"Prendere le mosse da Fellini è stata un'intuizione giusta. Ma non ho mai visitato un Museo che sia costato 12-13 milioni di euro e che abbia le caratteristiche del Museo Fellini, in particolare l’incompletezza". Dopo due anni si può tracciare un bilancio e Edoardo Crisafulli lo fa senza peli sulla lingua. "Dove sono gli eventi felliniani, i collegamenti con il mondo intellettuale, con i dipartimenti universitari italiani e stranieri, con il mondo del cinema, con le gallerie d’arte? Dove sono i 500mila visitatori-turisti in più?". Più in generale è la politica culturale, da Gnassi a Sadegholvaad, a non superare l'esame. Intervista.
Partendo dal cognome siciliano che affonda le radici nella magna Grecia, potrei dire di avere incontrato il signor “Edoardo Foglia d’oro”, ma siccome è lui il primo a non tirarsela, dirò che giorni fa ho avuto un’interessante conversazione con l’addetto culturale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Edoardo Crisafulli. Attualmente il professore è di stanza in Ucraina, nazione in cui risiede da tre anni e su cui di recente ha scritto un libro (“33 Ore – Diario di viaggio dall’Ucraina in guerra”; Vallecchi, 2022) ispirato a un’esperienza drammatica, vissuta di persona. Ma non è di guerra che abbiamo parlato bensì di una battaglia, persa malamente. Dove e da chi, lo scrittore lo racconta senza remore, nelle righe a seguire. Prima, due brevi note per inquadrare chi c’è dietro la voce narrante che nasce a Rimini 59 anni fa da madre britannica e padre romano, quest’ultimo con ascendenze austroungariche. La multietnicità di famiglia è già un segnale, ma il trasferimento del padre da Roma a Rimini, presso l’aeroporto che ha diretto dal 1963 al 1991, conferma il destino del futuro diplomatico culturale. Le eliche degli aerei devono avere predisposto ai viaggi quelle del Dna del figlio che, già da molto giovane, comincerà a girare il mondo come studente prima e come docente poi. Inghilterra, Irlanda, Arabia Saudita, Siria, Israele, Giappone, Ucraina, sono vari paesi in cui ha vissuto. Dunque, ci incontriamo all’Artrov, il locale che dovrebbe dare il via alla rinascita di Borgo Marina, amministrazione comunale permettendo e collaborando (i riminesi rimasti nel borgo continuano a sperare, nonostante tutto e nonostante un peloso malinteso senso di accoglienza). Capitolo chiuso. Per ora. Tema dell’incontro è il museo Fellini, l’ex sindaco Gnassi e gli euro da Roma. E non mancano considerazioni alla candidatura di Rimini a capitale della Cultura. In esordio, a scanso di equivoci, Edoardo Crisafulli tiene a puntualizzare con chiarezza la propria posizione rispetto alla politica locale.
«Sono stato espulso dal direttivo del minuscolo partito Socialista riminese perché avevo posto la questione di una alleanza con il partito Democratico in maniera più critica e più autonoma».
Dunque, anche prima di Gnassi le posizioni luciferine erano destinate al castigo.
«Gnassi ha fatto cose anche positive. Per anni c’è stato il deserto e lui, quanto a rotatorie e arredo urbano, a modesto avviso di chi vive a Rimini per soli due mesi l’anno, si è dato da fare».
Molti sarebbero rimasti già soddisfatti se avesse evitato di “darsi da fare” con la rotonda del Grand Hotel, vanto e immagine di una Rimini un tempo sobria ed elegante, oggi ridotta a un’arida landa spelacchiata e polverosa, utilizzata come maxi pedana per spettacoli e manifestazioni di ogni genere. Del resto, se davanti al cancello dell’hotel più prestigioso di Rimini si organizzano eventi i cui maggiori contenuti culturali grondano grasso di salsiccia, birra e bucce di patate, tutto si giustifica. “Vade retro”, altro che “Vieni oltre”, cultura. Ma non voglio interrompere il mio interlocutore.
