Due nuove ipotesi storiche per Rimini antica

Due nuove ipotesi storiche per Rimini antica

La subsidenza del ponte di Augusto e Tiberio è compresa in un'ampia area di foce del fiume Ariminus. La forma urbis e le tracce del "Dun" celtico che precede la fondazione romana. Importanti studi del prof. Rimondini.

LA SUBSIDENZA DEL PONTE DI AUGUSTO E TIBERIO È UN FATTO, UN FENOMENO FISICO VISIBILE A TUTTI, MA IGNORATO DAGLI ADDETTI AI LAVORI
Per prima cosa ripropongo l’osservazione di un fatto che è lì sotto gli occhi di tutti da secoli ma che non sembra, a quanto ne so, ancora notato e studiato dagli archeologi e forse anche dai geologi. Guardate i cinque archi del ponte di Augusto e Tiberio: nascono dalla loro imposta al livello dell’acqua, lasciando sommersi i piloni a forma di barche, visti per la prima volta negli anni ’70 del ‘900, quando furono anche rozzamente cementati. Nel 21 d.C. il ponte fu inaugurato con le nuove iscrizioni che uniscono i nomi di Augusto (principato: 30 a.C.-14 d.C.) e di Tiberio (principato: 14 d.C.- 37 d.C).
Il livello dell’acqua nel 21 d.C. era di sicuro alla base dei piloni e le due rampe del ponte partivano dal livello delle strade urbane e da quello della superficie del futuro Borgo di San Giuliano facendo giganteggiare il ponte. Il decumano massimo di Ariminum, che è l’attuale corso di Augusto, si prolungava fuori le mura e un cittadino di quei tempi, un civis ariminensis che fosse salito tramite la rampa all’altezza della platea del ponte, poi discendeva per imboccare la via Emilia – iniziata nel 187 prima di Cristo – diretta fino a Caesena che rimarrà a lungo territorio di Ariminum, ai Fora, Popili e Livii, a Faventia, a Forum Cornelii, a Claterna, a Bononia, a Mutina, a Regium Lepidi, a Parma, a Fidentia e a Placentia. Il fenomeno dello sprofondamento del ponte oggi è diventato evidente proprio perché è stata tolta la ghiaia e l’acqua del mare ha riempito l’invaso. È una scoperta dell’acqua calda.

LA FORMA COMPLESSIVA DELLA SUBSIDENZA E LA SUA CRONOLOGIA
Il ponte sprofondò per tutta l’altezza dei piloni lasciando all’asciutto la platea e poca parte delle rampe. Ma la subsidenza si è limitata a far sprofondare solo il ponte? Certo che no, intorno e a mare del ponte c’è un’area vasta depressa in parte a forma di triangolo o di ampio delta del Marecchia, allora chiamato Ariminus. La bassura di quest’area nella parte urbana è orlata dalle mura romane tardo imperiali che ci forniscono un elemento cronologico per datare il fenomeno dello sprofondamento: la subsidenza è avvenuta prima della data di costruzione delle mura tardo imperiali, non dopo. Queste mura sono datate al III secolo dopo Cristo, come vedremo.
Un altro elemento di datazione, sempre però poco precisa, si intravvede in una foto di Emilio Salvatori degli anni ’70 da me più volte pubblicata: è l’immagine di un muro di contenimento dell’acqua del mare, al lato marino dell’arco del Borgo, che dal livello della platea di una probabile banchina portuale, raggiunge l’imposta dell’arco, dove arriva l’acqua del mare, con un muro di 5 corsi di pietre lavorate al quale si sovrappone un muro di mattoni sesquipedali che potrebbero essere anche del I secolo dopo Cristo. Al momento la subsidenza si daterebbe con provvisoria cronologia in un anno tra il I e il III secolo dopo Cristo.
Dalla parte borghigiana del fiume ipotizzo che sia sprofondata un’area di forma triangolare simile a quella urbana simmetrica speculare, che avrebbe occupato tutto il terreno del futuro borgo e la via Emilia. E probabilmente lo sprofondamento continuava in mare assumendo una forma pressappoco circolare.
La linea del mare su cui si affacciava nei primi secoli Ariminum è molto interessante e poco studiata, bisogna riconsiderarla.

