Il ponte perfetto e i sindaci che l’hanno manomesso

Il ponte perfetto e i sindaci che l’hanno manomesso

I due millenari del ponte di Augusto e Tiberio in un libro importante, aperto e chiuso dall'attuale sindaco e da quello cessato. Il commento del prof. Rimondini.

Il ponte romano di Rimini venne iniziato nel 14 e concluso nel 21 dopo Cristo. Il 2014 era l’anno del bimillenario dell’inizio della sua costruzione, Manlio Masini dedicò il secondo numero di “Ariminum” alla celebrazione dell’evento, con l’intervento di diversi studiosi – nel 2017 avrebbe poi dedicato un numero di “Ariminum” al centenario della nascita di Sigismondo Pandolfo Malatesta –, perché l’amministrazione del tempo, allergica alla storia, non badava alle ricorrenze culturali.
Nel 2021, bimillenario della fine dei lavori del ponte e dell’amministrazione di Andrea Gnassi (2011-2021), è il personale del museo a dedicare formalmente al ponte un libro intitolato Il ponte perfetto. 2000 anni di storia del Ponte di Augusto e Tiberio, come si ricava dalla introduzione firmata da Angela Fontemaggi e Orietta Piolanti, anche loro sul piede di partenza, e da Francesca Minak. Ed ecco subito una prima influenza del bimillenario di “Arimunum”, il ponte riacquista il suo nome storico “ponte di Augusto e Tiberio” lasciando quello popolare “ponte di Tiberio” perché storicamente incompleto e fuorviante.
Sulla scelta del nome del ponte ci dev’essere ‘sotto’ uno schieramento, perché il titolo del libro e la maggior parte degli autori usa il nome “ponte di Augusto e Tiberio”, ma il cessato sindaco e quello in carica usano il titolo popolare “ponte di Tiberio”.
La copertina del libro presenta un particolare del ponte di Augusto e Tiberio, con due pilastroni orlati di nero dove toccano l’acqua, una sorta di nastrino di lutto che si raddoppia nello specchio della PIAZZA DELL’ACQUA SPORCA e forse anche pericolosa, come l’acqua riciclata della pozzanghera davanti a Castel Sismondo, un brodo di batteri e virus, dove genitori poco intelligenti fanno sguazzare i loro bambini.

Lo sporco nero nel punto di contatto tra l’acqua e il ponte. La piazza dell’acqua sporca, come il tappeto che copre la sporcizia.

 

L’INTERVENTO DI ANDREA GNASSI

Nel 2021 ci si sarebbe aspettati una presentazione del sindaco cessante, ma il libro è uscito nel 2022 e la presentazione l’ha fatta un pallido Jamil Sadegholvaad, giusto due righe, col nome del Palladio come unico chicco di uvetta culturale, e per ricordare la piazza sull’Acqua sporca opera del suo predecessore e mentore, sull’opera del quale ha il coraggio di scrivere:

“Il ponte perfetto simbolo del superamento dei limiti, dell’abbattimento delle barriere e del dialogo attraverso la costruzione di relazioni. In questi tempi bui il ponte ci riporta alle radici della nostra apertura all’altro.”

Il cessato sindaco cosa c’entra con il “dialogo”? Jamil, sai meglio di me che il cessato sindaco è stato un solista, non ha mai cantato con altri cantanti e tanto meno nel coro. Ma perché a proposito delle imprese del cessato sindaco qualcuno deve capovolgere la verità che è sotto gli occhi di tutti, come quando una commissione di badaloni gli ha dato un premio per avere salvato i monumenti di Rimini, il cessato non ha salvato i monumenti di Rimini, li ha cementati. Lo abbiamo visto e lo vediamo tutti.