«Nel secondo mandato (al primo l’avevo sostenuto) Gnassi ha avocato a sé tutto ciò che riguardava la cultura senza consultarsi con gli intellettuali, rompendo anche una tradizione del vecchio partito Comunista italiano. Egli ha espresso il peggio del vecchio comunismo (il centralismo pseudo-democratico) senza rivitalizzare ciò che c’era di buono nel P.C.I.: la passione per la cultura e il forte legame con tutti coloro che operano nel mondo culturale. Il P.C.I. era una strana creatura, un ibrido: il modello organizzativo leninista, però, non si conciliava con l’uomo solo al comando. L’impostazione di Gnassi appartiene semmai alla destra immaginaria che i “piddini” hanno in mente. Ed è anche congeniale a una società senza più partiti: l’uomo solo al comando, i post autocelebrativi su Facebook, le sagre di paese riattate per la piazza riminese, l’indecoroso spettacolo dei riminesi che trovano refrigerio d’estate negli spruzzi d’acqua in quella che Sgarbi chiamava ‘vasca per pesciolini rossi’, di fronte a un maestoso castello rinascimentale!, ebbene tutto questo viene spacciato per riappropriazione democratica della città. E invece è il trionfo del kitsch postmoderno nonché segno della frattura fra classe politica e cittadini».
Quale specifica operazione, fatta nella direzione che ha appena descritto, imputa al cessato sindaco?
«”Brandizzare” la città con Federico Fellini in veste di sponsor unico? Utilizzare Fellini come fosse il logo di una catena di hamburger, se questa è la nuova sinistra, meglio la vecchia. Trattasi di un’operazione di una volgarità assoluta che non rispetta la memoria di uno dei più grandi artisti del Novecento. Intendiamoci: non critico l’approccio curatoriale del Museo Fellini ospitato nel Castello. Io, diversamente dall’uomo solo al comando, rispetto tutte le opinioni. Ma se un progetto culturale è insulso e mal gestito non si tratta di opinioni, bensì di fatti oggettivi. Il Museo ha fallito anche dal lato economico: ci è costato dai 12 ai 13 milioni di euro, e i costi di gestione sono elevati. Un bagno di sangue, insomma. L’operazione non è stata efficace nemmeno a livello pragmatico: dove sono i 400.000 visitatori-turisti in più promessi con toni roboanti dal cessato Sindaco?».
La tocca piano, come si dice in gergo, nei confronti dell’ex primo cittadino.
«I cittadini riminesi hanno il sacrosanto diritto di sapere come sono stati spesi i milioni finanziati da Franceschini, in relazione al “prodotto”, come direbbe Gnassi. La trasparenza è il principio cardine di una buona amministrazione pubblica. Io, sia chiaro, rispetto “Studio Azzurro” e i curatori. Ho seri dubbi sulle capacità di progettazione culturale del Committente. Ho una competenza di 25 anni in ambito culturale, l’ultima grande mostra che ho co-organizzato a Kiev, è “Sulla via della Seta”, con l’Istituto Garuzzo per Arti Visive di Torino; prima, nel 2021, la mostra felliniana “Il Centenario”, in presenza di Francesca Fabbri Fellini, al Museo del Cinema di Kiev: decine di migliaia i visitatori, straordinaria rassegna stampa, presenza del nostro Ambasciatore, Pierfrancesco Zazo, e dell’ex Ministro della cultura ucraino Tatchenko.
Ebbene, visto che Gnassi diceva di voler rendere Rimini come Friburgo, beh, il tempo di rodaggio dell’operazione Friburgo è finito. Ho lavorato a Tokyo per cinque anni, oltre che in Israele, in Libano e in Ucraina. Ho visto mostre che costavano anche 10 milioni di euro, ma ne ho viste anche da un milione e pure da poche decine di migliaia. Non ho mai visitato un Museo che sia costato 12-13 milioni e che abbia le caratteristiche del Museo Fellini. In particolare l’incompletezza. Qui si parla, giova ripeterlo, di 12-13 milioni che comprendono, immagino, anche la cementificazione di una piazza storica, pertanto credo sia legittimo, in una democrazia, sapere dove li hanno spesi. Voce per voce».
Di cemento ne è stato usato sicuramente parecchio. Anche per seppellire la Storia di Rimini.