La torre romana originaria, al termine di un cardine, come nelle torri augustee ai lati dell’Arco di Augusto (27 prima di Cristo) dovrebbe avere di sotto il muro originario di arenaria del Covignano del III secolo avanti Cristo. Questo muro aveva davanti la linea della spiaggia del III secolo prima di Cristo, che rimase ferma fino al 1503.

L’altra torre, nel dehors della Birreria del Piazzale delle Ferrovie Padane, venne distrutta nell’800, rimane un doppio arco di mattoni sesquipedali o manubriati del tamponamento dell’ingresso della torre come negli archi ai lati dell’Arco di Augusto.

LE MURA ROMANE A MARE ORIGINARIE DI ARIMINUM DEL III SECOLO A.C.
La forma urbis Arimini viene qui data secondo l’ipotesi che sia unitaria e originaria. Ma altre ipotesi si possono formulare e studiare partendo dalla posizione non centrale del forum e dal cardine e decumano massimi, che qui non si affrontano.
Secondo una tradizione storiografica purtroppo erronea, Ariminum non avrebbe avuto le mura dalla parte del mare e del fiume Ariminus. Invece di fatto le aveva sia lungo il fiume e sia lungo la spiaggia, dove ancora oggi è rimasto un certo tratto di mura a mare del terzo secolo prima di Cristo, originali e in palinsesto, di andamento orizzontale e parallelo sia alla spiaggia che ai decumani della città antica, con una torre conservata per due terzi e un’altra testimoniata nel muro da un arco a doppia ghiera di mattoni manubriati o sesquipedali – lunghi un piede e mezzo; un piede cm 28,65 – mattoni che potete vedere ai lati dell’Arco di Augusto. Mura e torri di Ariminus della fondazione, restaurati da Augusto, sono lì nel piazzale delle Ferrovie Padane in via Roma e nel dehors della nuova birreria. Le due torri sono site al termine di due cardini della forma urbis, e ne fanno parte in sistema.
Questo tratto occupa la larghezza di due insulae o isolati della città antica cui ne vanno aggiunte altre due con la parte sporgente dell’Anfiteatro, la metà sul totale della cinta marina che calcolo abbia avuto la larghezza di nove insulae complessive circa.

Preziose reliquie delle prime fortificazioni romane con l’Anfiteatro nel II secolo dopo Cristo e la parte di spiaggia del mare risparmiata dalla subsidenza sono rimaste in sito immutate dal 268 prima di Cristo a poca distanza dal mare, anzi sulla spiaggia fin quasi al 1503 dopo Cristo, come vedremo, mentre l’invaso a delta ai lati del Marecchia, o seno di mare, o piccolo golfo formato dalla subsidenza e fu invaso dal mare, ma in sette o otto secoli si riempì completamente di ghiaia e di terra portate dai due fiumi Marecchia e Ausa, facendo arretrare la linea del mare ma solo all’interno dell’invaso. Questo fenomeno di riempimento e di recupero di spazio urbano si produsse in tre momenti paralleli nelle due sponde del fiume Marecchia. Ripeto, perché non si creda ad un generale fenomeno di ritirarsi del mare, che la formazione del seno marino e il suo riempimento lasciò ferma la linea della spiaggia del momento della fondazione davanti all’Anfiteatro, alle torri e al tratto di muro notati.
Nel 1503 – la data è legata al “muro mirabile” che vedremo più sotto – era appena cominciato il generale fenomeno dell’arretramento complessivo del mare davanti a Rimini che durerà fino al secolo XIX.
Questo tratto di mura urbane venne osservato da Giuseppe Garampi (1725-1792) che lo considerò parte delle mura tardo imperiali. In effetti questo muro primitivo superstite venne inglobato in tale sistema difensivo tardo imperiale insieme all’Anfiteatro, i cui archi a mare furono chiusi con le pietre dei sedili dell’edificio, e più tardi furono mantenute nella cinta muraria federiciana-malatestiana del ‘200-300.
Ma che queste mura e le due torri non siano tardo antiche, oltre alle ragioni dette, lo dimostra lo spessore di 3 metri c., contro lo spessore di un metro e 50 centimetri delle mura tardo antiche. Della loro esistenza si accorse nel 1910 Giuseppe Gerola (1877-1938) soprintendente ravennate venuto a Rimini per impedire la costruzione di villini sull’Anfiteatro e ne scrisse in una lettera al soprintendente archeologico di Bologna, da me rintracciata in copia mentre riordinavo l’archivio della Soprintendenza di Ravenna.

