo i dati numerici che il gestore stesso dell’impianto (Hera) pubblica nei bilanci di sostenibilità ed in altri documenti – con l’avvertenza che si tratta di autocertificazioni.
Premessa: nel settore si tiene conto di alcuni indicatori per misurare la “performance” di depurazione. Più i valori sono alti, peggiore è la performance, ed ecco perché i gestori del ciclo idrico puntano alla loro diminuzione investendo denari (dei cittadini) nel miglioramento e potenziamento degli impianti. Non a caso l’intervento a Santa Giustina è stato strombazzato come quello “tecnologicamente più importante del Piano di Salvaguardia della Balneazione messo in campo dal Comune di Rimini, Hera, Romagna Acque e Amir”, “il più grande d’Europa con la tecnologia di ultrafiltrazione a membrane”, “una struttura altamente innovativa e all’avanguardia”, grazie a “una nuova linea depurativa con membrane a ultrafiltrazione, di una vasca di accumulo da circa 26 mila mc e di un impianto di disinfezione finale che elimina batteri e virus”, come sottolineava con entusiasmo la stampa locale il 23 giugno 2015, schierando nella foto-opportunity del taglio del nastro, da sinistra a destra, Bonaccini Stefano, Gnassi Andrea in fascia tricolore, Bernabè Tonino e Lambiasi Francesco in casula bianca.
Ed ora i dati.
Il COD (Chemical Oxygen Demand, “un’indicazione del contenuto totale delle sostanze organiche ed inorganiche ossidabili e quindi della contaminazione antropica”, spiegano gli esperti) ha avuto un andamento altalenante ma non certo una drastica diminuzione: 24,3 mg/l nel 2013; 25,5 nel 2014; 27,9 nel 2015; 22,4 nel 2016; infine 24,1 nel 2017. Il valore del 2017 è lo stesso di 4 anni prima, quando i volumi trattati erano la metà (14,7 milioni di metri cubi di reflui anziché 30,6). E pensare che già nel 2015 Hera dichiarava una potenzialità dell’impianto pari a 560mila abitanti equivalenti, rispetto ai 220mila dell’anno prima, il 2014. Dunque il raddoppio della potenzialità era già stato ottenuto, ma la performance di depurazione peggiorava anziché migliorare, arrivando oggi ad una cifra ben sotto il limite di legge di 125 mg/l, ma da migliorare se è vero che il depuratore di Hera di Modena segna 17,7 mg/l.
Il fatto che non ci sia stato un deciso miglioramento, ma tutt’altro, si conferma dando uno sguardo agli altri indicatori.
Nel 2014, quando gli abitanti equivalenti erano 220mila e i reflui trattati 15,6 milioni di metri cubi, il BOD5 (“quantità di ossigeno consumato durante i processi di ossidazione di sostanza organica in 5 giorni”) era a quota 5,3 mg/l; nell’anno dell’effettivo raddoppio (2015) è arrivato addirittura a quota 10,0 mg/l, rimanendo tale e quale anche nel 2017: più 88,7% rispetto al 2014.
Il fosforo totale era di 0,7 mg/l nel 2014, in seguito è aumentato anziché diminuire, per stabilizzarsi nel 2017 a quota 1,0 (differenza più 43%).
L’azoto ammoniacale è passato da 1,4 mg/l nell’anno pre-raddoppio ai 3,1 mg/l del 2017 (più 121%).
L’azoto totale era di 6,4 mg/l nell’anno pre-raddoppio, ma anziché diminuire è arrivato nel 2017 a 8,0 mg/l (più 25%).
Eppure Hera nel 2014 prometteva – testuale – di “ridurre dell’84% gli impatti inquinanti (COD)”. Questo era l’obiettivo dichiarato
[vedi “Green Bond – Elenco progetti finanziabili”, p. 53, link] del PSBO, cioè – per usare sempre le parole di Hera – “la realizzazione di 11 interventi prioritari da svolgersi entro il 2020 per un investimento totale di 154 milioni di euro”. Ma il COD di Santa Giustina dal 2014 al 2017 si è abbassato solo di 1,4 mg/l, cioè del 5,5%: come farà Hera entro i prossimi due anni a mantenere la promessa del meno 84%?
Lasciando da parte gli annunci e il loro discostamento dalla realtà, veniamo al punto di sostanza: l’inquinamento rilasciato nell’ambiente diminuisce, rimane stazionario o aumenta?
Abbiamo finora parlato di indicatori come il COD e il BOD5, cerchiamo di capire a che cosa servono ricorrendo alle spiegazioni scientifiche.
“Un alto valore di COD di uno scarico comporta una riduzione dell’ossigeno disciolto nel corpo idrico ricettore e quindi una riduzione di capacità di autodepurazione e di sostenere forme di vita”: il “corpo idrico ricettore” del depuratore riminese è il fiume Marecchia, quindi se il COD di Santa Giustina non diminuisce quanto dovrebbe, vuol dire che il Marecchia continuerà a rimanere quello che è.
Quanto al BOD5: “Il parametro rappresenta un indicatore del potenziale di riduzione dell’ossigeno disciolto nei corpi idrici ricettori degli scarichi con possibili effetti ambientali negativi”. Il fatto che l’indicatore sia aumentato dell’88,7% non sembra una buona notizia per il Marecchia, di conseguenza nemmeno per il mare che riceve le sue acque.
A conferma dei problemi tuttora esistenti l’Arpae, agenzia ambientale regionale, nel report 2016 sulle acque di superficie – il raddoppio di Santa Giustina era già stato effettuato – inserisce proprio il Marecchia fra le “situazioni di grave criticità” regionali insieme a poche altre chiusure di bacino, Sissa Abate, Crostolo e Ventena. Causa “presenza di fosforo in concentrazioni rilevanti” Arpae denuncia lo “stato «pessimo»” del Marecchia. Le acque nere trattate a Santa Giustina finiscono come “acque bianche” proprio in quello stesso fiume Marecchia già in stato critico, ma con un indice di fosforo totale che aumenta anziché diminuire. Non c’è da stare allegri.
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