«Capisco cosa intenda e concordo, ma in questo momento mi interessa capire quale parte dei milioni sia andata per la mostra vera e propria, le entrate e le uscite. Sono tornato al Museo a distanza di un anno e mezzo dall’inaugurazione e ho notato con stupore che diverse parti tuttora sono solo abbozzate. Al di là del dibattito sulla validità estetica e filologica del progetto, il luogo è chiaramente inadatto. Nelle sue sale il Castello malatestiano non riesce a contenere neppure una minima parte delle decine di migliaia di fotografie di scena. Solo con quelle si potrebbero organizzare diverse esposizioni. Né si capisce che programmazione sia stata concepita. Non esiste che un museo sia privo di un calendario, almeno biennale. Perché non c’è una pianificazione? Si sa che una parte funziona con una collezione, diciamo così, stabile e poi ci sono le mostre che potremmo definire a rotazione. Con Fellini ci si può sbizzarrire in mille modi, non è vero? Dove sono i disegni, una delle parti più originali del Maestro? A quanto pare il Comune ne ha circa 500, ma di esposti al Fulgor se ne contano soltanto una decina».
Veramente molto pochi, considerando l’enorme numero di opere. Come mai?
«Il motivo è semplice. La progettazione è stata fatta in maniera poco professionale, cammin facendo. Non parlo per sentito dire. Ho proposto il mio nome al Ministero degli Esteri per entrare a far parte del comitato celebrativo del Centenario, dove c’erano anche il rappresentante del comune di Rimini, Cinecittà con Roberto Cicutto, attualmente presidente della Biennale di Venezia, delegati dalla Regione Emilia-Romagna e altre figure autorevoli. All’epoca avevo ancora un buon rapporto con Gnassi. Mi sono fatto avanti perché essendo riminese mi sembrava fosse una mossa utile per tutti, anche da un punto di vista logistico. Il mio obiettivo era di sostenere una buona causa. Eppure, dal Comune non sono stati in grado di darmi un progetto compiuto che io potessi presentare ai dirigenti generali del Ministero. Era il 2020, poco prima del centenario della nascita del regista. E anche del Covid, della pandemia che ha fatto da ispiratrice per trovare mille scuse per l’incapacità di condurre in porto un piano ben progettato. Chiedevo di continuo all’assessore alla Cultura un progetto compiuto da sottoporre a Roma. Ricevevo solo idee abbozzate».
Presentarsi con un progetto ben congegnato è già un buon viatico per il successo. Risultato?
«Non sono stati in grado di darmene uno, a ridosso di pochi mesi dall’inaugurazione. A quel punto ho capito che Gnassi aveva imbastito solo un canovaccio. Questo è un modo di lavorare tipicamente italiano, funziona solo in certi settori e per progetti piccoli. È invece deleterio per i grandi musei. Io sono critico verso questo approccio, ma in alcuni àmbiti limitati ha i suoi benefici. Quando però diviene sistematico, e quando gestisci un museo così ambizioso, il metodo del canovaccio significa pressapochismo. Se hai qualche idea valida, un rapporto con uno studio/laboratorio di ricerca artistica, “Studio Azzurro”, del quale ho la massima stima, e poi però non sei in grado di realizzare un programma coerente. Il Museo Fellini risente tuttora di questa impostazione: permane ancor oggi l’incompiutezza. Sì, vi sono alcune intuizioni interessanti, nel Castello, ma si ha la netta sensazione di un’opera pubblica incompleta».
Per esempio?