LE MURA TARDO IMPERIALI DI ARIMINUM COSTRUITE SULL’ORLO ORIENTALE DELLA SUBSIDENZA
Le mura tardo imperiali sono state di recente oggetto di un’indagine archeologica dentro palazzo Agolanti già Banca d’Italia, attraversato da un tratto di mura tardo imperiali quasi intatte, oltre le quali si nota una bassura del livello urbano dalla parte del mare visibile anche negli edifici che seguono tra le vie Cattaneo e Angherà dove le mura scompaiono.
Nell’area di piazza Ferrari si vede un tratto di mura tardo imperiali davanti alla sede del Credit Agricole, che prosegue dentro la c.d. domus del Chirurgo, nei sotterranei del museo, nel cortile davanti al Canevone dei Veneziani e fin sotto alla casa Tonini in piazzetta Simbeni, dove à stata trovata una torre e le mura proseguono a monte parallele al fiume.

Nel corso delle indagini sotto palazzo Angherà, le tre archeologhe hanno scoperto la stradina interna alle mura – il pomerium – e in saggi a mare delle mura sono apparse ceramiche repubblicane in quantità tale da far pensare a una fornace ivi esistente.
Queste mura tardo imperiali sono state datate all’arrivo delle prime incursioni dei barbari in Italia, al tempo degli imperatori Gallieno (impero 253-268) o Aureliano (impero 270-275) e vennero costruite in modo “tumultuario” per la presenza di epigrafi funerarie importanti – per esempio l’epigrafe di Gaio Nonio Cepione posteriore a Caligola – prelevate infrangendo per cause di forza maggiore la legge che ne tutelava l’intangibilità.
Le autrici dello scavo e della pubblicazione ritengono che le mura tardo imperiali siano state costruite sull’orlo della duna o falesia protostorica alta alcuni metri dalla spiaggia che col tempo si sarebbe disfatta per dare modo di supportare costruzioni e strade.
La tesi che sostengo di uno sprofondamento dell’area urbana di Ariminum ossia dell’angolo settentrionale a mare della forma urbis è giustificata dall’evidenza del fenomeno della subsidenza, dalla presenza di un tratto delle mura repubblicane e dal riempimento in tre tempi certi del piccolo golfo invaso dal mare.
C’è dell’altro? Sì. A mare della linea delle mura tardo imperiali, c’è un edificio antico sommerso dalle acque di cui abbiamo memoria certa. Si tratta dei granai pubblici di Ariminum gli Horrea Pupiana.

GLI HORREA PUPIANA, IL GRANAIO DI ARIMINUM
È Cesare Clementini a parlarne nel primo libro del suo Raccolto Istorico. Scavando le tombe nel pavimento della chiesa di S. Maria al Mare si trovavano, scrive, i resti di un granaio – evidentemente grandi olle interrate per la conservazione del grano – e sulle pareti della chiesa un’epigrafe romana ricordava i granai pubblici della città. L’epigrafe trascritta nelle più antiche carte dei cronisti nel suo testo intero, ci è arrivata in un frammento, dei due che aveva pubblicato Luigi Tonini: si tratta di una dedica al genio larum horrei (sic) pupiani da parte di Elpidius Politicus e Caius Pupius Blastus i curatori dell’opera. Mezzo secolo fa Stefano Sabbatini mi disse che sotto le macerie di un edificio in via Cavalieri, dove è sita anche la casa che conserva i muri superstiti di Santa Maria a mare, erano state trovate delle grandi olle di cotto che ora mi sembrano appartenere agli Horrea Pupiana.
Non sembra ragionevole pensare che i granai pubblici o anche privati fossero stati costruiti fuori le mura ai piedi della falesia col doppio pericolo di essere invasi da acque piovane e saccheggiati da eserciti barbari o domestici. Piuttosto è ragionevole pensare a un edificio pubblico dentro le mura cittadine sprofondato a causa della subsidenza. Non sarà impossibile, credo, trovare altri simili resti sotto diversi metri di ghiaia nell’area indicata.