La presentazione di Andrea Gnassi di una sola pagina è stata declassata ad intervento a p. 237 col titolo Il ponte nella città che cambia. Vale la pena di leggerlo e di commentarlo [anche tra parentesi quadre in corsivo] come esempio di patologia politica antidemocratica, di tentativo di azzeramento delle leggi che proteggono i Beni Culturali, di prospettiva solipsistica e di degrado delle istituzioni, qui verificata solo in relazione ai Beni Culturali.
Inizia dandoci una lezione di linguistica – e lui non è un linguista – pons deriverebbe, scrive, dalla radice “path andare“, un tema “del movimento, della fuga”. Ci si chiede chi debba fuggire e perché, ma atteniamoci al politico.
Il cessato sindaco imbastisce un discorso di contrapposizione tra il ponte “monumento alla stabilità” in relazione al “movimento”. Quello che vuole attaccare e abolire, e lo scrive più volte, sono le leggi e i decreti che proteggono i Beni Culturali, ignorando del tutto l’articolo 9 della Costituzione:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. TUTELA IL PAESAGGIO E IL PATRIMONIO STORICO E ARTISTICO DELLA NAZIONE.”

Hai capito Gnassi? La Costituzione non dice che TUTELA IL PATRIMONIO STORICO E ARTISTICO DELLA NAZIONE in un CONTESTO che ne permetta la manipolazione.
In contrapposizione alla sacralità di questo pronunciamento, Gnassi allega le sue chiacchiere senza senso concreto sulla gente della Piazza sull’Acqua sporca. E poi quale problema gli ha mai opposto la Sovrintendenza Archeoloigia Belle Arti e Paesaggio per il ponte?
Questa reiterata opposizione alle leggi che proteggono i Beni Culturali deve avere un’altra mira, forse si tratta delle leggi che dalla fine della guerra avrebbero dovuto sloggiare l’asilo svizzero dall’Anfiteatro? In questo caso Rimini, a proposito di leggi che proteggono i Beni Culturali, è sempre stata un comune fuorilegge.

Uno dei disastri dei lavori degli anni ’70.

 

“LA MATRICE DI UN NUOVO MODO DI INTENDERE LA CITTÀ”, IL SUO MODO SENZA STORIA

Il cessato sindaco vuole “tratteggiare il senso del ponte di Tiberio per la Città di Rimini [ma lui non è la città di Rimini come crede di essere stato, è stato solo il sindaco della città di Rimini, non può parlare da solo per la città di Rimini – la città di Rimini siamo tutti noi e tutti i Riminesi che ci hanno preceduto nei secoli – o parlare anche per l’Italia, come a volte ha pur fatto] così come valorizzato, o cercato di valorizzare dall’inizio del secondo decennio del XXI secolo.

“Anche la tutela archeologica di un luogo deve essere compresa in un ragionamento più ampio e contemporaneo, COSA VOGLIAMO CHE SIA IL PONTE DI TIBERIO? Un ponte transitabile dalle auto? Uno spazio per tavolate estive? Oppure la matrice di un nuovo modo di intendere la città al di là di ogni ingombro fisico, a favore di un viaggio senza fine?”.

Quando il cessato sindaco scrive COSA VOGLIAMO CHE SIA IL PONTE DI TIBERIO? è perché crede che l’essenza e l’esistenza del ponte di Tiberio dipenda da NOI, ma non noi Riminesi, noi VOGLIAMO è un plurale maiestatis va letto come: COSA VOGLIO IO. Perché il nostro cessato è un solista, non canta nel coro, come già osservato.
La domanda legittima e anche di buon senso è: COSA POSSIAMO VOLERE CHE SIA IL PONTE DI TIBERIO? COSA POSSO VOLERE CHE SIA IL PONTE DI TIBERIO? Il quale ponte non è soggetto a Gnassi come una sua proprietà, e non è nemmeno proprietà dei Riminesi, appartiene alla Romagna, a tutta l’Italia, all’Europa, all’Umanità.

Seguono nel messaggio gnassiano le righe storiche – e lui storico non è – un piccolo brano di storiografia romana di sapore nettamente fascista:

“Il ponte di Tiberio non è solo un elemento di particolare pregio storico e architettonco da blindare in una casa di vetro o in una teca over size. Come del resto non può essere avvilito a cavalcavia come tanti per chi, con l’auto percorre Rimini da nord a sud [veramente per i Romani era ovest est e viceversa, ma fate caso a queste personali segnalazioni di estremi che anticipano la sua soluzione individuale ovviamente nel giusto mezzo; intanto alla storia ha fatto un inchino e uno sberleffo, ma il giusto mezzo soggettivo che ignora la legge oggettiva non vale legalmente; e poi le auto, Daverio era emozionato nel vedere un ponte bellissimo, antico che funzionava da 2000 anni mentre i ponti costruiti da pochi anni crollavano. Con l’eliminazione delle auto il ponte ha perduto la sua “utilitas” la sua funzione di ponte].
Quel luogo deve essere scrostato dal lavorio bimillenario dell’uomo per essere riportato al giorno 1 della sua nascita: quello è il punto di origine della via Emilia [non che si capisca bene, sembra che la via Emila nasca dal ponte; era invece già lì, se calcolo bene, da 203 anni: 189 a. C +14 d. C.]