«Uno che mi tocca da vicino? Ecco che m’imbatto in un pannello in lingua ebraica: è il pannello della mostra sui disegni felliniani che realizzai a Haifa, con il Comune di Rimini e l’essenziale contributo dell’allora assessore alla cultura, Stefano Pivato. Quella sì che era una sinistra pensante! Ebbene, il pannello è lì, senza spiegazioni. Cosa capisce il visitatore? Secondo me neppure i curatori sanno che ci stia a fare lì, quel pannello. Forse l’ha aggiunto qualcuno, a mostra ultimata. Devo aggiungere, per onestà, che c’è un problema politico di fondo che riguarda anche la destra e in genere tutti i partiti della Seconda Repubblica. Generalmente non si parte da una ricognizione dei problemi concreti in ambito culturale e altrove. Si parte dalla pancia della gente, dall’evento mirabolante che può portarti visibilità e voti. L’operazione Fellini è sostanzialmente questo: fuoco di paglia, occasione per feste di piazza, soldi che girano e… i riminesi vissero tutti felici e contenti. In altre parole: questo è il modello promozione culturale “Facebook & piadinam et circenses”. Ma molti riminesi non sono affatto felici e contenti. L’importante è che non si sappia. Dove sono, oggi, i dibattiti critici?».
È normale che un uomo politico ragioni anche in quei termini.
«“Anche”, non “solo”. Il PD – perché Gnassi è figlio di quel partito lì – critica tanto la destra, ma in ambito culturale, a Rimini, ha fatto peggio. All’inizio Gnassi aveva una intuizione felice, ma affinché questa si trasformi in una visione occorre lavorare di più e meglio. Occorre un legame forte fra fattibilità tecnica e mondo culturale. Può l’uomo solo al comando trasformare Rimini in città di cultura, dopo decenni di piadinam et circenses, notti rosa ecc.? L’ultima volta che ci siamo parlati, con Gnassi, abbiamo discusso e poi ci siamo reciprocamente tolti il saluto. Gli ho detto: “guarda, io non entro nella sfera delle rotatorie o dell’urbanistica. Non ho questa arroganza. Invece tu, in questo momento, stai entrando a gamba tesa nella sfera in cui io, se permetti, ho un dottorato di ricerca e un’esperienza di 25 anni, a fianco di personaggi importanti, in cinque paesi esteri”. La sua risposta? Eccola: “io conosco gli Istituti italiani di cultura all’estero: invitate quattro vecchietti e fate un cocktail. Io voglio creare un “Capannone a Los Angeles”. Faremo un biglietto d’ingresso di 9 euro, e saremo sommersi dalle entrate di 500.000 visitatori”».
L’inguaribile eccesso di modestia e umiltà non che lo abbandonano mai.
«Questo personaggio su alcune cose ci sa fare, sa ottenere fondi pubblici, e gestirebbe bene un’attività commerciale perché sa promuovere anche il nulla. Lo dico senza ironia o doppi sensi: saper ottenere fondi e saper autopromuoversi non sono abilità di poco conto. L’ironia, semmai, è nel fatto che il PD ha demonizzato per vent’anni Berlusconi, e qui a Rimini ne abbiamo avuto l’emulo, in sedicesimo, in versione romagnola. Sulle grandi questioni come la proiezione internazionale di Rimini, Gnassi e il suo successore, che ne segue le orme come un’ombra, non ci azzeccano. Non parlano nemmeno con figure di sinistra che appoggiavano l’amministrazione anni fa. “So tutto io”. Arroganza totale. Alle prime riunioni del comitato celebrativo Gnassi si era innamorato dell’interattività che ora va per la maggiore, ma chi ha una certa età e molta esperienza specifica sa che anche nella sfera culturale ci sono le mode, che vanno e vengono».
Lei suggeriva qualcosa di diverso?
«Io proponevo un approccio misto in cui era compreso l’interattivo con schermi, video e così via, ma anche qualcosa di tangibile perché il pubblico lo cerca. “No”, rispondeva Gnassi con una scrollata di spalle e una risata di scherno, “voi credete nel feticismo degli oggetti!”, poi alla prova dei fatti, in itinere (ma non si realizzano così i progetti, in corso d’opera si risolvono solo i problemi tecnici!), hanno deciso di mantenere l’interattivo infilando però anche un po’ di oggetti qua e là. C’era fin dall’inizio una visione chiara? Mettere su un museo è una cosa seria! Qui persiste il problema ideativo ed organizzativo. È accettabile un museo incompleto dopo aver speso tutti quei milioni di euro? Che il PD riminese sia caratterizzato tuttora da arroganza lo dimostra la scelta politica, probabilmente concordata con Gnassi, di non avere un autorevole assessore alla cultura. Non mi direte che Sadegolvaad è in grado di fare sia il Sindaco che l’assessore proprio quando Rimini si candida a capitale della cultura. Riemerge il solito discorso: uomo solo al comando, un direttorio di pochi personaggi dietro le quinte, nessuna figura che possa dar fastidio, che tolga visibilità. Un vero intellettuale qual è Stefano Pivato non accetterebbe di fare il portavoce di Jamil e Gnassi sulle questioni culturali. Il problema è stato risolto alla radice: nessun intellettuale prestigioso, e Rimini ne ha! Come, mi chiedo allibito, si vuol far credere che Rimini non è più la città vacanziera low cost, che Rimini è una città di cultura, utilizzando il brand Fellini e isolando gli intellettuali?».