IL “SENO DI MARE” SI RIEMPIE DI GHIAIA IN TRE MOMENTI DAL SECOLO III AL SECOLO XVI
E questa dell’arretramento del mare all’interno dell’area della subsidenza, invasa dall’acqua del mare e in seguito riempita dalla ghiaia del Marecchia e anche dalla terra dell’Ausa, è certo una prova di quanto viene qui affermato. Come altrimenti possiamo spiegare questo arretramento del mare solo in una ristretta parte restando ferma la spiaggia davanti alle mura repubblicane e le torri dell’Anfiteatro? I momenti sono tre, registrati da date che attestano l’apparizione di edifici e nuove mura dalle due parti del fiume in aree che via via si prosciugavano.
Un documento di papa Niccolò II del 1059 è la concessione del territorio del futuro borgo – di proprietà statale, interessante dettaglio che permette ipotesi sull’utilizzo antico di quell’area – di tre archi del ponte e altro al nuovo monastero dei Santi Pietro e Paolo che sorgeva lungo la via Emilia. Certamente la via Emilia dovette essere stata subito sopraelevata dalle autorità romane preposte alle vie, che forse eressero anche un recinto – il muro trovato negli anni ’70 – per proteggere la via romana dall’acqua del mare fin dove l’area era sprofondata. E forse anche dalla parte della città doveva esserci lungo il prolungamento del decumano massimo un simile muro.
Dalla parte della città la frequentazione di un’area asciutta oltre le mura tardo imperiali è il documento che nomina per la prima volta la chiesa di Santa Maria a mare nel 1177.
La prima area asciutta è apparsa ai lati del fiume nei secoli XI-XII.

La seconda area del fiume che si asciugò, dalla parte della città fu quella che venne cintata dalle mura di Federico II di Svevia (impero 1220-1250) completate dai Malatesta alla metà del secolo XIV con porta Galliana. Nell’area borghigiana, dove però vi erano già mura più antiche, nello stesso periodo furono costruite le mura di porta Gramignola di cui rimangono pochi tratti.

La terza area asciutta comprende a destra del fiume tutto il Borgo di Marina che fu fortificato con torri, mura e palizzate da Carlo I Malatesta, il quale costruì anche il convento dei Celestini e la chiesa di S. Nicola verso il 1400.
Nella parte del Borgo di San Giuliano, tra le vecchie mura e il mare si era liberato il terreno per il parco malatestiano dei Cervi, fortificato con fossato, palizzata e mura davanti alla spiaggia.
Dopo l’assedio del 1469 contro Roberto e Isotta delle truppe pontificie che avevano distrutto queste mura, negli anni ’70 Roberto Malatesta le aveva ricostruite con torri come ancora in gran parte si vedono “un luogo di delizia pieno”; chissà cosa vorranno farne i sindaci del futuro.

I MURI MIRABILES COSTRUITI DAI MALATESTA NEL 1352 IN MARE, ASCIUTTI NEL 1503
Marco Battagli, un cronista medievale nel suo libro Marcha scrive che Malatesta Guastafamiglia e il fratello Galeotto costruirono nel 1352 due muri mirabiles che partivano dalla cinta a mare, uno all’uscita della Fossa Patara e l’altro nel Borgo San Giuliano prolungando il muro verso Cesena fin dentro il mare per un centinaio di metri. Nel 1469, durante l’assedio pontificio a Rimini, una parte delle truppe era rimasta intrappolata lungo la spiaggia, il Marecchia e il muro mirabile che venne poi chiamato “il murazzo”, così dovettero bucare il muro mentre la cavalleria in mare doppiò la torre terminale che verrà chiamata “torrazza”. Maggiori dettagli su questi muri nel mio articolo “Le terze mura di Rimini”. Nel 1503 Domenico Malipiero, un provveditore veneziano che descriveva lo stato delle mura di Rimini, appena acquistata da Pandolfo IV Malatesta, scrisse al Senato di Venezia che se si voleva difendere la spiaggia e il porto bisognava prolungare dalla torre ormai all’asciutto un muro in mare per un certo spazio (Marin Sanudo. V, p. 877). A quanto ne so, si tratta del primo segno del ritirarsi dl mare davanti a Rimini.