Il modellino del ponte senza rampe, esposto nel Museo, è ora di nasconderlo.

 

LA “CIVILTÀ DELL’AQUILA”

“Roma, i suoi fasti, la repubblica e l’impero, il suo senso dello stato e la missione, una sorta di apostolato di civilizzazione a trazione bellica, per inglobare ‘orbi’ in ‘urbi’ [non è nemeno un latinista, voleva dire inglobare l’orbis nell’urbs, il mondo nella città; l’urbi et orbi significa “alla città e al mondo” direzioni della benedizione papale]. La visione del mondo romana è nelle infrastrutture: nel reticolo di strade, acquedotti, soluzioni avveniristiche per l’epoca, per unire il mondo conquistato e conosciuto. La via Emilia in tale scenario, è forse la linea su carta più ambiziosa, generata da un punto atipico – un ponte [bè no, c’è proprio uno svarione di cronologia storica, ma chi ha insegnato la storia a questo!] per dirigersi e allargarsi verso nord, verso le terre dei popoli da ‘educare’ alla civiltà [qui ricorda Virgilio: parcere victis et debellare superbos, perdonare ai vinti debellare i ribelli superbi; ma c’è un’aggiunta strepitosa, eccola], la civiltà dell’aquila.
Il Ponte di Tiberio è il capitolo 1 di questa storia che, come un capolavoro di Michelangelo o di Orson Welles, volutamente non ha avuto una fine ed è destinato a non averne mai.”

Negli anni ’70 il ponte è andato vicino ad avere una fine, quando gli sprovveduti amministratori del tempo lo affidarono al ‘brutalista’ Viganò, ma di questo vedi sotto. Nel discorso del cessato sindaco subito dopo i Romani chi viene a voi adesso?

IL NODO FILOSOFICO – E LUI FILOSOFO NON È – E LA DERIVA NEL BANALE

“Il lavoro fatto negli ultimi 10 anni sulla valorizzazione di quel ‘luogo non’, ovviamente l’opposto del ‘non luogo’ nell’accezione di Marc Augé [non si capisce bene; ricorriamo a Google: “Marc Augé definisce nonluoghi in contrapposizione ai luoghi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici” ma Gnassi cosa intende per ‘luogo non’?] si è completamente svolto intorno al concetto di infinito. Quello è un passaggio mai uguale a se stesso e in quanto tale trova la sua relazione non attraverso la sacrale monumentalizzazione ma l’interrelazione continua con l’uomo [ho capito, credo, Gnassi scomoda l’infinito e fa del ponte un ‘luogo non’ per sottrarlo alla legge di tutela dei Beni Culturali]”.

In quest’immagine e sotto, le piastre intirantate inserite negli anni ’70. Foto Emilio Salvatori.

 

I DISASTRI DEGLI ANNI ’70

L’era gnassiana del ponte è stata preceduta da un disastro archeologico e ambientale voluto dall’insipenza degli amministratori comunali che il cessato non considera per niente e fa male perché le sue conseguenze sono sempre lì. Negli anni 70 il ponte con il porto e il fiume era stato affidato al “brutalista” – brutalista è un architetto che ha un legame libidico col cemento – Vittoriano Viganò (1919-1986). Distruzione di una torre malatestiana a guardia del porto, sostituita da scale in cemento, costruzione di banchine soggette all’acqua alta – un tocco di Venezia – costruzione sopra un muro di massi squadrati romani di una banchina in cemento che non si vede perché rimane sempre sott’acqua. Fortuna che il verde del parco fu affidato a Pietro Porcinai (1910-1986) bravo paesaggista. Ma il prelevamento di una quantità sterminata di ghiaia per 4 metri di profondità fece apparire delle crepe sul ponte. Il rimedio fu superiore al male, le masse di ghiaia vennero sostituite dalle “piastre intirantate”, enormi blocchi di cemento che in occasione di terremoti dovrebbero staccarsi per non coinvolgere nel loro movimento il povero ponte. Intorno al ponte c’è ora una gora di acqua sporca.