Come doveva essere concepito, un corretto ed efficace modus operandi?
«Il compianto Paolo Fabbri (1939-2020; semiologo, diresse la Fondazione Federico Fellini di Rimini dal 2011 al 2013; ndr) lo diceva. Si sarebbe dovuto formare un comitato indipendente con figure altamente professionali capace di concepire una biennale dedicata al regista, in sinergia con dipartimenti universitari e a quel punto avremmo avuto un “pensatoio” dal quale sarebbero scaturiti risultati un po’ più di nicchia, poi però anche iniziative di alta divulgazione rivolte a un pubblico ampio. Ho portato al museo più di un curatore d’arte che per ora non nomino. Forse si esporranno, ma sono indecisi: viviamo nel paese dei Guelfi e dei Ghibellini per cui gli intellettuali di sinistra temono di andare contro un’amministrazione “amica”. I curatori privatamente mi hanno detto che la Mostra al Castello avrebbe delle potenzialità, però il luogo è infelice, anche dal punto di vista del mero contenitore: hanno fatto, insomma, le stesse osservazioni critiche che sono venute in mente a me: scarsa capienza degli spazi, sezioni della mostra solo abbozzate (le foto, i disegni ecc.), bibliografia digitalizzata ridicola: nessuno studioso verrebbe lì a far ricerca (pochi i titoli e non puoi sfogliare i libri in formato digitale, vedi solo la fotografia della copertina). Per dissimulare il pressapochismo si getta fumo negli occhi. E con queste credenziali ci si candida con orgoglio a capitale della Cultura? Lo schema politico imperante è questo: una classe politica autoreferenziale, conscia di aver a che fare con una società civile anestetizzata, in cui non esistono più i partiti storici e le persone pensanti sono isolate. “Io ho un rapporto diretto con i cittadini, non mediato da alcuno, posto su Facebook le foto di feste con riminesi sorridenti, e le foto della squadra comunale in costume, al mare: ecco la nostra splendida amministrazione comunale!”. Quando loro (chi governa Rimini; ndr) criticano il populismo, fanno ridere. Questo è l’autentico paradigma populista».
Una fusione tra il delirio di onnipotenza di Gnassi e quello di onnipresenza di Sadegholvaad.
«Nell’immediato fai breccia, ma nel lungo periodo mostri la corda perché ad una strategia comunicativa devi associare un prodotto vendibile (uso i termini merceologici prediletti dalla nuova sinistra). Prendere le mosse da Fellini è stata un’intuizione giusta. Ma questo non basta per dare una pagella positiva, perché se da quella intuizione ricavi un disastro, dov’è la visione? Hai fallito. Nel momento in cui dici “io porterò qui 4/500.000 persone paganti che verranno appositamente per il Museo Fellini e in tal modo trasformerò Rimini in città di cultura”, ti metti in gioco e devi mantenere le aspettative. Invece fai peggio di Berlusconi, quando diceva che avrebbe creato un milione di posti di lavoro. Non sono io che vado a scavare tra gli interstizi, pur di puntarti il dito contro. Se tu che hai escluso gli intellettuali critici e ora ne paghi il prezzo».
Un’esclusione che invece poteva servire per correggere il tiro. O al contrario, per confermare la giustezza delle proprie scelte. Il contraddittorio è sempre utile.