LA FORMA URBIS ARIMINI: LA PIANTA DI RIMINI DEL 268 PRIMA DI CRISTO
Va fatto il punto di quanto sappiamo sul fenomeno originario non ancora diligentemente studiato della forma urbis Arimini, cioè della sua pianta urbana tipica delle città di fondazione romana. Immaginiamola incisa su una tavoletta di bronzo in forma geometrica perfetta poi adattata al terreno alla destra dell’Ariminus non perfettamente piano e già occupato da una città fortificata o ‘dun’ gallico.
Una foto aerea del centro storico contiene gli indizi consistenti degli ordini urbanistici precedenti la pianta cittadina attuale dopo quasi duemila e trecento e anni di storia. Il cardo maximus della città romana, la via nord-ovest7sud-est (via Clementini, via Dante e via Garibaldi), è rimasto intatto dalla linea delle mura del III secolo avanti Cristo superstiti a mare alla porta montanara; attenzione, non quella dimezzata ricostruita spostata di qualche decina di metri, ma quella segnalata nel lastricato urbano.

Il cardo maximus è anche un asse simbolico: riproduce il cardine intorno al quale girano il sole, la luna e le stelle del cielo; la città è pensata come un cosmo. Per questo il cardine dovrebbe essere orientato perfettamente a nord e non a nord-est come lo vediamo. La ragione per cui è rivolto a nord-est, mantenendo però il valore simbolico cosmico, ce la spiega il fanese Vitruvio, autore di un libro di architettura dei tempi di Cesare e di Augusto: la direzione nord creava dei problemi di salute d’inverno ai cittadini per i venti gelidi che spazzavano le vie provocando malattie; la direzione nord-est disponeva le costruzioni come uno schermo, un riparo dai venti. La strada perpendicolare al cardine massimo è il decumanus maximus, così chiamata per la forma a X – decem – che formava unendosi al cardine massimo nel forum, attuale piazza Tre Martiri. È la via nord-est/sud-ovest, dall’Arco di Augusto arriva diritto fin quasi ai piedi della rampa del ponte di Augusto e Tiberio; ma questa parte occidentale delle mura è la più difficile da ricostruire anche se non mancano nuove scoperte nell’area dell’antica porta.

Il Dun gallo o celtico notato da Gérard Chouquer. Le strade curve su altura di Monte Cavallo – punto1 – e del Montirone – punto 2 – sembrano proprio parte di un centro difensivo gallico su altura e seguono anche le mura del ‘200 e ‘300. Anche la Fossa Patara – punto 3 – adatta il suo corso alle linee curve. Ricordiamo che Rimini può vantare una doppia serie di monete che mostrano un guerriero nudo – modo di combattere dei Galli – e una testa di Gallo ornata al collo da un “torques” – ornamento gallico – che per alcuni studiosi risale ad una comunità celtica.

Nella foto aerea si riconoscono ancora diverse insulae o isolati formati dall’intreccio di cardini e decumani, la cui forma attuale non è perfettamente sovrapponibile, ma in origine sembra essere stata principalmente di un tipo.
La forma esatta delle insulae doveva essere di un quadrato e mezzo: tre insulae sovrapposte ad altre tre, per quanto deformate danno un quadrato. Questi isolati conferiscono all’insieme della pianta quasi l’aspetto di un quadrato.

Il vicolo Montirone appare dal Corso al lato del palazzo Buonadrata Diotallevi con l’aspetto di un cardine antico – largo poco più di 3 metri – ma mostra l’altura del “dun” sul quale è stato tracciato. Il Tonini parla di sondaggi che non portarono a niente di costruito. I Celti non avevano architettura ma edifici con mura di legno.

Monte Cavallo a ridosso delle mura medievali è la parte più alta di Rimini. Sondaggi archeologici mirati e attenti alle tracce che nell’argilla lascia il legno potranno in futuro far scoprire qualche certezza dell’epoca gallica di Ariminum.