La copertina stessa del libro mostra i piloni del ponte che a livello dell’acqua presentano delle linee nere, che sembrano dei nastri a lutto, cme già notato.
E intorno a quest’acqua sporca il sindaco filosofo che “restituisce” il ponte alla gente, ha costruito il suo piazzale sull’Acqua sporca. Per non parlare poi delle assurde fontanelle della stazione ferroviaria con la logica del “chi se ne fotte dei non vedenti e dei bambini”, che spruzzano acqua riciclata destinata a diventare un brodo di batteri e virus. Quando mi capita di passare nei pressi della pozzanghera davanti al castello, senza barriere che la delimitino, e vedo dei bambini sguazzare nell’acqua, avviso le mamme e i papà dei pericoli di infezioni. Mi dicono: l’acqua sarà disinfettata col cloro; a me non sembra di sentire l’odore del cloro.

La presentazione di Gnassi termina esaltando un percorso con le opere del suo regime lungo la passerella alla destra del ponte fino al castello, che chiamava il “rudere” e adesso. dopo averlo cementato e destinato ai ciaffi felliniani, nota “tutta la sua magnificenza”.

 

RADICI DEL DISPOTISMO VETEROCOMUNISTA

Non ce l’ho personalmente con Andrea Gnassi, è stato un mio studente nel Liceo A. Serpieri, o sì? Il suo centralismo amministrativo ha un’origine storica conosciuta. Dipende dal fenomeno del così detto “centralismo democratico” che ha caratterizzato tutta la storia del Pci. Era un sistema per avere un partito esercito ed eliminare le divisioni interne al partito: quando arrivava da via delle Botteghe Oscure a Roma una circolare, tutti i notabili del partito si riunivano nelle sezioni e prima anche nelle cellule e nelle case, leggevano il messaggio e poi secondo l’ordine della beccata un notabile dopo l’altro si dichiarava d’accordo con il parere del compagno segretario del partito. Se qualcuno faceva delle obbiezioni, veniva subito espulso dal partito.

Così era nata una pletora di piccoli despoti insindacabili perché ogni autorità del partito ai diversi livelli era una copia conforme del segretario romano, e la massa delle persone non era educata a ragionare ma doveva tacere terrorizzata seguendo le verità ufficiali.
Non era propriamente un’educazione alla democrazia della nostra Costituzione, ma alla passività e all’ubbidienza cieca.
Magari Gnassi aveva delle buone intenzioni, ma con la sua insindacabile e infantile contrapposizione – BELLO È IL NUOVO E IL CEMENTO / IL VECCHIO E L’ANTICO SONO DA ROTTAMARE CON LE LEGGI CHE PROTEGGONO I BENI CULTURALI – ha combinato dei disastri.

E così fra i disastri che ha inflitto a Rimini il peggiore è stato la cementificazione del fossato di Castel Sismondo, opera certa di Filippo Brunelleschi accettata in tutto il mondo ma non dalle vestali della tradizione storiografica di Rimini che continuano a parlare di “una consulenza”. No badaloni, nei libri di storia dell’architettura dell’Italia, dell’Europa e di tutto il mondo si parla di autorìa non di consulenza, perché volete diminuire una gloria certa di Rimini?

Filippo Brunelleschi è un genio assoluto, della decina scarsa che noi Italiani abbiamo avuti nella nostra storia. E sono: Giotto, che ha cambiato la pittura dell’Occidente; Dante, che ha formato la nostra lingua e ha illuminato la cultura dell’Europa; Brunelleschi che ha varato il Rinascimento, una cultura artistica e scientifica che si è diffusa nei secoli in Europa e nel mondo; poi chi c’è? Forse Machiavelli inventre della scienza politica; sicuramente Galilei iniziatore della fisica; forse Marconi, forse Fermi… poi ci sono migliaia di grandi artisti e scienziati come Leon Battista Alberti, creatori di opere meravigliose, ma non sono propriamente geni assoluti…

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