«Da giovane, avendo militato nella FGCI (Federazione Giovanile Comunista; ndr), un comportamento del genere non sarebbe stato tollerato. Il vecchio partito Comunista, tanto per dirne una, espresse Giulio Carlo Argan (storico, critico d’arte e senatore della Repubblica; ndr) come sindaco di Roma». (Batte i pugni sul tavolo). «Questo, era il PCI». «Quindi questi qua (si riferisce a Gnassi e al suo assenziente “entourage”; ndr) hanno mantenuto alcuni aspetti deleteri della mentalità comunista, vedi l’accentramento, lo stalinismo, il demonizzare l’avversario. Ma non hanno introiettato l’aspetto positivo della tradizione comunista italiana: la passione politica, l’amore per la cultura. Quella di cui si sta parlando è un’operazione effimera all’insegna dell’effimero. Come cittadino riminese sono amareggiato e furibondo. Vorrei che Rimini avesse una connotazione culturale diversa. Poi, certamente Gnassi si muove bene con i mass-media, ha invitato i giornalisti che contano, tanto che sono usciti articoli, se non ricordo male, sul New York Times o comunque su stampa qualificata estera, ma questo non incide sul problema di fondo».
Gnassi ha bussato a Roma, pare con un buon ritorno di banconote. È stata una mossa sufficiente?
«Credo avesse un rapporto diretto con Franceschini (all’epoca ministro della cultura; ndr) il quale ha fatto arrivare dei soldi a Rimini. Ho sentito anche gente di destra lodare il fatto che grazie a Gnassi l’ex Ministro abbia concesso 12-3 milioni di euro di finanziamento. A me non basta. Io voglio che i soldi siano utilizzati bene. Chi non capisce nulla di Fellini, arriva al Museo, dà un’occhiata, e dice “però, è interessante”; chi di cultura ne mastica un minimo, nota che è una cosa in stato embrionale. Sono passati poco più di due anni dall’inaugurazione, devono dimostrare che ci sono dei risultati».
Data la sua esperienza, esiste una particolare metodologia per ottenerli?
«L’ho già detto: un museo, come un teatro, necessita di una programmazione seria. E occorre una figura che lo diriga. Da qualche tempo è stato nominato Marco Leonetti, già responsabile della cineteca di Rimini, persona validissima. Ma servirebbe anche un personaggio di chiara fama, visto che il Museo felliniano ha ambizioni internazionali, nonché un comitato di “saggi” non pletorico. Solo questo può dar corpo e anima al Museo. Fellini, Fellini, Fellini… e dove sono gli eventi felliniani, dove sono i collegamenti con il mondo intellettuale, con i dipartimenti universitari italiani e stranieri, con il mondo del cinema, con le gallerie d’arte? Mi ripeto anche qui: bisogna uscire dalla logica dei Guelfi e dei Ghibellini, adottata sia da destra che da sinistra, per cui se osi criticare sei anti italiano o anti riminese. Pier Paolo Pasolini criticava un P.C.I. che, benché lungimirante in ambito culturale, a Bologna cementificava. E Pasolini, uomo di sinistra, che diceva? “Io sto con Italia Nostra perché penso che quel muretto (tanto per dire) rappresenti un pezzo di storia e che non vada distrutto”».
A proposito, la candidatura di Rimini quale città italiana della Cultura è stata lanciata (slogan molto elegante e di afflato internazionale) dal teatro Galli, finalmente ricostruito dopo la distruzione del ’43.
«Certo, è stato ricostruito il teatro Galli e questa è una grande cosa. Va però detto che il progetto non era di Gnassi, l’iniziativa fu presa da Stefano Pivato. Io sono tra coloro che riconoscono gli aspetti positivi di un’Amministrazione e so dei mille ostacoli che insidiano chi governa una città. Recentemente ero presente a una riunione di Forza Italia in cui sono intervenuti anche Stefania Craxi e l’ex sindaco di Rimini Marco Moretti (ex sindaco socialista). Moretti, che conosce bene la storia della nostra città, ha detto che nel dopoguerra l’Amministrazione comunale a guida P.C.I. non volle intervenire sul Teatro Galli perché non gliene fregava nulla della cultura, tanto è vero che abbatterono il Kursaal. Vuoi distanziarti da questo passato poco glorioso? Benissimo: ma cerca di essere coerente. Avete visto come sono conciati alcuni tratti delle mura malatestiane? E l’anfiteatro romano sepolto? Il restauro di Porta Galliana è stato possibile solo perché lo ha voluto fortemente Davide Frisoni (ex consigliere comunale, presidente della commissione cultura poi dimessosi durante il secondo mandato Gnassi; ndr)».