IL ‘DUN’ CELTICO VISTO DA GÉRARD CHOUQUER
Le insulae attualmente appaiono visibili nel quadrante ovest a mare della forma urbis, nel quadrante a est sopra il corso e al centro, ma sono scomparse poco sopra il cardine massimo dalla parte a mare del fiume e nel quadrante a monte dell’Arco di Augusto. Qui prevalgono delle strade a linee curve grossomodo concentriche e la superficie del terreno è visibilmente più alta che nel resto della città.
Questa altezza antica, forse in parte artificiale, del suolo di Rimini verso monte e al centro della città non è una novità. L’aveva già segnalata Luigi Tonini nella sua opera ancora fondamentale Rimini avanti il Principio dell’era volgare dove segnala “il Montirone” l’area alta che è testimoniata in due carte del XIII secolo, visibile sotto i palazzi Ferrari e Buonadrata e che si estende fino alla fossa Patara. Il vicolo tra i due palazzi mostra la sua altezza di alcuni metri superiore al livello del Corso verso monte. Per non parlare del “Monte Cavallo” dove sono state trovate monete celtiche. Luigi Tonini scrive anche che dei saggi fatti sul Montirone dopo mezzo metro si trovava la terra vergine. Questa osservazione va forse interpretata: se si tratta di un insediamento celtico o gallico non si possono trovare resti di muri perché i recinti e gli edifici gallici erano costruiti di legno.

L’area del Montirone a monte suggerisce la pianta di un insediamento circolare, un “dun” celtico. Ricordo i numerosi problemi della storia gallica di Rimini, e la monetazione con rappresentazioni di teste col “torques” e di un guerriero celtici.
Il dun è una cittadella o fortezza celtica di forma circolare eretta su una collina o sul rialzo artificiale del terreno. Le tracce di questa fortezza, legate certo all’andamento della fossa Patara, furono riconosciute dall’archeologo francese Gérard Chouquer nella sua campagna di rilevamento aereo delle centuriazioni di Ariminum e della Romagna orientale, tanto evidenti da far pensare che i fondatori romani non avessero spianato tutta l’area del dun celtico, sul quale stendevano le linee della loro quadrata forma urbis, secondo il disegno delineato in una tavola di bronzo; probabilmente riservandosi di farlo al momento delle nuove costruzioni, oppure potrebbe darsi che avessero costruite le insulae ma senza spianare l’altura. Le insulae sarebbero poi scomparse lasciando apparire le sottostanti linee curve del dun. Del resto anche le mura meridionali della forma urbis del terzo secolo prima di Cristo, al posto di una linea retta, si articolano in tre parti, come se si adattassero alle precedenze celtiche, e anche le mura federiciane-malatestiane meridionali della Rimini medievale sembrano adeguarsi alle linee curve celtiche.

Il ponte sempre a bagno nella subsidenza (Foto di Emilio Salvatori anni ’70).

PALINODIA
Devo ritrattare quanto ho scritto sul secondo porto romano del Raccolto Istorico di Cesare Clementini. Dopo tutto lo storico barocco ha affermato una cosa vera con dettagli falsi, perché cos’altro è il suo “seno di mare” se non l’area sprofondata nella subsidenza?
E allora il primo porto disastrato non potrebbe essere stato trasferito ai bordi della subsidenza subito dopo l’uscita della Fossa Patara, dove oggi i giovani studenti universitari vanno a bere birra? Potrebbe.
Tuttavia continuo a pensare che il muro mirabile non sia nato su un molo antico… Scavi mirati potrebbero darci informazioni esatte.
Vorrei essere chiaro sui precedenti storiografici: Luigi Tonini (1807-1874) rimane il più grande nostro storico dell’800 malgrado si sia sbilanciato con le mura marine e il corso del fiume Marecchia. Guido Achille Mansuelli (1916 – 2001) è un grandissimo archeologo, anche se nella sua giovanile tesi di laurea, Ariminum, pubblicata nel 1941 si è troppo fidato del Tonini. Mansuelli mi ha nominato ispettore onorario dei comuni di Medicina e Castel Guelfo, quando frequentavo la Soprintendenza di Bologna e beneficiavo anche delle lezioni ‘domestiche’ di Giovanna Bermond Montanari, con la quale ho partecipato agli scavi di Trebbo sei vie – un sito dell’età del bronzo sulla via S. Vitale vicino a Budrio – e di Maria Bollini, con la quale ho partecipato agli scavi di Claterna – città romana scomparsa – ed ero amicissimo di Giancarlo Susini: quanto mi piacerebbe discutere con lui l’ipotesi che le centuriazioni vanno spiegate come un sistema idraulico non meramente stradale. Tutti maestri che altri si sognano.
Infine mi auguro che il tema comune a tutti di Ariminum venga trattato sistematicamente e continuamente da tutti gli studiosi grandi e piccoli magari riuniti in un’associazione ad hoc. Intanto Rimini 2.0 apre una pubblica discussione su quanto qui è esposto.

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