Che dire degli ultimi capolavori di piazza Malatesta che il professor Rimondini ha ribattezzato “piazza sull’Acqua sporca”? Causa spazio, cito per difetto, naturalmente.
«La verità è che oltre a fare alcune cose male, vedi la cementificazione del fossato di Castel Sismondo, non se ne fanno altre per valorizzare le potenzialità di Rimini. Da sempre, qui si avverte il problema di saldare la zona mare al centro. Si poteva trovare un collegamento, ad esempio, con una delle colonie. La più bella e interessante sotto vari punti di vista e sulle possibilità di utilizzo poteva essere la Novarese. C’è ancora diffidenza su queste operazioni: a sinistra si pensa al “revisionismo storico”. Ma quando mai. Il punto è che la colonia sarebbe stata un’operazione molto più complessa e articolata. Gnassi voleva un progetto fatto, prodotto e finito subito. Ho parlato con alcuni ingegneri. Quella bellissima costruzione, tra acquisto e ristrutturazione, trovando un consorzio di industriali, probabilmente sarebbe costata 20/22 milioni di euro.
In quel luogo così affascinante avremmo avuto il posto per un vero Museo Fellini, per le residenze d’artista, più una parte museale all’aperto perché oggi si usa molto, altro che il PART che fa ridere per come è stato programmato o meglio, non programmato. Insomma: migliaia di metri quadri a disposizione. Senza contare un aspetto non indifferente: la valorizzazione della zona un po’ depressa d’inverno. Non sarebbe stato meglio spendere 10 milioni in più che tra finanziamento pubblico e privato si sarebbero trovati? Un progetto del genere avrebbe avuto un respiro amplissimo, avremmo mantenuto comunque il Fulgor e creato un prezioso collegamento con la zona mare».
Verrebbe da esclamare “hep!” e avere un sussulto, alla Mac Ronay.
«Magnifico, vero? Niente da fare, invece. Proposta cestinata».
Non sarà perché la Novarese è un temibile simbolo del periodo fascista, al pari della reietta statua di Giulio Cesare? Sa, quegli audaci rigurgiti mai sopìti, mi spiego?
«Quante idiozie! C’è un dibattito sempre aperto e anche mia figlia Sveva ha co-organizzato un evento con un gruppo di giovani artisti proprio alla colonia Novarese. In sostanza, hanno contribuito a “defascistizzare” o se si preferisce, “detotalizzare” il luogo, organizzandovi una serie di eventi creativi. Rifiutarsi di collocare la statua di Giulio Cesare non è nient’altro che “cancel culture”, che di per sé non è un atto antifascista, è un atto insulso, privo di valenza culturale. I segni del regime ci sono, a Roma e nel resto del Paese. La distruzione di quei simboli poteva avere un senso nel ’45 e nel ’46. Oggi, la classe politica, quella illuminata (beato chi ce l’ha), organizza e promuove eventi che creano un’autentica consapevolezza storica. Perdura invece l’utilizzo in chiave strumentale dell’antifascismo (sebbene il fenomeno vada esaurendosi). Già lo diceva Pasolini: antifascisti senza fascismo. L’antifascismo manieristico è arma elettorale e strumento contundente contro gli avversari politici. Per concludere, a Rimini c’è la velleità di avviare una nuova stagione culturale. Io ci speravo e invece si è trattato solo di una onerosa spolverata di cipria e via, come facevano i bagnini anni 60/70 che saltuariamente davano una riverniciata alle vecchie lastre sbrecciate della passerella. Rimini meriterebbe molto, a condizione che facesse davvero i compiti. Occorrono condizioni ben precise affinché una località possa fregiarsi del titolo di capitale italiana della Cultura».
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